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U
na mattina di novembre Dionisia dava i primi comandi alla sezione, quando la serva del Baudu accorse a dirle che la signorina Genovefla aveva passato malissimo la nottata, e che voleva veder subito la cugina. Da qualche giorno la poveretta non faceva che deperire sempre piú, e da quarantott’ore s’era dovuta mettere a letto.

— Ditele che vengo subito! — rispose Dionisia inquietissima.

Genoveffa moriva; e la finiva d’uccidere l’improvvisa scomparsa del Colomban, il quale, deriso da Clara, aveva cominciato col dormir fuori di casa; poi, cedendo alla pazzia di desiderio che investe i giovanotti sornioni e casti, divenuto il cane obbediente di quella sgualdrina, un lunedí non s’era fatto piú vedere, mandando al padrone una lettera d’addio sul tono di chi si vuole uccidere.

Chi sa che in fondo a quella sfuriata d’innamorato non ci fosse la furberia d’uno scapolo contentissimo di sfuggire a un matrimonio poco di suo gusto? Il negozio non stava meglio della sua promessa sposa: il momento di farla finita era scelto bene. E lo citavano tutti come una vittima dell’amore. [p. 499 modifica]

Quando Dionisia giunse al Vecchio Elbeuf, la Baudu era sola: stava immobile dietro la cassa, col volto scarno e pallido, dinanzi al vuoto e al freddo della bottega. Non avevan piú nemmeno un commesso, e la serva spolverava lei gli scafa mezzo servizio. Un buio gelido cadeva dal sof fitto; passavano ore e ore senza che un cliente venisse a turbare quella tetraggine, e le merci non rimosse si guastavano sempre piú pel salnitro dei muri.

— Che è stato? — domandò subito Dionisia — Genoveffa sta peggio?

La Baudu non ebbe fiato di rispondere: gli occhi le si empirono di lacrime; poi balbettò:

— Non lo so; non mi dicono nulla a me...

È finita! è bell’e finita!...

E guardava intorno il tetro negozio, come se si fosse accorta che la sua figliuola e la sua casa morivano insieme. I sessantamila franchi ricavati dalla villa di Rambouillet erano stati in meno di due anni ingoiati nel baratro della concorrenza. Per combattere col Paradiso, che vendeva ora anche panni da uomo, velluti da caccia, livree, il Baudu aveva speso tutto il suo. All’ultimo era stato vinto e domato, dalle felpe e flanelle del rivale, ch’erano un assortimento quale non mai altri. A poco a poco i debiti eran cresciuti; come ultimo aiuto aveva ipotecata la vecchia casa in Via della Michodière, dove il Finet aveva, tanti anni prima, fondato il negozio: non era ormai che un affare di giorni; tutto crollava, tutto se n’andava in polvere, come un monumento barbaro e cadente che il vento a mano a mano si porti via.

— Lo zio è su, — riprese ella, con voce sof[p. 500 modifica]focata — Ci stiamo due ore per uno: come si fa a lasciar sola la bottega?... per quanto...

Finí la frase con un gesto: se non fosse stato per il loro vecchio orgoglio di commercianti che li teneva dritti al cospetto del quartiere, avrebbero chiuso.

— Dunque vado su — disse Dionisia col cuore stretto da quella disperazione rassegnata che traspariva da tutta la bottega.

— Sí, fa’ presto, figliuola mia... T’aspetta: ha chiesto di te, tutta la notte. Ti vuol dire qualcosa.

Ma in quel momento scendeva il Baudu: aveva il viso livido, e gli occhi iniettati di sangue. Camminava pian piano nell’uscire dalla camera. con l’ansare d’uno che esce da una fatica dura. Per un po’ si guardarono senza dir nulla. Poi, voltosi a Dionisia, egli disse:

— Fra poco... quando dorme ci sembra che sia guarita.

E daccapo ricaddero nel silenzio. Il babbo e la mamma si guardarono. Poi a voce bassa lui ridisse quanto soffriva; e senza nominar nessuno, senza rivolgersi a nessuno:

— Nemmen col capo sotto la mannaia l’avrei creduto!... Era l’ultimo; l’avevo tirato su come un figliuolo. Se m’avessero detto: «Anche lui ti porteranno via; lo vedrai andar via anche lui!» avrei risposto: «Vuol dire che non ci sarà piú il buon Dio in cielo!». E anche lui se n’è andato. Ah birbante! lui che conosceva tanto bene il vero commercio, lui che sapeva tutte le mie idee! Per una donnaccia, per un di quei fantocci che stanno nelle vetrine dei magazzini!... È una cosa da perderci la testa!

Scoteva il capo; guardava vagamente per ter[p. 501 modifica]ra l’impiantito umido, consunto da generazioni di avventori.

— Lo volete sapere? — continuò a voce piú bassa — ebbene! a volte sento che la colpa vera nella nostra disgrazia l’ho io. Già, la colpa è mia, febbre. Avrei dovuto maritarli subito, senza cese la nostra povera figliuola è lassú strutta dalla dere al mio stupido orgoglio, alla mia cocciutaggine, di non lasciar loro la casa in cattive acque! Ora lei avrebbe quello che ama, e chi sa che la loro giovinezza non avesse fatto il miracolo che non ho saputo fare io... Ma io sono un vecchio pazzo: non ho capito nulla: non credevo che ci si potesse ammalare per queste cose qui... Che giovinotto era quello! una bravura, una onestà, una ingenuità, un ordine in tutto, insomma era mio scolaro in tutto e per tutto!

Rialzava la testa, seguitando a difendere le sue idee nel commesso che lo tradiva. Ma Dionisia non poté starlo a sentire; e commossa a vederlo cosí umile, con gli occhi pregni di lacrime, lui che un tempo regnava da padrone brontolone e assoluto, non si seppe trattenere:

— Non lo scusate, zio, per carità!... Non ha mai voluto bene a Genoveffa; sarebbe scappato prima, se aveste voluto dargliela prima. Glie ne ho parlato anch’io; lo sapeva benissimo che Genoveffa stava male per colpa sua, eppure se n’è andato lo stesso!... Domandatene alla zia.

Senza aprir bocca, la Baudu accennò di sí. Allora il vecchio si fece piú livido, e si sentiva strozzare dal pianto che gli saliva alla gola. Balbettò solo:

— Doveva averlo nel sangue! Il suo babbo, il veterinario, è morto, l’anno scorso, per aver corso troppo la cavallina. [p. 502 modifica]

E, senza pensarci, fece con gli occhi il giro del negozio, passando dai banchi vuoti agli scaffali pieni; poi si rimise a guardar la moglie che stava sempre alla cassa aspettando i clienti che non si facevan piú vedere.

— È bell’e finita! — riprese a dire. Ci hanno ammazzato il commercio, e una delle loro sgualdrine ci ammazza ora la figliuola.

Nessuno ebbe il cuore di dir piú nulla. Le carrozze che passavano parevano un rullo funebre, soffocato dalla volta bassa. E in mezzo a quella tristezza delle vecchie botteghe che van morendo, si sentirono colpi sordi da qualche parte della casa. Era Genovefla che s’era svegliata, e picchiava con un bastone che le avevan lasciato accanto, per chiamare.

— Lesti, lesti! — disse il Baudu riscotendosi subito. Cerca di ridere; bisogna che non si accorga di nulla.

1 Anche lui per la scala si fregava forte forte gli occhi per cancellare la traccia delle lacrime. Non appena ebbe aperto l’uscio, al primo piano, si sentí una voce debole che gridava e scongiurava:

— Non voglio restar sola... Oh! non mi lasciate sola... Quando son sola ho paura!

Poi, vista Dionisia, Genoveffa si calmò e sorrise contenta:

— Eccovi!... Come v’ho aspettato da ieri sera! Credevo che m’abbandonaste anche voi!

