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XII

I
l 25 settembre cominciarono i lavori per la nuova facciata del Paradiso delle signore. Il barone Hartmann aveva mantenuta la promessa, e nell’ultima adunanza generale del Credito Fondiario era riuscito a spuntarla.

Cosí il Mouret si vedeva avverati i sogni: la facciata di Via Dieci Dicembre era la splendida conferma delle sue vittorie. Volle per ciò porre con gran solennità la prima pietra e, a far piú lieta la festa, distribuí gratificazioni ai commessi e la sera diede loro a tavola selvaggina e champagne. Quando sul palco, con un colpo di mestola, murò la pietra, tutti lo videro di buon umore e ne osservarono il gesto da trionfatore. Da qualche settimana era inquieto, agitato da un malore nervoso, che non riusciva neppur sempre a nascondere; e quella cerimonia gli dava un po’ di riposo, lo distraeva.

Tutta la giornata parve tornato alla sua bella allegria d’uomo che si sente bene; ma, dopo pranzo, quando attraversò il refettorio per bere un bicchiere di champagne tra i suoi impiegati, ricomparve febbricitante, sorridente per sforzo, con le fattezze contratte dal male dissimulato che lo rodeva. Una ricaduta.

Il giorno dopo, alle «confezioni», Clara vol[p. 453 modifica]le fare un dispetto a Dionisia. S’era finalmente accorta dell’amore del Colomban, e pensò di canzonare il Baudu. Intanto che Margherita temperava il lapis, aspettando gli avventori, essa le disse a voce alta:

— Sapete, quel mio innamorato di faccia... mi fa compassione in quella botteguccia nera, dove non entra mai nessuno.

— Non è poi tanto disgraziato, — rispose Margherita — deve sposare la figlia del padrone.

— To’! — riprese Clara — sarebbe bella portarglielo via!... Gli vado a far l’occhiolino, in parola d’onore.

E seguitò, tutta contenta di vedere che Dionisia ci soffriva. Dionisia le perdonava tutto; ma il pensiero della cugina Genoveffa, logorata da quella crudeltà, e che ne moriva, faceva sí che non potesse piú contenersi. Per l’appunto arrivava una cliente; e siccome la signora Aurelia era scesa nel sotterraneo, spettava a lei dirigere la sezione. Chiamò Clara:

— Signorina, fareste meglio a stare attenta alle clienti, invece di chiacchierare!

— Non chiacchieravo.

— Silenzio! E non perdete piú tempo!

Clara si rassegnò, domata. Quando Dionisia faceva cosí sul serio, non c’era bisogno che alzasse la voce, nessuno le resisteva. Con la sua stessa dolcezza si era acquistata piena autorità. Per un po’ passeggiò in silenzio tra le ragazze che non fiatavano. Margherita s’era rimessa a temperare il lapis, cui si spezzava sempre la mina; non c’era che lei che approvasse la vice del non aver ceduto al Mouret, scrollava il capo, non confessava mai d’aver avuto un bambino, ma ripeteva spesso che, se si sapessero le [p. 454 modifica]conseguenze che può avere una sciocchezza, il perdere la testa anche per un minuto solo, nessuna si porterebbe male.

— Siete arrabbiata? — disse una voce dietro a Dionisia.

Era Paolina, che traversava la sezione. Aveva visto tutto, e parlando sommessa le sorrideva.

— Come si fa? — rispose, anch’ella sorridendo, Dionisia. — Non mi riesce a tenere in freno il mio piccolo regno.

L’altra fece spallucce:

— Via, via, se voleste, sareste regina di ti siamo!

Paolina non capiva ancora perché l’amica tenesse duro. Fin dal luglio aveva sposato il Baugé, ed aveva fatto un grande sproposito, diceva ridendo.

Il terribile Bourdoncle le dava ora della «buona a nulla» come se pel commercio fosse bell’e perduta. E aveva una gran paura che un giorno o l’altro non li mandassero ad amarsi lontano di lí, perché quei signori della Direzione avevano decretato che l’amore era esecrando e mortale alla vendita.

Si trovava al punto che, quando s’imbatteva nel Baugé in qualche galleria, fingeva non vederlo. E proprio allora il sangue le aveva dato un tuffo, essendoci mancato poco che il Jouve non la sorprendesse, mentre, dietro un monte di canovacci, discorreva col marito.

