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182 viii - adriano in siria


Emirena. Non so dove s’apprenda

tal arte a porre in uso.
Aquilio.   Eh! che pur troppo
voi nascete maestre. Aver sul ciglio
lagrime ubbidienti, aver sul labbro
un riso che non passi
a’ confini del sen; quando vi piace,
impallidirvi ed arrossir nel viso,
invidiabili sono
privilegi del sesso: in dono a voi
gli ha dati il cielo, e costan tanto a noi.
Emirena. Tu, die in corte invecchiasti,
non dovresti invidiarne. Io giurerei
che fra’ pochi non sei, tenaci ancora
dell’antica onestá. Quando bisogna,
saprai sereno in volto
vezzeggiare un nemico, acciò vi cada;
aprirgli innanzi il precipizio, e poi
piangerne la caduta; offrirti a tutti,
e non esser che tuo; di false lodi
vestir le accuse, ed aggravar le colpe
nel farne la difesa; ognor dal trono
i buoni allontanar; d’ogni castigo
lasciar l’odio allo scettro, e d’ogni dono
il merito usurpar; tener nascosto
sotto un zelo apparente un empio fine;
né fabbricar che su l’altrui ruine.
Aquilio. Far volesti, Emirena,
le vendette del sesso. Io non credei
di pungerti cosí. De’ detti tuoi
non mi querelo; anzi, a parlar sincero.
credo ch’io dissi, e tu dicesti il vero.
Consigliarti pretesi.
Emirena. Aiuto e non consiglio io ti richiesi.
Aquilio. Ed io sempre ho creduto
che un salubre consiglio è grande aiuto.