Faceva compassione. La camera della giovine, una camera stretta e rischiarata da luce livida, dava sulla corte. Da principio il babbo e la mamma avevano messa la malata nella camera loro, ma la vista del Paradiso di rimpetto la commoveva tanto che l’avevan dovuta riportare là. [p. 503 modifica]Stesa nel letto non rivelava piú la forma e l’esistenza d’un corpo, tanto era sottile sotto le coperte. Le braccia scarne consunte dalla febbre ardente dell’etisia si movevano di continuo quasi cercassero qualcosa, con un moto ansioso e incosciente; e i capelli neri, che parevano anche piú folti, suggevano quel povero viso dove agonizzava l’ultima generazione d’una famiglia cresciuta di padre in figlio nel buio di quella cantina del vecchio commercio parigino.

Dionisia intanto, col cuore che le si spezzava dalla compassione, la stava a guardare, senza aprir bocca, per timore di non poter piú rattenere le lacrime. Finalmente mormorò:

— Son venuta subito... Se fossi buona a qualche cosa... Mi volevate... volete che resti?

Genoveffa, col fiato corto, le mani sempre convulse tra le pieghe della coperta, non le levava gli occhi di dosso:

— No, grazie, non ho bisogno di nulla... Soltanto vi volevo dare un bacio.

Anche lei aveva le lacrime agli occhi. Allora Dionisia a un tratto si chinò e la baciò nelle gote, rabbrividendo a sentirsi sulle labbra la fiamma di quelle gote smunte. Ma la malata la stringeva in un abbraccio disperato. Poi guardò il babbo.

— Volete che resti? — ripeté Dionisia. — Se avete qualcosa da farmi fare...

— No, no.

Gli occhi di Genoveffa si volgevano ostinatamente verso il babbo che restava lí ritto, senza saper che dire, strozzato dal pianto. Finalmente capí, e zitto se n’andò. Si sentirono i passi pesanti scendere la scala.

— Ditemi, sta con lei? — domandò la ma[p. 504 modifica]lata subito afferrando la mano della cugina che fece sedere sulla sponda del letto. — Vi ho voluta vedere per questo; voi sola mi potete dire... Non è vero, stanno insieme?

Dionisia, sorpresa da quelle domande, cominciò a balbettare qualcosa e dové finire col riferire le chiacchiere che correvano pel magazzino. Clara, stufa di quel giovinotto che le stava sempre accanto, s’era bell’e guastata con lui; e il Colomban, disperato, le teneva dietro dappertutto, cercando d’ottenere da lei qualche appuntamento, ogni tanto. Dicevano che sarebbe entrato al Louvre.

— Se gli volete bene cosí, chi sa che non torni a voi! — continuò Dionisia per dare alla morente quell’ultima speranza. — Fate presto a guarire, e lui vi chiederà perdono e vi sposerà.

Genoveffa l’interruppe. Era stata a sentire con tutta l’anima sua, piena di una muta passione che parve renderle le forze. Ma ricadde subito.

— No, no! so che ormai è finita... Non dico nulla perché sento il babbo che piange, e non voglio che la mamma stia peggio. Ma me ne vado, lo capisco: e se stanotte vi chiamavo, era per paura di morire prima che facesse giorno... Dio mio! quando penso che non è felice neppur lui!

E perché Dionisia la voleva persuadere che non era poi ridotta al punto ch’ella diceva, la interruppe daccapo, buttando giú a un tratto le coperte col gesto pudico d’una vergine che sta per morire e non ha piú nulla da nascondere. Scopertasi fino al ventre, mormorò:

— Guardatemi, guardatemi!... Chi mai lo crederebbe!...

Dionisia si alzò tremando dalla sponda del [p. 505 modifica]letto, come se avesse avuto paura che un soffio bastasse a distruggere quella misera nudità. Era la fine d’un corpo di sposa consunto a forza d’aspettare, e ridotto alla gracilità dell’infanzia. Lentamente Genoveffa si ricoprí; e ripeteva:

— Lo vedete che non son più una donna. Farei male a volerlo ancora.

Si guardarono per un po’ tutt’e due zitte, non trovando piú una parola. Poi Genoveffa riprese:

— Via, via: andatevene; avete da fare. Grazie; volevo sapere tutto, ora son contenta. Se lo rivedete, ditegli che gli perdono... Addio, mia buona Dionisia. Datemi un bacio: è l’ultimo che mi date.

Dionisia glielo diede, assicurando che glie ne avrebbe dati mille altri.

— Ma che! con un po’ di riguardo...

Ma la malata si mise a scuoter la testa, e sorridendo diceva che ormai lo sentiva troppo bene. E nel vedere che la cugina s’avviava per andarsene:

— Aspettate, picchiate con quel bastone, per far venire il babbo... Ho troppa paura quando resto sola.

Poi entrato il Baudu nella cameretta buia dove passava ore e ore a sedere su una seggiola, si finse tutta allegra, e disse forte a Dionisia:

— Non venite domani; è inutile. Ma domenica v’aspetto; starete tutto il giorno con me.

La mattina dopo alle sei, sull’alba, Genoveffa spirava dopo quattr’ore di rantolo orribile. Il trasporto fu di sabato, con un tempo pessimo, un cielo nero che pesava sulla città. Il Vecchio Elbeuf era parato di bianco; i ceri, ardenti nel giorno tetro, parevano stelle intraviste nella nebbia del crepuscolo. Ghirlande di semprevivi [p. 506 modifica]e un grosso mazzo di rose bianche coprivan la bara; una bara stretta da ragazzina, posata nell’andito buio della casa, a pari del marciapiede, in modo che i legni avevan già schizzato di fango il tappeto. Tutto il vecchio quartiere stillava umidità, col suo odore di muffa, con la continua calca sul lastrico motoso.

Dionisia era lí fin dalle nove per tener compagnia alla zia. Ma, mentre l’accompagnamento stava per moversi, la Baudu, che aveva smesso di piangere con gli occhi arsi di lacrime, la pregò di andare anche lei a vegliare sullo zio che, col suo muto accasciamento e istupidito dal dolore, le dava a pensare. La strada era piena di gente: i piccoli commercianti del quartiere volevan dimostrare ai Baudu la loro simpatia; e v’era in ciò quasi una dimostrazione ostile al Paradiso delle signore, cui davan la colpa della lenta agonia di Genoveffa.

Tutte le vittime del mostro eran lí: il Bédoré con la sorella, cappellai in Via Gaillon, i fratelli Vanpouilles pellicciai, il Deslignières chincagliere, il Piot e il Rivoire negozianti di mobili; perfino la Tatin, quella della biancheria, e il Quinette, guantaio, che da un pezzo eran stati costretti a fallire, s’eran fatti un dovere di venire l’una da Batignolles e l’altro dalla Bastiglia, dove s’eran messi a lavorare in negozi d’altri. Aspettando il carro che tardava dell’altro, tutta quella gente vestita di nero, con i piedi nel fango, dava occhiate d’odio al Paradiso che con le vetrine lucide e allegre sembrava loro un insulto, in faccia al Vecchio Elbeuf, di cui i parati funebri e i ceri rattristavano l’altra parte della strada. Qualche commesso curioso s’affacciava dietro i cristalli, ma il colosso non si moveva [p. 507 modifica]dalla sua indifferenza di macchina, che, slanciata a tutto vapore, non si dà alcun pensiero dei morti che forse lascerà per via.

Dionisia cercava con gli occhi suo fratello Gianni, e lo vide davanti alla bottega del Bourras: lo raggiunse, per raccomandargli di mettersi accanto allo zio e sorreggerlo, caso mai avesse camminato a stento. Da un po’ di tempo, Gianni era serio serio, come se fosse tormentato da qualche brutto pensiero. Quel giorno, stretto in un soprabito nero, divenuto ormai un uomo che si guadagnava i suoi venti franchi al giorno, pareva cosí triste che la sorella ne fu colpita, perché non s’era accorta che volesse tanto bene alla cugina. Per risparmiare a Beppino inutili tristezze, l’aveva lasciato dalla Gras, con l’idea di andarlo a prendere in giornata per fargli abbracciare gli zii.