— Eccolo lí, m’è venuto dietro! — aggiunse lei, dopo aver raccontato vivacemente il fatto a Dionisia. — Eccolo lí che ci annusa con quel nasone!

Il Jouve veniva infatti dalle trine, con la sua bella cravatta bianca, a naso ritto, per fiutare [p. 455 modifica]qualche mancanza. Ma, vista Dionisia, si rannicchiò tutto, e passò con aspetto cortesissimo.

— Salvata! — mormorò Paolina. — Siete stata voi che gli avete dato soggezione... Se accade qualcosa direte, non è vero? due paroline stra parola, lo san tutti, basterebbe a buttare all’aria il magazzino!

E s’affrettò a tornare nella sua sezione. Dionisia aveva arrossito: quelle allusioni dell’amica la turbavano. Ma era vero. Sentiva vagamente la sua potenza, per le adulazioni che la circondavano. Quando la signora Aurelia tornò, e trovò la sezione tranquilla e laboriosa sotto la sorveglianza della vice, le sorrise affabilmente. Non stava piú nemmeno tanto attorno al Mouret; ma ogni giorno si mostrava piú amabile per una che poteva da un momento all’altro agognare il suo posto di direttrice. Il regno di Dionisia cominciava.

Soltanto il Bourdoncle s’ostinava a far guerra contro la giovinetta, un po’ anche per antipatia d’indole, ma piú per odio di quella grazia discreta. Poi la combatteva com’essa fosse un influsso pernicioso che avrebbe posto il magazzino in pericolo il giorno che il Mouret ne restasse vinto. Le facoltà commerciali del padrone gli pareva dovessero naufragare tra quella inetta tenerezza; quanto avevano guadagnato per mezzo delle donne, se ne sarebbe andato per colpa di quella donna lí. Nessuna donna, del resto, bastava a scaldarlo; le trattava tutte col disprezzo d’un uomo senza passioni che faceva il mestiere di vivere su di loro, e che aveva perduto le sue ultime illusioni, vedendole a nudo tra le miserie del proprio traffico. Invece d’ine[p. 456 modifica]briarlo, l’odore delle settantamila clienti gli dava intollerabili mali di testa; tanto che la prima cosa che faceva, tornato a casa, era di maltrattare l’amante. E quella ragazzuccia divenuta a poco a poco tanto temibile, gli dava piú noia perché non credeva punto al disinteresse e alla sincerità delle repulse di lei.

Per lui Dionisia recitava benissimo una parte. Se si fosse data al Mouret il primo giorno, lui l’avrebbe dimenticata senza alcun dubbio il giorno dopo; mentre, rifiutando, gli aveva sempre piú acceso il desiderio, e lo rendeva quasi pazzo e capace d’ogni sciocchezza. Una furba, un’esperta viziosa, non avrebbe condotta la cosa altrimenti di quella innocentina.

Per ciò il Bourdoncle non la poteva ora soffrire, con quegli occhi chiari, quel viso dolce, quel modo di fare cosí semplice, senza essere preso da una vera e propria paura, quasi avesse davanti a sé una cannibalessa travestita, il cupo indovinello della donna, la morte con le fattezze d’una vergine. Come fare a mandare a vuoto le astuzie di quella falsa ingenua? Non cercava altro che penetrare nelle arti sue, sperando metterle in piena luce: prima o poi, qualche sbaglio lo doveva pur fare: l’avrebbe colta con uno dei suoi amanti, e l’avrebbe mandata via da capo, restituendo cosí al magazzino il bel movimento di macchina esemplare.

— State attento, state bene attento, signor Jouve! — ripeteva il Bourdoncle all’ispettore. — Poi, a ricompensarvi ci penserò io!

Ma il Jouve non ci metteva troppo ardore, perché aveva bazzicato assai con le donne, e si chiedeva ora, se non era miglior partito schierarsi dalla parte di chi poteva il giorno dopo [p. 457 modifica]diventare padrona assoluta. Non osava piú avvicinarsi a lei, che pareva sempre bella da far impazzire. Il suo colonnello, si rammentava lui, s’era ucciso per una a quel modo, una ragazza delicatina e modesta, che con un’occhiata sconvolgeva i cuori.

— Sto attento! sto attento! — rispondeva. — Ma in parola d’onore, non scopro mai nulla.

Correvano nondimeno storielle, anzi mille chiacchiere maligne, sotto tutto quel rispetto, quelle adulazioni, che Dionisia si sentiva intorno. Tutti ormai raccontavano che l’Hutin era stato il suo amante: non osavano giurare che se la intendessero sempre, ma sospettavano che, di quando in quando, si rivedessero. E il Deloche, anche il Deloche andava a letto con lei; si trovavano sempre nei cantucci piú oscuri, e chiacchieravano per ore intere. Un vero scandalo.

— Dunque, nulla quanto al capo delle sete, e nulla quanto a quell’altro delle trine? — riipeteva il Bourdoncle.

— No, nulla per ora! — affermava l’ispettore.

Il Bourdoncle sperava, sopra tutto, di cogliere Dionisia col Deloche.

Una mattina li aveva visti insieme nel sotterraneo, che ridevano. Ma, frattanto, trattava la ragazza come una potenza; non la disprezzava piú, sentendola tanto forte da poter fare mandar via lui, che aveva dieci anni di servizio, nel caso ch’ella vincesse la partita.

— Vi raccomando quel giovinotto delle trine! — concludeva ogni volta. — Stanno sempre insieme. Se vi riesce coglierli, chiamatemi, e al resto ci penso io.

Il Mouret viveva intanto in un’angoscia con[p. 458 modifica]tinua. Era mai possibile che quella ragazza lo torturasse sí stranamente? E gli pareva sempre di vederla come quando era giunta al Paradiso con i suoi scarponi, col vestituccio nero, con l’aria selvaggia. Non sapeva spiccicare due parole; tutti la canzonavano; anche a lui era parsa brutta, da principio. Brutta! ed ora con un’occhiata, lei, se lo poteva far inginocchiare davanti! non la vedeva piú che fra una gloria di raggi. Poi, era rimasta l’ultima del magazzino, derisa e respinta, trattata da lui come una bestia curiosa: per mesi e mesi egli aveva voluto osservare come fan le ragazze a venir su, e ci s’era divertito, a quell’esperienza, senza capire che ci giocava il cuor suo. A poco a poco s’era fatta temibile.

Chi sa che non l’amasse fin dal primo momento, anche quando non credeva sentire per lei che pietà. Eppure se n’era accorto soltanto quella sera, nel passeggiare con lei sotto gl’ippocastani delle Tuileries. La vita gli cominciava di lí; gli pareva ancora di sentire le risate delle bambine, il lontano mormorio di una fontana, mentre nell’ombra tiepida Dionisia gli cammina va accanto silenziosa. Del seguito non si rammentava: la sua febbre era cresciuta gradatamente; tutto il suo sangue, tutto l’animo suo, s’eran dati a costei, a quella bambina. Era possibile? Quando ella gli passava d’accanto, l’alito che spirava dal suo vestito gli pareva cosí forte, che quasi ne barcollava.

Aveva durato un pezzo a resistere: e anche ora qualche volta si arrabbiava con se stesso, e si voleva sottrarre a quello stupido incantesimo.

Che aveva costei per poterlo avvincere cosí? non l’aveva vista senza scarpe ai piedi? non [p. 459 modifica]l’aveva ammessa quasi per carità? Almeno, si fosse trattato d’una di quelle splendide creature che sconvolgono quanti le vedono; ma era una ragazzuccia! Aveva, in fin dei conti, un di quei visi che non dicono nulla e passano inosservati.

Non doveva nemmeno aver molto ingegno: se ne rammentava di come aveva cominciato goffamente a stare al banco! Ma dopo ognuno di questi sfoghi tornava ad essere piú innamorato che mai, quasi sentisse un sacro terrore d’aver insultato il suo idolo.

Aveva tutto in sé, costei; aveva quanto c’è di buono nelle donne, il coraggio, l’allegria, la semplicità, e la sua dolcezza inebriante, quasi un profumo sottile. Non si poteva vederla e tenerle dietro come a una qualsiasi: quel suo incantesimo agiva presto, con una forza lenta, invincibile: bisognava appartenerle per sempre se degnava sorridere. Quando sorrideva, tutto nel volto delicato le si animava, gli occhi, il mento con la fossetta; e i folti capelli biondi pareva l’illuminassero anch’essi d’una bellezza regale e conquistatrice.