Il carro ancora non si vedeva, e Dionisia, grandemente commossa, guardava ardere i ceri, quando trasalí al noto suono d’una voce, dietro le sue spalle. Era il Bourras. Aveva chiamato con un gesto un venditore di caldarroste, che stava difaccia sull’uscio d’un vinaio, e gli disse:

— Vigouroux, fatemi il piacere... Ecco qui, levo la maniglia... Se mai vien qualcuno, ditegli di ripassare. Ma già non vi scomoderete; non verrà nessuno!

Poi rimase lí sul marciapiede ad aspettare come gli altri. Dionisia, imbarazzata, aveva data un’occhiata alla bottega di lui. Non ci badava punto ora; in vetrina non c’era che un monte di ombrelli rosi dall’aria e con le mazze affumicate dal gas. Gli abbellimenti che aveva fatti, la tinta verdolina, gli specchi, l’insegna dorata, tutto era sudicio e vecchio con la decrepitezza [p. 508 modifica]rapida e triste del falso lusso impiastricciato su rovine. Con tutto ciò, se le screpolature ricomparivano, se le macchie di umido avevano vinte le dorature sovrapposte, la casa stava ritta ancora, aggrappata ostinatamente ai fianchi del Paradiso delle signore, come una pustola vergognosa che, putrida e già rotta, non volesse ancora cadere.

— Birbanti! — brontolò il Bourras — non vogliono neppure che la portino via!

Il carro che alla fine giungeva s’era arrotato con un carrozzino del Paradiso che rapidamente passava al trotto di due bei cavalli, splendente nella nebbia per le sue vernici. E il vecchio lanciò a Dionisia un’occhiata di traverso, accesa sotto le ciglia irte.

L’accompagnamento si mosse adagio adagio, sguazzacchiando nelle pozze, nel silenzio dei legni e degli omnibus fermati all’improvviso. Quando il carro parato di bianco traversò Piazza Gaillon, sguardi pieni d’odio si ficcarono un’altra volta dietro i vetri del grande magazzino, donde soltanto due ragazze stavano a guardare, contente di quella distrazione. Il Baudu teneva dietro al carro, con passo pesante, quasi macchinalmente: d’un gesto aveva rifiutato l’appoggio di Gianni che gli camminava accanto. Poi, dopo la gente, venivano tre carrozze da lutto. Nel traversare Via Nuova dei PetitsChamps, il Robineau accorse a unirsi al corteo, pallido, invecchiato.

A San Rocco c’eran molte donne ad aspettare; le piccole commercianti del quartiere, che avevano avuto paura della folla. La dimostrazione diventava quasi una sommossa; e quando, dopo l’officio funebre, il carro ricominciò a an[p. 509 modifica]dare, tutti gli uomini lo accompagnarono sebbene ci fosse un bel pezzo di strada da Via Sant’Onorato al camposanto di Montmartre. Bisognò tornare per Via San Rocco e ripassare daccapo davanti al Paradiso delle signore. Quel povero cadavere di giovinetta veniva cosí portato su e giú, intorno al gran magazzino, come la prima vittima caduta sotto le palle di una rivoluzione. Sulla porta, flanelle rosse garrivano al vento come bandiere, e una mostra di tappeti variopinti splendeva in una sanguigna fioritura di rose enormi e di peonie spampanate.

Dionisia, intanto, era salita in un legno; con l’anima presa da tale tristezza e commossa da dubbi cosí pungenti, che non aveva piú avuta la forza d’andare innanzi. Si doveron fermare in Via Dieci Dicembre, davanti i palchi della nuova facciata che intralciavano ancora il movimento della strada. E Dionisia vide il Bourras, rimasto addietro, che trascicava la gamba tra le ruote del legno dov’era sola. Non sarebbe mai potuto arrivare al camposanto, a quel modo. Aveva alzata la testa e la guardava. Poi, a un tratto, egli salí in carrozza.

— Son questi maledetti ginocchi! — mormorò. — Perché vi scostate?... Non v’odio mica!

Lei s’accorse ch’era lo stesso uomo di prima, affezionato e rabbioso: brontolava e diceva che quel diavolo del Baudu doveva avere la pelle dura se resisteva a quel po’ po’ di mazzate sul capo. Il corteo s’era rincamminato; e, affacciandosi, Dionisia poté veder lo zio ostinato ad andare dietro al carro col passo pesante che pareva guidasse il moto cupo e doloroso dell’accompagnamento. Allora ella s’abbandonò in un cantuccio, e ascoltò i lunghi discorsi dell’ombrel[p. 510 modifica]laio, cullata com’era melanconicamente dal moto del legno.

— Guardate un po’ se la polizia non dovrebbe far libera la pubblica strada!... È piú d’un anno e mezzo che son lí con la loro facciata; anche ieri l’altro ce n’è morto uno. Che glien’importa a loro? quando vorranno allargare da capo, metteranno dei ponti sopra le strade... Dicono che siate duemilasettecento impiegati; e che quest’anno gli affari saranno per un centinaio di milioni!... Cento milioni! cento milioni!

Dionisia non sapeva che rispondere. Il corteo era entrato in Via Chaussée-d’Antin, e andava adagio adagio per le carrozze; il Bourras seguitò, con gli occhi smarriti, come sognasse a voce alta. Del trionfo del Paradiso non si rendeva ancora ragione, ma confessava che il vecchio commercio era bell’e rovinato:

— Il povero Robineau è fritto: pare uno che stia per annegare... E i Bédoré, e i Vanpouilles non stan mica meglio! Son come me, hanno le gambe malate. Il Deslignières un giorno o l’altro creperà d’un accidente; il Piot e il Rivoire han l’itterizia. Siamo proprio carini! bel corteo di carcasse si fa a quella povera piccina! Dev’essere un bel vedere quest’accompagnamento di falliti... E pare che degli altri ne debban buscare. Quei briganti hanno messo su i fiori, le mode, i profumi, le scarpe, che so io? Il Grognet, profumiere in Via Grammont, si può preparare a sgombrare; e non darei dieci franchi pel calzolaio Naud, in Via d’Antin. Questa maledizione arriva fino in Via Sant’Anna, dove il Lacassagne con i suoi fiori e le sue penne, e la Chadeuil, che pure fa dei cappelli molto rinomati, tra due anni saranno bell’e sepolti... E [p. 511 modifica]poi altri, e poi altri! Tutti devon cascare. Quando i merciai si mettono a vendere sapone e scarpe, possono anche voler vendere patate fritte! Il mondo ormai va alla rovescia.

Il carro traversava allora la Piazza della Trinità, e Dionisia che, con l’anima straziata, ascol tava il lamento continuo del vecchio, cullata dal funebre incesso del corteo, poté vedere, sboc cando da Via Chaussée-d’Antin, la bara che già cominciava a salire per Via Blanche. Dietro lo zio che camminava col passo muto e cieco d’un bue accoppato, le pareva sentire lo scalpicciò d’una mandria condotta al macello; la sconfitta delle botteghe d’un intero quartiere, il commercio minuto che strascicava la sua rovina acciabattando pel fango nero di Parigi. Il Bourras parlava con voce piú cupa, come rallentata dalla rapida salita della Via Blanche:

— Io per me n’ho buscate abbastanza... Ma l’ho afferrato e non lo lascio piú andare. Ha perduto anche in appello. Dio sa ciò che m’è costato! quasi due anni di processo, e i procuratori, e gli avvocati! non fa nulla; sotto la mia bottega non si passa, i giudici han detto che quella non era una riparazione! Quando si pensa che ci voleva fare, li sotto, una sala tutta lumi, per vedere che effetto facevano le stoffe al gas, un sotterraneo che avrebbe riunito i cappelli con le stoffe! E ora si rode, non la può mandar giú che un vecchio come me, buono a nulla, gli si metta tra i piedi quando tutti son lí ginocchioni davanti ai suoi quattrini... No! mai, mai e poi mai! Può essere che io sia ridotto sul lastrico: fin da quando mi si son messi intorno gli uscieri, so che quella canaglia compra le mie cambiali per rovinarmi. Non vuol dir [p. 512 modifica]nulla; lui dice di sí, io di no; e dirò sempre di no, anche quando sarò fra quattr’assi come quella povera figliolina che va ora sotterra.