Dovette confessarsi vinto: era intelligente come bella: la sua intelligenza formava un tutto con l’animo di lei. Mentre le altre ragazze del magazzino non avevano che un’educazione acquistata a forza di strofinarsi alle signore, lei, senza false eleganze, conservava intera la sua grazia, mostrava l’origine schietta.

Le piú larghe idee del commercio le nascevano dalla pratica: da quella fronte stretta, con le sue linee pure, apparivano la volontà e l’amore dell’ordine. Ed egli si sarebbe messo a mani giunte, per chiederle perdono delle bestemmie che gli sfuggivano nell’ore di ribellione. [p. 460 modifica]

Ma perché gli si rifiutava con tanta ostinaziole offerte, promettendole danaro a manciate. Poi ne? L’aveva supplicata venti volte, aumentando aveva creduto che fosse invece ambiziosa, e le aveva promesso di nominarla direttrice non ap pena una sezione fosse rimasta vacante.

E lei rifiutava, rifiutava ancora! Per lui era uno stupore, una battaglia continua in cui il desiderio sempre piú si accecava. Gli pareva impossibile una tale avventura; doveva finire col cedere, quella giovinetta, perché la onestà di una donna egli l’aveva sempre considerata come relativa. Non scorgeva piú nessun altro scopo alla sua vita; tutto spariva per lui in quel bisogno di tenerla con sé, prendersela sulle ginocchia, baciarla sulle labbra; e, nel pensarci, le vene gli martellavano: si metteva a tremare, agitato dalla sua impotenza a piegarla, domarla.

Tutte le giornate gli passavano ormai in uno stesso pensiero doloroso. L’immagine di Dionisia si alzava con lui. Aveva fantasticato di lei tutta la notte; lei lo seguiva al banco del suo studio, dove dalle nove alle dieci firmava le carte; le firmava meccanicamente, senza mai smettere di sentirla presente, ostinata a dir di no con la sua aria tranquilla.

Poi alle dieci, aveva il Consiglio, un vero Consiglio di ministri, una riunione dei dodici cointeressati, cui bisognava presiedesse: discutevano le questioni d’ordine interno, esaminavano le compre, stabilivano le mostre da fare: e lei era sempre lí, e gli pareva di sentirne la voce dolce, tra le cifre, vedeva quel sereno sorriso negl’imbrogli finanziari piú complicati.

Dopo il Consiglio, lei seguitava ad accompagnarlo, facendo con lui l’ispezione quotidiana [p. 461 modifica]delle sezioni: tornava con lui nello studio, e dalle due alle quattro gli stava lí accanto alla poltrona, mentre egli riceveva i fabbricanti di tutta la Francia, i capi dei grandi opifici, i banchieri, gl’inventori; un viavai continuo della ricchezza e dell’intelligenza, turbinio di milioni, rapide conversazioni, in cui si discutevano gli affari piú importanti del mercato parigino.

Se, nel risolvere della rovina o della prosperità d’un’industria, la dimenticava per un istante, se la sentiva, subito dopo, accanto per il battito del suo cuore; la voce gli veniva meno, mentre egli si domandava a che gli giovasse quel danaro, una volta ch’ella non lo voleva!

Finalmente, quando sonavano le cinque, doveva firmare la posta, e ricominciava il lavoro meccanico della sua mano; Dionisia allora gli risorgeva davanti piú dominatrice, lo riafferrava intero per possederlo lei sola nelle ore solitarie e ardenti della notte. E, la mattina dopo, ricominciava un’altra giornata eguale, una delle giornate cosí piene di lavoro smisurato che il gentile fantasma di una fanciulla bastava ad amareggiare.

Ma, principalmente, nell’ispezione giornaliera dei magazzini, il Mouret sentiva il suo malore. Aver costruita quella macchina gigantesca, regnare su tutta quella gente, e morir di dolore perché una ragazzuccia non vuol saperne di voi! Si disprezzava, assalito a quel modo dalla febbre e dalla vergogna della sua malattia.

Qualche volta sentiva disgusto d’esser potente: da un capo all’altro delle gallerie non aveva altro sentimento che la nausea: invece, certi altri giorni, avrebbe voluto estendere ancor piú il [p. 462 modifica]suo impero, farlo cosí grande, che forse lei gli si sarebbe data per ammirazione e paura.