Quando arrivarono al Viale di Clichy, la catrozza si affrettò: si sentiva l’ansar della gente, la fretta incosciente del corteo che aveva furia di farla finita. Ciò che il Bourras non diceva chiaramente, era la miseria spaventosa in cui era caduto, stando per annegare e persistendo ancora sotto la grandine dei protesti. Dionisia, che sapeva tutto, ruppe alla fine il silenzio, e disse con voce di preghiera:

— Signor Bourras, non fate piú il cattivo... Lasciate fare a me; li accomoderò io i vostri affari.

La interruppe con un gesto furioso:

— Zitta voi! non son cose che vi riguardano... siete una buona ragazza, voi, e so che me lo fate ammattire quel tale che credeva di comprarvi come vorrebbe comprare la casa mia. Ma che direste voi se vi consigliassi di dire di sí? Mi direste: «Passa via!»... E cosí io! se io dico di no, non ci dovete ficcare il naso voi!

Ed essendosi la carrozza fermata alla porta del camposanto, scese con la ragazza. La tomba dei Baudu era nel primo viale a sinistra. In pochi minuti fu fatto tutto. Gianni aveva tirato da parte lo zio, che guardava la fossa con viso stupidito. Il corteo s’era sparso tra le tombe accanto; tutti i visi di quei commercianti, anemici in fondo ai loro pianterreni malsani, parevano visi malati sotto il cielo color fango. Quando la cassa calò giú lenta lenta, delle gote piene di pustole rosse impallidirono, dei nasi scarni si chinarono, delle palpebre, gialle di bile, rovinate dalle cifre, si voltarono da un’altra parte. [p. 513 modifica]

— Ci dovremmo ficcar tutti in quella fossa! — disse il Bourras a Dionisia che gli era rimasta accanto. — Tutto il quartiere va giú con la poverina... So io quel che voglio dire, il commercio all’antica può andar giú con quelle rose bianche che scendono con lei.

Dionisia ricondusse lo zio e il fratello in una carrozza da lutto. Il resto della giornata lo passò tristissimo. Cominciò a metterla in pensiero il pallore di Gianni; e quand’ebbe capito che si trattava al solito d’una donna, lo volle quetare con l’offrirgli danaro, ma lui scoteva il capo e rifiutava. Faceva sul serio questa volta; amava la nipote d’un pasticcere ricchissimo, e lei non accettava nemmeno i mazzolini di viole. Poi, piú tardi, quando Dionisia andò a pigliare Beppino dalla Gras, questa le disse che era troppo grande oramai e non lo poteva tener piú; ecco un’altra seccatura; bisognava trovargli un collegio, e forse allontanarselo. E, per ultimo, nel portar Beppino dal Baudu, si sentí spezzare il cuore a vedere la disperazione muta di quei due. La bottega era chiusa; lo zio e la zia, in fondo al salottino, s’erano scordati d’accendere il gas, per quanto in quella giornata d’inverno fosse molto buio. Rimasti soli, l’uno in faccia all’altra, nella casa a poco a poco fatta vuota dalla rovina, sentivano, per la morte della figliuola, piú tetre le tenebre e quasi l’ultimo scricchiolio della vecchia casa imputridita dall’umido. Sotto quello sfasciamento, lo zio girava e rigirava, senza potersi fermare, intorno alla tavola, col suo passo di dianzi; muto, cieco: la zia non diceva neppure lei una parola, caduta su una seggiola, col viso bianco d’un ferito che perda il sangue a goccia a goccia. Quando Beppino li baciò e ri[p. 514 modifica]baciò sulle gote gelide, non piansero nemmeno allora. Dionisia si sentiva soffocare dalle lacrime.

Quella sera, per l’appunto, il Mouret la chiamò per discorrere con lei d’un vestitino da bambino che voleva mettere in moda, un misto di scozzese e di zuavo. E lei, fremente di compassione, sconvolta da tanti dolori, non seppe trattenersi; e cominciò a dire del Bourras, di quel povero disgraziato che volevano a ogni costo ammazzare.

Ma non appena sentí il nome dell’ombrellaio, il Mouret uscí dai gangheri. Quel vecchio pazzo, come lo chiamava lui, era la sua disperazione, gli guastava il trionfo, con la stupida ostinazione di non cedere la casa, una schifosa stamberga che sporcava il Paradiso, il solo cantuccio dell’intero isolato che fosse sfuggito alla sua conquista. Era un incubo: chiunque altro gli avesse parlato per il Bourras, avrebbe corso il rischio d’esser messo fuori, tanto il Mouret era tormentato dal bisogno di buttar giú a calci quella casaccia. Ma che cosa volevano che facesse lui? poteva lasciare un tal mucchio di rovine accanto al Paradiso? Bisognava che fosse spazzato via; il magazzino doveva passare oltre. Peggio per quel pazzo! E si metteva a rammentare tutte le offerte che gli aveva fatte; perfino centomila franchi. Chi aveva ragione? Non stava a tirare, dava il danaro che gli chiedevano; ma almeno voleva che non fossero cosí bestie da intralciare il suo lavoro. Chi era che si provava a fermare i treni sulle strade ferrate?

Dionisia l’ascoltava, con gli occhi bassi, non riuscendo a trovare se non ragioni di sentimento. Era tanto vecchio quel pover’uomo! che male c’era ad aspettarne la morte? un fallimento [p. 515 modifica]l’avrebbe ucciso! Allora egli aggiunse che non era nemmeno piú padrone d’impedire la cosa; se n’occupava il Bourdoncle, e il Consiglio aveva bell’e risolto di farla finita. Per quanto ne fosse addolorata e piena di compassione, lei non poté rispondere nulla.

Dopo un silenzio penoso, il Mouret entrò lui dire dei Baudu. Cominciò con compiangerli molto per la morte della figliuola. Erano ottima a gente, onestissimi; ma avevano avuto tutte le disgrazie. Poi riprese i suoi argomenti: in fondo, la colpa l’avevano loro; come si fa a ostinarsi in quella maniera nella baracca putrida del commercio decrepito! Non c’era da farsi le meraviglie se crollava loro sul capo! L’aveva predetto mille volte: anzi, se ne doveva rammentare anche lei, perché le aveva dato l’incarico di avvertire della inevitabile rovina lo zio, se si ostinasse nelle idee ridicole dei vecchi. E la rovina era venuta. Nessuno ormai la poteva scongiurare e nessuno poteva ragionevolmente pretendere che lui si rovinasse per gli altri. Del resto, anche se avesse fatto la pazzia di chiudere il Paradiso, un altro gran magazzino sarebbe cresciuto subito lí accanto, perché l’idea era di tutti, e il trionfo delle città operaie e industriali era sparso in germe dal vento del secolo, che portava via l’edificio sconquassato delle età passate.

A poco a poco, il Mouret ci si riscaldava e trovava parole d’eloquente commozione per difendersi contro l’odio delle vittime involontarie, contro il clamore delle bottegucce moribonde ch’egli si sentiva crescere attorno. I morti non si tengono in casa; bisogna sotterrarli: e d’un gesto egli spazzava via e gettava sotterra [p. 516 modifica]nella fossa comune il cadavere del negozio antico, che con i suoi resti imputriditi, fetidi, diventava la vergogna delle strade, piene di sole, della nuova Parigi. No, no! non sentiva nessun rimorso; non faceva se non ciò che volevano i tempi; e meglio di lui, lo sapeva lei che amava la vita, che aveva la smania dei grandi affari conclusi nella piena luce della pubblicità. Non sapendo che rispondere, Dionisia lo stette per un bel po’ a sentire, e se n’andò con tutta l’anima sossopra.

Quella notte non chiuse occhio; un’insonnia piena di paurose visioni la faceva voltare e rivoltare sotto le coperte. Le pareva d’essere piccina piccina, e dava in un pianto dirotto, in fondo al suo giardino di Valognes, mentre guardava gli uccelli mangiarsi i ragni e i ragni mangiarsi le mosche. Ma dunque era vera quella necessità della morte che ingrassa il mondo, quella battaglia per l’esistenza che faceva nascere gli esseri sul carnaio dell’eterna distruzione?

Si rivedeva poi davanti alla fossa dove avevan calata Genoveffa; rivedeva lo zio e la zia, soli in fondo al salotto buio. Nel silenzio profondo un rumore sordo di rovina traversava l’aria morta: era la casa del Bourras che sprofondava, come minata da una piena. Poi una nuova rovina, e poi un’altra, e poi un’altra: i Robineau, i Bédoré, i Vanpouille, a mano a mano scricchiolavano e si sfasciavano; il commercio minuto del quartiere di San Rocco si struggeva sotto un piccone invisibile, con gl’improvvisi rumori d’una carretta che si scarica. Allora un’immensa pietà tornava a scuoterla. Dio mio! quanti dolori! quante famiglie in pianto! quanti vecchi gittati sul lastrico! quanti spaventosi drammi di rovi[p. 517 modifica]na e miseria! E lei non poteva salvare nesssuno, e sentiva dentro sé che tutto ciò accadeva per il meglio: ci voleva quel mucchio di miserie per la salute di Parigi fiorente. Sul far del giorno, si calmò; e una tristezza rassegnata la teneva con gli occhi aperti, voltati verso la finestra, i cui vetri cominciavano a rischiararsi. Sí, ogni rivoluzione voleva i suoi martiri, né si va innanzi che sui morti. La paura d’esser un’anima malvagia, d’aver lavorato ad assassinare i fratelli, si perdeva ora in un’angosciosa pietà al cospetto di quei mali senza rimedio che sono il parto doloroso d’ogni generazione. Si mise allora a cercare tutti i conforti possibili; e, nella sua bontà, rifletté a lungo sul modo di salvare almeno i suoi dal crollo finale.

Il Mouret, intanto, le si drizzava davanti, con la testa piena di passione, con gli occhi pieni d’amore. Non le avrebbe, di sicuro, rifiutato nulla; era certa che avrebbe fatto per lei quanto piú avesse potuto. E il pensiero le si smarriva, cercando di giudicarlo. Conosceva la vita di lui, non ignorava come prima avesse tratto partito dall’amore, con lo sfruttare di continuo le donne; sapeva che s’era fatto delle amanti per riuscire piú presto, e s’era messo con la Desforges soltanto per aver dalla sua il barone Hartmann; sapeva tutte le altre sue avventure, le Clare trovate e lasciate, il piacere comprato, pagato, buttato da una parte. Ma quelle prove iniziali d’un avventuriero amoroso di cui il magazzino chiacchierava scherzando, si perdevano tutte nell’ingegno e nella grazia vittoriosa di lui. Egli era la seduzione in persona. Dionisia non gli avrebbe mai perdonata la menzogna d’un tempo, la freddezza d’amante sotto la commedia galante delle [p. 518 modifica]cortesie, ma si sentiva disarmata ora ch’egli pativa per lei. Questo affanno lo rendeva migliore. Quando lei lo vedeva tormentato dalla sua impotenza, e lo vedeva espiare duramente, il dispregio per la donna, le sembrava abbastanza punito.

Fin da quel giorno Dionisia ottenne dal Mouret quanto volle che le promettesse nel caso che il Baudu e il Bourras cedessero. Passò qualche settimana: ella andava a veder lo zio quasi tutti i giorni, alla sfuggita, portandogli il dolce sorriso, il coraggio, per rallegrare il negozio tetro. La zia soprattutto le dava pensiero, perché, dalla morte di Genoveffa in poi, era rimasta assorta in uno stupore che faceva male a vederlo. Pareva che la vita l’abbandonasse d’ora in ora, e quando le domandavano che aveva, rispondeva meravigliata che non soffriva, ch’era soltanto come presa dal sonno. Nel quartiere tutti crollavano il capo, e dicevano che la povera signora non avrebbe pianto a lungo la figliuola.

Un giorno Dionisia usciva di casa Baudu, quando, sul punto d’entrare in Piazza Gaillon, sentí un urlo acuto. La folla accorreva, presa da quel terrore e da quella pietà che sommuove a un tratto la strada. Un omnibus, di quelli che vanno dalla Bastiglia a Batignolles, era passato sopra un uomo allo sbocco di Via Nuova di Sant’Agostino, davanti alla Fontana. Il cocchiere ritto a cassetta frenava con un moto concitato i cavalli che s’impennavano; e bestemmiava:

— Dio santo! Dio santo!... Bisogna stare attenti!

L’omnibus s’era fermato. La folla circondava il ferito; per caso c’era lí una guardia. Il cocchiere sempre ritto, invocando la testimonianza [p. 519 modifica]di coloro ch’erano sull’imperiale, e che s’erano anch’essi alzati per spenzolarsi a vedere il sangula gola stretta da una collera sempre cregue, seguitava a spiegarsi con gesti furibondi e scente:

— Non si riesce a capire come la cosa è andata... Chi me l’ha messo tra i piedi! Pareva in casa sua. Ho urlato, ed ecco lui che mi va sotto le ruote!

Allora un operaio, un imbianchino ch’era accorso col suo pennello da una fabbrica vicina, disse con voce stridula in mezzo a quei discorsi:

— Non t’arrabbiare cosí! L’ho visto io: s’è buttato apposta!... Ha fatto cosí, con la testa innanzi! Eccone un altro che della vita n’aveva abbastanza, a quel che pare!

Altre voci si alzarono: tutti convennero nell’idea d’un suicidio, mentre la guardia faceva il processo verbale. Delle signore, pallide pallide, scendevano leste dall’omnibus portando con sé, senza aver cuore di voltarsi, l’orrore della scossa molle che avevan sentito nel passar sopra al corpo. Dionisia, intanto, s’avvicinò per quella sua compassione attiva che la faceva entrare in tutti i casi: cani schiacciati, cavalli in terra, operai cascati dai tetti. E sul lastrico riconobbe il disgraziato, svenuto, col soprabito tutto fango.

— È il signor Robineau! — esclamò nel suo doloroso stupore.

La guardia si mise subito a interrogarla, ed ella ne disse nome, cognome, professione, indirizzo. Per la bravura del cocchiere, l’omnibus s’era un po’ deviato, e soltanto le gambe del Robineau s’eran trovate sotto le ruote. C’era per altro il pericolo che fossero rotte tutt’e due. Quattro uomini di buona volontà trasportarono [p. 520 modifica]il ferito da un farmacista di Via Gaillon, mentre l’omnibus si rimetteva in cammino adagio adagio.

— Dio santo! — disse il cocchiere dando una frustata ai cavalli — la mia giornata l’ho avuta!

Dionisia aveva tenuto dietro al Robineau dal farmacista. Questi, mentre aspettavano un medico, dichiarò che non c’era lí per lí nessun pericolo, e che il meglio era di portare il ferito a casa sua, dacché stava vicino, Un uomo era andato al posto di polizia a chiedere una lettiga. Allora la giovine ebbe il buon pensiero di correre avanti, per preparare la Robineau al colpo terribile. Ma le ci volle del bello e del buono per traversare la folla che, aumentando ogni minuto, s’accalcava avidamente su l’uscio: donne e ragazzi si alzavano su la punta dei piedi, resistendo ai brutali spintoni; e ogni ultimo venuto inventava la sua storiella. Dicevano trattarsi d’un marito, che l’amante della moglie aveva buttato dalla finestra!