Nei sotterranei cominciava col fermarsi davanti all’apparecchio per calar giú la roba. Era sempre in Via Nuova di Sant’Agostino; ma l’avevan dovuto ingrandire, e ora pareva il letto d’un fiume dove il continuo fiotto delle mercanzie scorresse con gran frastuono d’acque.

La roba giungeva da ogni parte del mondo: file di carri arrivavano da tutte le stazioni; non si aveva mai posa nello scaricare: e i pacchi erano inghiottiti sotterra, dal magazzino insaziabile.

Guardava quel torrente, e pensava ch’egli era uno dei padroni della pubblica ricchezza, con in mano le sorti di un’industria francese, e non poteva comprare il bacio d’una delle sue ragazze!

Poi, andava all’ufficio degli arrivi, che occupava ora i sotterranei lungo la Via Monsigny. Venti tavole in fila nella pallida luce che scendeva dall’apertura sul marciapiede; e un intiero popolo di commessi a votare le casse, riscontrare le mercanzie, metterci i prezzi. Il rumore dell’apparecchio vicino non cessava mai, e dominava le voci.

Là i capi lo fermavano perché sciogliesse difficoltà, confermasse comandi.

Quel fondo di cantina si empiva dello splendore dei rasi, del candore delle tele, d’un ammucchiamento prodigioso di merci; pellicce aecanto a trine, oggetti parigini accanto a stoffe dell’Oriente.

Passava adagio adagio fra tante ricchezze gettate alla rinfusa; su nel magazzino dovevano splendere e vivere, nelle vetrine, e far correre il danaro per le sezioni, viste e vendute nella furia del commercio ond’era invasa la casa. [p. 463 modifica]

Pensava che aveva offerto alla giovinetta sete, velluti, ciò che avesse voluto prendere a piene mani in quei mucchi enormi, e che, con un piccolo cenno della testolina bionda, lei aveva rifiutato tutto.

Dava quindi, all’altro capo del sotterraneo, la solita occhiata all’ufficio di spedizione. Interminabili corridoi si stendevano illuminati a gas; a destra e sinistra i depositi chiusi da cancelli parevano botteghe sotterranee di un intiero quartiere di commercianti; mercerie, biancheria, guanti, chincaglierie addormentate nell’ombra.

Poi c’era uno dei tre caloriferi; poi un posto di pompieri a guardia del contatore centrale del gas, chiuso in una gabbia di ferro. Trovava, all’ufficio delle spedizioni, le tavole già cariche d’involti e di scatole; le ceste ne portavano continuamente; e il Campion, ch’era il capo, gli diceva come andavano le cose, mentre i suoi venti impiegati distribuivano gl’involti negli scaffali, che avevano, ciascuno, il nome d’un quartiere di Parigi; e di lí i garzoni li portavano ai carri posti in fila lungo il marciapiede. Grida, nomi di vie, raccomandazioni, un clamore, un tumulto da piroscafo che stia per salpare. Ed egli rimaneva per un po’ immobile a guardare le merci che si spandevano per la città dopo essere state ingoiate all’altra estremità del sotterraneo: l’enorme corrente finiva là, di là usciva sulla strada dopo aver deposto l’oro in fondo alle casse.

Gli occhi gli si velavano; quelle immense spedizioni non avevano per lui piú alcuna importanza; non gli restava altra idea che quella di un viaggio, l’idea d’andarsene lontano lontano, se lei si ostinasse a dirgli di no. [p. 464 modifica]

Allora risaliva su, e continuava il giro, parlando e agitandosi sempre piú, senza potersi di strarre. Al secondo piano visitava l’ufficio stale, cercando pretesti a sgridate, e arrabbiandosi dentro di sé contro la perfetta regolarità della macchina che aveva egli stesso ordinata.

Quell’ufficio prendeva importanza maggiore di giorno in giorno; non ci volevano meno di duecento impiegati, dei quali alcuni aprivano, leggevano, e ordinavano le lettere venute di provincia o di fuori Stato, e gli altri riunivano nei casellari le merci domandate. Il numero delle lettere era divenuto tale, che non le contavano piú, le pesavano: qualche giorno ce n’erano per trentacinque chilogrammi! Il Mouret traversava febbrilmente le tre stanze dell’ufficio, domanda va al capo, il Levasseur, il peso del corriere venticinque chilogrammi; qualche volta di lunedí trenta chilogrammi; il peso cresceva sempre, ed egli avrebbe dovuto esserne contentissimo.