In Via Nuova dei Petis-Champs Dionisia vide da lontano la Robineau su l’uscio del negozio. Ebbe cosí un pretesto per fermarsi, e si mise a discorrere, cercando il modo di far meno terribile la notizia. Il negozio mostrava il disordine, l’abbandono delle ultime battaglie in un commercio che sta morendo. Era la fine prevista dall’accanita gara tra le due sete rivali; la «Parigi-Paradiso» aveva uccisa la concorrenza con un nuovo ribasso di cinque centesimi: la davano ora a quattro e novantacinque, e la seta del Gaujean aveva avuto il suo Waterloo. Da due mesi il Robineau, ridotto a campare giorno [p. 521 modifica]per giorno, faceva una vita da inferno per impedire il fallimento.

— Ho visto passare vostro marito in Piazza Gaillon — mormorò Dionisia, a poco a poco entrata nel negozio.

La Robineau, che dava ogni tanto un’occhiata inquieta verso la strada, disse vivamente:

— Ah! or ora?... L’aspetto; dovrebbe essere di già qui. Stamattina è venuto il signor Gaujean e sono usciti insieme.

Era sempre graziosa, delicata, allegra; ma una gravidanza assai inoltrata la stancava, e restava piú sbalordita, piú imbrogliata che mai, in quegli affari che non eran fatti per la tenera indole sua, e che andavano male. Lo domandava spesso lei: perché tutto quell’affanno? non era meglio vivere tranquillamente in fondo a una casina e mangiar pane solo?

— Non c’è bisogno di nascondervelo a voi come van le cose, mia buona Dionisia... Vanno male! e il mio povero marito non dorme piú. Anche oggi quel Gaujean l’ha tormentato per certe cambiali scadute... Mi sentivo morire di inquietudine, a stare lí sola sola.

E stava per tornare sull’uscio, quando Dionisia la fermò: aveva sentito lontano un rumor di folla, e capí ch’era la barella col codazzo dei curiosi. Allora, a gola secca, non trovando le parole di conforto che avrebbe voluto, dové parlare:

— Non vi spaventate, non c’è pericolo... sí, ho visto il signor Robineau; gli è accaduta una disgrazia... Lo portano qui; non vi spaventate, ve ne supplico!

La signora l’ascoltava, bianca come un cencio lavato, senza capir bene ancora. La strada [p. 522 modifica]s’era empita di gente; i cocchieri fermati bestemmiavano, degli uomini avevan posato la lettiga davanti all’uscio del magazzino per aprire i due battenti a cristalli.

— Una disgrazia! — continuava Dionisia che voleva nasconderle il tentativo di suicidio. — Era sul marciapiede; è scivolato sotto le ruote d’un omnibus... oh! soltanto i piedi. Si cerca un medico. Non vi spaventate!

Un gran tremito scoteva la Robineau. Mandò due o tre gridi inarticolati; poi non parlò piú, e si buttò accanto alla lettiga di cui aprí le tende con mani tremanti. Gli uomini che avevano portato la lettiga aspettavan davanti la casa per riportarla via, quando fosse arrivato il medico. Non osavano piú toccare il Robineau ch’era tornato in sé e che soffriva atrocemente al piú piccolo moto. Quando vide la moglie, due grosse lacrime gli caddero giú per le gote: lei l’aveva abbracciato stretto stretto, e piangeva guardandolo fisso. Nella via la folla continuava, i visi s’accalcavano come al teatro, con occhi luccicanti; alcune operaie, scappate da un laboratorio, pareva volessero rompere le vetrine per veder meglio. Per sfuggire a quella febbre di curiosità, e sembrandole insieme che non convenisse lasciare aperto il negozio, Dionisia pensò di tirar giú la serranda di ferro. Girò da sé la manovella; il meccanismo stridé quasi in suon di lamento, le lamine scendevano lente come un pesante sipario che cada al termine d’un quinto atto. E quando tornò dentro, ed ebbe richiusa dietro di sé la porticina, vide la Robineau stringersi ancora il marito tra le braccia, perdutamente, nella mezza luce che cadeva dai due occhi tagliati nella serranda metallica. La bottega sem[p. 523 modifica]brava che scivolasse verso il niente; soltanto quei due occhi a stella luccicavano sulla disgra zia brutale e improvvisa, avvenuta sul lastrico di Parigi. Finalmente la Robineau poté spiccicare qualche parola:

— Oh, amor mio... amor mio... amor mio!

Ma non sapeva dire altro, e il disgraziato, col ventre di madre che si schiacciava sulla let tiga, si sentí soffocare, e, preso dai rimorsi, disse tutto. Quando non si moveva, sentiva soltanto il piombo ardente delle sue gambe.

— Perdonami, dovevo essere pazzo... Quando il procuratore mi ha detto, davanti al Gaujean, che domani saranno apposti i suggelli, ho visto come delle fiamme che mi ballassero davanti, come se i muri ardessero... E poi, non mi ricordo piú di nulla: venivo giú per Via della Michodière, e mi pareva che tutti quelli del Paradiso mi canzonassero; quella immensa baracca mi schiacciava... E passato un omnibus; ho pensato al Lhomme e al suo braccio, e mi son buttato là sotto.

La Robineau era a poco a poco caduta a sedere sull’impiantito, inorridita. Dio mio! s’era voluto ammazzare! E afferrò la mano di Dionisia, che s’era chinata verso di lei, sconvolta da quella scena. Il ferito, spossato dalla commozione, era da capo svenuto. E il medico che ancora non arrivava! Due uomini l’avevano già cercato dappertutto; anche il portinaio era andato a vedere di trovarne uno.

— Non vi disperate cosí!... — ripeteva Dionisia senza accorgersene, e singhiozzava anche lei.

Allora la Robineau, seduta per terra, con la [p. 524 modifica]testa all’altezza della lettiga, la gola appoggiata al materasso dove giaceva il marito, si sfogò:

— Oh! se vi raccontassi... Per me, ha cercato di morire! Me lo diceva sempre: «Ho rubato tutto il tuo! il danaro non era mio!». E la notte non faceva che fantasticare su quei sessantamila franchi; si svegliava tutto sudato, diceva che non era buono a nulla, che non sapeva fare, non doveva arrischiare i quattrini degli altri... sapete com’è sempre nervoso, e come si tormenta da sé. Finiva col vedere cose che mi facevan paura; mi vedeva per la strada a mendicare; e mi voleva invece tanto bene, mi desiderava invece ricca, felice...

Ma nel voltarsi lo trovò con gli occhi aperti, e seguitò singhiozzando:

— Amore mio, perché hai fatto cosí?... Mi credi tanto cattiva, dunque? Che me n’importa se siamo rovinati? Basta stare insieme: insieme non saremo infelici... Lascia che si piglino tutto, loro. Lavorerai, e vedrai come si starà bene.

Era caduta con la fronte accanto al viso pallido del marito, e tutt’e due non aprivano bocca piú, nella commozione della loro angoscia. In quel silenzio, la bottega pareva dormisse sotto lo scialbo crepuscolo che la inondava; e dietro la serranda si sentiva il frastuono della strada, la vita del giorno pieno, che passava col rumore dei legni, e la folla dei marciapiedi frettolosa. Finalmente Dionisia, che andava ogni po’ a dare un’occhiata per la porticina sull’atrio della casa, tornò gridando:

— Ecco il medico!

Il portinaio aveva trovato un giovane dagli occhi vivaci. Volle visitare il ferito, prima che [p. 525 modifica] lo mettessero a letto. Una gamba sola, la sinistra, era rotta sopra la nocca del piede. La rottura era semplice: c’era da sperare non nascessero complicazioni. E stavano per portare la lettiga in fondo, nella camera, quando comparve il Gaujean: veniva a dire d’un ultimo tentativo andato a vuoto. Il fallimento era inevitabile.