Ma invece restava serio serio nel rumore che gl’imballatori facevano lí accanto, inchiodando le casse.

Era inutile che percorresse il magazzino. Il pensiero gli restava pur sempre confitto nel cervello: e piú vedeva svolgersi davanti la sua potenza, piú gli uffici e gl’impiegati gli mostravano quanto fosse il lavoro e la ricchezza sua, piú profondamente sentiva l’ingiuria della sua impotenza.

L’Europa intera si volgeva a lui; per portargli le lettere ci voleva una vettura speciale delle poste; e lei continuava a dire di no! sempre di no!

Ridiscendeva e dava un’occhiata alla cassa centrale dove quattro cassieri stavano a guardia [p. 465 modifica]di due casseforti smisurate, per le quali l’anno innanzi eran passati ottanta milioni; dava un’occhiata all’ufficio del riscontro delle fatture che aveva venticinque impiegati scelti tra i piú seri; entrava in quello del defalco dove trentacinque giovani, i principianti, dovevano calcolare sulle fatture il tanto per cento dei commessi. Tornava alla cassa centrale, s’arrabbiava a vedere le casseforti, camminava su e giú in mezzo a quel danaro che lo faceva impazzire, inutile come gli era. Lei diceva di no!

Sempre di no, in tutte le sezioni, nelle gallerie, nelle sale, per tutto il magazzino. Andava dalle sete alla biancheria, dalla biancheria alle trine; saliva al primo e al secondo piano; si fermava sui ponti sospesi; prolungava l’ispezione con un’insistenza maniaca e tormentosa.

Il magazzino era cresciuto a dismisura; aveva costituita quella sezione, poi quest’altra; regnava su quei suoi nuovi domini, stendeva il suo impero fino a quella tale industria, l’ultima conquistata; e sempre no! Gli impiegati avrebbero ormai potuto popolare una piccola città: millecinquecento addetti alla vendita, mille altri d’ogni specie, con quaranta ispettori e settanta cassieri: le cucine abbisognavano di trentadue fra cuochi e sguatteri; dieci commessi per la pubblicità, trecento cinquanta garzoni in livrea, ventiquattro pompieri fissi!

E nelle scuderie, scuderie regali, poste in Via Monsigny in faccia ai magazzini, stavan centoquarantacinque cavalli con un lusso di carrozze e d’animali divenuto celebre. Le prime quattro che avevan già messo sossopra tutto il quartiere quando il magazzino occupava soltanto l’angolo di Piazza Gaillon, erano a poco a poco diven[p. 466 modifica]tate settantadue, d’ogni maniera, leggiere a un cavallo, pesanti veicoli a due. Correvano di conCOC- tinuo per Parigi, correttamente guidate da chieri vestiti di nero, e dappertutto portavano l’insegna oro e porpora del Paradiso delle signore.

Uscivano anche dalle fortificazioni e correvalungo la Marna, fin sotto le ombre del bosco di no per i dintorni; si vedevano verso Bicêtre, Saint-Germain: qualche volta in fondo a un via le soleggiato, in quel deserto, in quel silenzio, appariva uno di codesti veicoli che passava al trotto dei bei cavalli gettando alla pace misteriosa dell’aperta natura la violenta pubblicità delle vernici.

Pensava di mandarli anche piú lontano, nei dipartimenti vicini; avrebbe voluto sentirli sonanti per tutte le vie della Francia, da un confine all’altro. Ma non scendeva nemmeno piú a visitare i suoi cavalli di cui si teneva tanto. A che quella conquista del mondo, se ella diceva sempre di no?

Quando la sera passava davanti alla cassa del Lhomme, dava ancora per abitudine un’occhiata all’incasso scritto su un foglio che il cassiere si teneva accanto; non erano mai meno, o ben di rado, di centomila franchi, e qualche volta, nei giorni di grande esposizione, anche ottocento o novecentomila. Pur tanta somma non gli sonava piú all’orecchio come uno squillo di tromba; rimpiangeva d’averla guardata, e se n’andava pieno d’amarezza, d’odio, e di sprezzo pel danaro.

Ma i suoi dolori dovevano crescere dell’altro. Diventò geloso.

Una mattina, nel suo studio, prima del Con[p. 467 modifica]siglio, il Bourdoncle osò fargli capire che quella ragazzuccia delle «confezioni» si faceva beffe di lui.

— Come? — domandò, pallidissimo.

— Già! ha degli amanti perfino qui.

Il Mouret ebbe la forza di sorridere.

— Non ci penso piú a lei; mi potete dunque dire tutto... Chi sono questi amanti?

— L’Hutin, dicono, e un altro delle trine, il Deloche, quel pezzo di citrullo... Non affermo, veh! non li ho visti, io. Ma pare che lo sappiano tutti.

Il Mouret, senza rispondere nulla, fingeva di riordinare i fogli sul banco, e cosí nascondeva il tremito delle mani. Finalmente, senza alzare gli occhi, disse:

— Ci vorrebbero delle prove; fate di tutto per trovarle... Oh! non me në importa mica nulla; son bell’e guarito, io! Ma nel magazzino queste cose non si possono tollerare.

Il Bourdoncle non rispose altro che questo:

— State pur tranquillo; uno di questi giorni vi porto le prove. Sto attento, non dubitate.

Allora il Mouret perse del tutto la calma.

Senza aver piú il coraggio di tornare sul discorso, visse nell’aspettazione continua d’una catastrofe che gli avrebbe spezzato il cuore. E il suo tormento lo fece terribile; tutto il magazzino ne tremò.

Non si nascondeva piú dietro il Bourdoncle; mandava via lui in persona, preso da un bisogno nervoso di sfogarsi, urlando e abusando della sua potenza che non gli serviva a nulla, dacché non appagava il suo unico desiderio.

Ogni ispezione diventava un massacro; tutte le volte che compariva, un brivido di terror pa[p. 468 modifica]nico si diffondeva da banco a banco. Comin ciava appunto il tempo invernale della vendita scarsa, ed egli ripulí le sezioni, cacciando via a gruppi gl’impiegati.

Il suo primo pensiero era stato di metter fuocosí non avrebbe saputo piú nulla; gli altri la ri l’Hutin e il Deloche; poi aveva riflettuto che scontavano per loro; tutti avevan paura. La sera, quando si trovava solo, gli occhi gli si gonfiavano di lacrime.

Un giorno poi fu un vero terrore. Un ispettore credeva d’essersi accorto che il Mignot, quello dei guanti, rubava. Al suo banco c’eran sempre certe ragazze di modi cosí strani! e ne avevano acchiappata una con i fianchi e col seno pieni di sessanta paia di guanti.

Stettero attenti; e l’ispettore poté sorprendere il Mignot in flagrante delitto, mentre si faceva complice di una bionda, già impiegata al Louvre, ed ora sul lastrico.

Era una cosa semplicissima; lui fingeva di provarle i guanti; aspettava che fosse piena zeppa del furto, e poi l’accompagnava a una cassa, dove lei ne pagava un paio.

Il Mouret, per l’appunto, ci si trovò presente.

Di solito non ci entrava in quelle avventure che si ripetevano spesso: perché, se anche fosse tutto regolato bene, c’era assai disordine in alcune sezioni, e non passava settimana che non fosse scacciato qualcuno per ladro.

La Direzione cercava anzi di abbuiare le cose piú che fosse possibile, stimando inutile chiamar le guardie, che avrebbero cosí messa in mostra una delle piaghe inevitabili nei grandi magazzini.

Ma quella volta il Mouret aveva bisogno di [p. 469 modifica]sfogarsi, e trattò con le brusche il bel Mignot, che tremava dalla paura, livido nel volto e trasfigurato.

— Dovrei chiamare le guardie! — urlava in mezzo a tutti. — Ma rispondete dunque! chi è quella ragazza?... Vi giuro che mando a chiamare la polizia, se non confessate la verità.

Avevano portata altrove la ragazza, e due donne la spogliavano.

Il Mignot balbettò:

— Io non la conosco... È lei che è venuta...