— Ch’è stato?

Dionisia in poche parole glielo spiegò. Rimase male. Il Robineau gli disse allora debolmente:

— Non vi tengo rancore, ma un po’ di colpa ce l’avete anche voi!

— Dio santo! — rispose il Gaujean — bisognava che noi si fosse piú forti. Lo sapete che io non sto mica meglio di voi!

Alzarono la lettiga. Il ferito poté avere ancora la forza di dire:

— No, no, anche a essere più forti sarebbe stato lo stesso!... Capisco che ci restino i vecchi ostinati, come il Bourras e il Baudu, ma noialtri che eravamo giovani e che si accettava le idee nuove!... No, vedete, Gaujean, è la fine d’un mondo!

Lo portarono via. La Robineau abbracciò Dionisia con un impeto dove c’era quasi della contentezza, sentendosi libera da quell’imbroglio degli affari. Il Gaujean, andandosene con la ragazza, le confessò che quel povero diavolo del Robineau aveva ragione: era una sciocchezza voler combattere contro il Paradiso delle signore. Anche lui si sentiva perduto, se non si arrendesse. Il giorno innanzi s’era segretamente adoperato con l’Hutin, che doveva appunto andare a Lione: ma disperava della cosa, e cercò di mettere dalla sua Dionisia, conoscendone oramai la potenza. [p. 526 modifica]

— In fede mia, — ripeteva — tanto peggio per le fabbriche! Se mi rovinassi col combattere ancora per amor degli altri, riderebbero di me! Ora tutta la questione sta nel produrre a meno prezzo... Dio mio! Lo dicevo a voi una sera: i fabbricanti non devono far altro che seguire il progresso con un migliore ordinamento e sistemi nuovi. Tutto s’accomoderà; basta che il pubblico sia contento.

Dionisia rispose sorridendo:

— Andatelo a dire al Mouret in persona... Ci avrà piacere, e non è uomo da tenervi rancore, pur che gli offriate anche soltanto il vantaggio, sugli altri concorrenti, d’un centesimo al metro.

La Baudu morí di gennaio, in una bella giornata tutta sole. Da quindici giorni non poteva piú scendere nel negozio di cui stava a guardia una donna. Sedeva sul letto, sorretta da guanciali: nel viso pallido gli occhi soltanto vivevano ancora, e con la testa dritta pur li volgeva ostinatamente verso il Paradiso delle signore, di faccia, traverso le tendine delle finestre. Il Baudu, che ci soffriva a veder quegli occhi cosí disperatamente fissi, voleva qualche volta tirar giú le tende grandi; ma lei con un gesto lo supplicava di no; voleva vedere fino all’ultimo respiro. Le avevano rubato tutto, negozio, figliuola; anche lei se n’era a poco a poco andata col Vecchio Elbeuf, perdendo la vita di mano in mano che perdeva la clientela; morivano sfiniti insieme. Quando si accorse di morire, ebbe ancora la forza di volere che il marito aprisse le finestre. Era bel tempo; un raggio allegro di sole dorava il Paradiso, mentre la camera della vecchia casa era avvolta nell’ombra. Lei restava con [p. 527 modifica]gli occhi fissi dinanzi al monumento trionfale, a quei vetri lucidi dietro i quali passavano e ripassavano i milioni. Gli occhi le si velarono, invasi lentamente dalle tenebre, spalancati, mentre continuavano a guardare, pieni di lacrime grosse.

Un’altra volta tutti i commercianti rovinati del quartiere accompagnarono il carro; i Vanpouilles, lividi per le scadenze del dicembre, pagate con uno sforzo supremo ch’era impossibile ripetere; il Bédoré s’appoggiava su un bastone, tormentato da tali pensieri che gli aggravavano la malattia di stomaco. Il Deslignières aveva avuto un accidente; il Piot ed il Rivoire camminavano zitti, guardando in terra, come bell’e spacciati. E nessuno osava chiedere degli assenti, il Quinette, la Tatin, altri ancora che dalla mattina alla sera si sommergevano e scomparivano nel fiotto dei disastri: senza contare il Robineau ch’era sempre a letto con la gamba rotta. Ma soprattutto eran guardati curiosamente i commercianti cui la rovina pendeva sul capo, il Grognet, la Chadeuil, il Lacassagne, e il Naud calzolaio, che già sentivano l’ansietà del male che li doveva spazzar via, alla volta loro. Dietro il carro veniva il Baudu con lo stesso passo del bue stordito da un colpo di mazza, con cui aveva accompagnata la figliuola, e in fondo alla prima carrozza di lutto si vedevano luccicare gli occhi del Bourras, di sotto la selva dei suoi sopraccigli e dei capelli bianchi come la neve.

Dionisia ebbe un grande dolore. Da quindici giorni era affranta da pensieri e fatiche. Aveva dovuto mettere Beppino in collegio, e Gianni la faceva correre, tanto innamorato della nipote del pasticcere, che aveva supplicato la sorella di [p. 528 modifica]chiederla per lui. Poi la morte della zia, tutte quelle disgrazie, avevano accasciata la povera figliuola. Il Mouret le aveva ripetuto che quanto avesse fatto lei per lo zio e per gli altri, sarebbe ben fatto; parlarono insieme una mattina ch’ella seppe che il Bourras era stato buttato sul lastrico, e che il Baudu stava per chiudere. Poi, dopo colazione, usci con l’idea di consolare almeno quei due.

In Via della Michodière, il Bourras se ne stava dritto sul marciapiede davanti alla casa da cui l’avevano cacciato il giorno innanzi, con un bel tiro, una trovata del procuratore. Il Mouret aveva cambiali di lui, e aveva ottenuto facilmente il fallimento; poi con cinquecento franchi aveva riscattato l’affitto, nella vendita fatta dal curatore del fallimento: e cosí il vecchio caparbio s’era lasciato prendere per cinquecento franchi ciò che non aveva voluto dare per centomila! Ma l’ingegnere ch’era giunto con gli operai aveva dovuto chiamare le guardie per metterlo fuori. Le merci erano state vendute, le camere smobiliate; lui s’ostinava nel cantuccio dove dormiva e dal quale, per un’ultima pietà, non avevano il cuore di scacciarlo. Gli operai si misero alla fine a scoperchiargli il tetto: levate le lavagne imputridite, i soffitti crollavano, i muri si screpolavano, e il Bourras restava sotto i travicelli scoperti, in mezzo alle rovine. Finalmente le guardie l’avevan fatto andar via. Ma la mattina dopo, era ricomparso sul marciapiede di faccia, dopo aver passato la notte in una camera mobiliata lí vicino.

— Signor Bourras... — disse dolcemente Dionisia.

Non la sentiva nemmeno; i suoi occhi di [p. 529 modifica]fiamma divoravano gli operai che davano del piccone sulla facciata. Per le finestre vuote si vedeva ora l’interno, le stanzucce, la scala nera, dove il sole non era entrato mai da duecento anni.

— Ah! siete voi! — rispose alla fine quando l’ebbe riconosciuta. — Che infamia!... ladri!

Dionisia non osava dire piú nulla, commossa a vedere quella rovina, non potendo nemmeno lei staccare gli occhi dalle pietre ammuffite che cadevano. Lassú, nel soffitto della sua antica stanza, vedeva ancora il nome in lettere nere e tremolanti «Ernestina», scritto con la fiaccola. E si rammentava quei suoi giorni di miseria, sentendo una pietà profonda per tutti i dolori. Ma gli operai, a far piú presto, avevano pensato di rompere il muro nella base; e già tentennava.

— Li schiacciasse tutti! — mormorò il Bourras selvaggiamente.

Ci fu un fragore terribile. Gli operai, spaventati, scappavano per la strada. Il muro veniva giú e portava via, con sé, tutto. La casa non si reggeva piú, piena di screpolature, e precipitò come se fosse stata di fango diluito dalla pioggia. Non c’era piú che un monte di macerie, il letamaio del passato gittato sulla via.

— Dio mio! — aveva esclamato il vecchio, quasi gli avessero strappato le viscere.

E restava a bocca aperta: non avrebbe mai creduto che venisse giú tanto alla lesta. Guardava la breccia aperta, il vuoto fatto finalmente nel fianco del Paradiso, libero cosí dalla pustola che lo disonorava. La mosca era stata schiacciata; l’ostinazione accanita dell’infinitamente piccolo era stata vinta; tutto l’isolato era stato in[p. 530 modifica]vaso e conquistato. Della gente s’era fermata e discorreva ad alta voce con gli operai che s’arrabbiavano contro quelle bicocche, buone soltanto a ammazzare la gente.

— Signor Bourras... — ripeté Dionisia, cercando di tirarlo da parte. — Non sarete mica abbandonato! si penserà a tutti i vostri bisogni!...

Ma il Bourras rispose fieramente:

— Non ho bisogno, io... Vi mandano loro, non è vero? Dite, dunque, che il vecchio Bourras sa lavorare ancora, e troverà lavoro quanto ne vorrà... Sarebbe troppo comodo assassinare uno, e poi fargli l’elemosina!

Allora lei lo supplicò:

— Accettate, ve ne prego; non mi date questo dispiacere!

Ma lui scoteva i capelli bianchi.

— No, no... buona sera!... Siate felice voi, che siete giovane, e lasciate che i vecchi se ne vadano con le idee loro.

Dette un’ultima occhiata al mucchio delle rovine, e se n’andò adagio adagio. Dionisia lo vide sperdersi tra la folla del marciapiede, fino alla cantonata di Piazza Gaillon. Poi scomparve.

Lei rimase immobile, con gli occhi smarriti: poi entrò dallo zio, ch’era solo nel tetro Vecchio Elbeuf. La donna di servizio non veniva che la mattina e la sera a cucinargli qualcosa, e aiutarlo ad aprire e a chiudere la bottega. Passava le ore solo, senza che talvolta neppure uno capitasse a smuoverlo, in tutta la giornata; sbalordito e non trovando nemmeno piú le stoffe, quando una cliente capitava lí per caso. E nel silenzio e nel lume fioco, non faceva che camminare col passo pesante del corteo funebre, ce[p. 531 modifica]dendo a un bisogno da malato, come se avesse voluto cullare e addormentare il proprio dolore.

— Vi sentite un po’ meglio, zio? — domandò Dionisia.

Non si fermò che un minuto secondo, per gettarle un’occhiata. Poi si rimise a camminare dalla cassa a un cantuccio.

— Sí, sí, sto benissimo... Grazie!

Lei cercava distrarlo con parole allegre, ma non ne trovava:

— Avete sentito che rumore? La casa è di già in rovina.

— To’! è vero! — mormorò lui meravigliato — doveva essere la casa... Ho sentito tremare tutto... Stamattina, vedendoli sul tetto, avevo chiuso l’uscio.

E fece un gesto, come per dire che quelle cose non gl’importavano piú. Tutte le volte che tornava davanti alla cassa, guardava il sedile vuoto, quel sedile di velluto, su cui erano cresciute sua moglie e poi la figliuola. Quando in quel suo moto perpetuo giungeva alla parete opposta, guardava gli scaffali nei quali finivano d’ammuffire le stoffe. Quanti egli amava se n’erano andati: il suo commercio finiva vergognosamente: lui solo restava col cuore morto e con l’orgoglio domato in mezzo a tante disgrazie. Alzava gli occhi verso il nero soffitto, ascoltava il silenzio sepolcrale fuor dalle tenebre del salottino da pranzo, quel cantuccio familiare di cui già gli piaceva perfino il puzzo di rinchiuso. Poi il suo passo regolare e pesante faceva risonare le antiche muraglie, come s’egli avesse camminato sulla tomba di quanto aveva amato.

Finalmente Dionisia disse perché era venuta: [p. 532 modifica]

— Zio mio, non potete restare cosí! Bisognerebbe uscirne in qualche modo!

II Baudu, senza fermarsi, rispose:

— Certo! ma che devo fare? Ho cercato di vendere e nessuno è venuto... Una mattina o l’altra chiudo bottega e me ne vado.

Lei sapeva che del fallimento non c’era piú da aver paura. I creditori avevano preferito accomodarsi alla meglio, dinanzi a tante disgrazie. Ma, pagato che avesse tutto, lo zio si sarebbe trovato per la strada senza un soldo.

— E dopo che farete? — riprese lei cercando di giungere all’offerta che non osava dirgli.

— Non lo so! Qualcuno mi raccatterà.

Camminava ora dal salottino alle vetrine; e ogni volta dava un’occhiata triste alle mostre dimenticate. Non alzava nemmen piú gli occhi alla facciata trionfale del Paradiso, che a destra e sinistra si perdeva ai due capi della via. Non aveva nemmeno piú la forza di arrabbiarsi, nel suo annichilimento.

— State a sentire, zio, — disse alla fine Dionisia impacciata. — Forse ci sarebbe un posto per voi...

Si interruppe, e balbettò:

— Sí, vi devo offrire un posto d’ispettore.

— Dove?

— Dio mio! là di faccia... seimila franchi, e poco lavoro.

D’un tratto le s’era fermato davanti. Ma invece d’infuriarsi come lei aveva paura, diventava pallidissimo e soccombeva a una commozione dolorosa, amaramente rassegnato.

— Di faccia! Di faccia! — balbettò piú volte. — Tu vuoi che entri, io, di faccia?

Dionisia stessa era presa da quella commozio[p. 533 modifica]ne. Rivedeva la lunga battaglia dei due negozi, rivedeva i funerali di Genoveffa e della zia, aveva sotto gli occhi il Vecchio Elbeuf, vinto e sgozzato dal Paradiso delle signore. E il pensiero che lo zio entrasse di faccia e passeggiasse là in quelle gallerie con la cravatta bianca, le fece sussultare il cuore di compassione e sdegno.

— Via, Dionisia, figliuola mia, è mai possibile? — disse egli soltanto, mentre incrociava le sue povere mani tremanti.

— No, no, zio mio! — esclamò lei con uno slancio di tutta l’anima, giusta e buona. — Sarebbe male... Perdonatemi.

Il Baudu s’era rimesso a passeggiare, e il suo passo scoteva da capo il vuoto sepolcrale della casa. Quando lei se n’andò, continuava a passeggiare e passeggiare, con quel moto ostinato delle grandi disperazioni, che si raggirano su se stesse senza mai uscire dal cerchio atroce.

Dionisia non poté dormire neppure quella notte. Capí che non c’era da far niente; non trovava nessun modo per soccorrere i suoi. Bisognava che assistesse a quell’invincibile opera della vita che vuole la morte per seminare altre vite continuamente. Non combatteva piú, accettava la legge della lotta; ma l’anima sua di donna si empiva di pianto, d’una fraterna compassione all’idea del genere umano condannato a soffrire. Da qualche anno si trovava presa anch’essa tra le ruote della macchina: non aveva sparso anche lei il suo sangue? non era stata illividita, cacciata, strascinata nell’ingiuria? Anche ora qualche volta si spaventava sentendosi scelta dalla logica dei fatti. Perché lei, cosí meschinuccia? perché la sua manina pesava a un tratto, tanto, nel lavoro del mostro? E la forza che spazzava [p. 534 modifica]via tutto, rapiva anche lei, quasi per una rivincita. Il Mouret aveva inventato quella macchina per schiacciare la gente, e il moto brutale di quegli ingranaggi la indignava: aveva coperto il quartiere di rovine; spogliati gli uni, uccisi gli altri: eppure ella l’amava per la grandezza dell’opera sua, l’amava sempre di piú ad ogni eccesso della sua potenza, per quanto dinanzi alla sacra miseria dei vinti prorompesse in lacrime.