— Non dite bugie! — interruppe il Mouret sempre infuriato. — E nessuno qui ci avverte! tutti d’accordo! siamo in un bosco, derubati, assassinati, saccheggiati. Bisognerà non farne piú uscire uno, senza frugargli le tasche!

Corsero dei mormorii. Le tre o quattro signore che compravano guanti stavan lí spaventate.

— Silenzio! — riprese egli furibondo. — Silenzio o tutti fuori!

Ma il Bourdoncle era accorso, inquieto per lo scandalo. Sussurrò qualcosa all’orecchio del Mouret; l’affare si faceva grave; e lo persuase a condurre il Mignot nella stanza degl’ispettori, ch’era al pianterreno, vicino alla porta di Via Gaillon.

La donna era lí, che si vestiva tranquillamente. Aveva nominato Alberto Lhomme. Il Mignot, interrogato daccapo, perse la testa e si mise a piangere: non era lui il colpevole, era Alberto che gli mandava le sue amanti. Da principio s’era contentato di farle profittare delle occasioni; poi, quando s’eran messe a rubare, era già tanto compromesso, che non aveva avuto il coraggio di dirlo.

Vennero allora in luce certi furti continui, in[p. 470 modifica]credibili; merci portate via da ragazze che se le andavano a riporre sotto le gonnelle nei gabinetti, posti tra le piante verdi, vicino alla stanza dei liquori; compre che un commesso non diceva forte alla cassa quando vi conduceva una cliente, facendo a mezzo del prezzo col cassiere; perfino delle false rese di roba che dicevano essere stata riportata mentre non era, e se n’intascavano il prezzo, pagato davvero, dalla cassa: senza contare il furto classico, involti che i commessi nascondevan la sera sotto il soprabito e si cingevano alla vita, o anche si attaccavano, le ragazze, lungo le cosce. Da quattordici mesi, per via del Mignot e di altri ch’essi rifiutarono di nominare, alla cassa d’Alberto si faceva una impudente mangeria di cui non si poté sapere precisamente la somma.

La cosa intanto s’era sparsa per le sezioni. Le coscienze inquiete rabbrividivano; anche le piú sicure avevan paura di una ripulita generale.

Alberto era stato chiamato nella stanza degli ispettori: poi era passato il Lhomme, con tutto il sangue alla testa, col collo già stretto dall’apoplessia.

Poi anche la signora Aurelia era stata chiamata, e lei, continuando a tenere alta la fronte, era livida e bolsa come una maschera di cera. Stettero chiusi a lungo, e nessuno seppe bene i particolari: corse voce che la direttrice avesse preso a schiaffi Alberto, sino a fagli rivoltar la testa da un’altra parte, e che quel buon uomo del babbo piangeva, mentre il padrone, senza lasciarsi quella volta commuovere, urlava e bestemmiava che voleva ad ogni costo mandare il colpevole davanti al tribunale. [p. 471 modifica]

Lo scandalo, nondimeno, si fermò lí. Soltanto il Mignot fu mandato via su due piedi.

Alberto non scomparve che due giorni dopo; la signora Aurelia aveva, senza dubbio, ottenuto che la famiglia non fosse disonorata con uno sfratto improvviso.

Ma il terrore durò ancora per qualche giorno, perché il Mouret, dopo quel caso, aveva passeggiato su e giù per i magazzini, con certi occhi terribili, cacciando via quanti osavano alzare il volto.


— Che fate lí a guardare le mosche?... Alla cassa!

Finalmente la tempesta si rovesciò un giorno sull’Hutin medesimo.

Il Favier, ch’era stato fatto aiuto, cercava di minare il capo e togliergli il posto.

Era la solita arte dei rapporti sottovoce, delle occasioni prese a volo per far cogliere il capo se nulla nulla sbagliasse.

Dunque, una mattina, mentre il Mouret traversava le sete, si fermò sorpreso, a vedere il Favier che cambiava i prezzi di tutta una partita di velluto nero.

— Perché abbassate i prezzi? chi ve l’ha detto?

L’aiuto, che faceva quel lavoro con grande apparato, come se proprio avesse voluto che il direttore ci si fermasse, prevedendo il seguito, rispose con l’aria ingenua di chi è stupito da una domanda:

— È stato il signor Hutin!

Il signor Hutin?... E dov’è il signor Hutin?

E quando questi tornò, chiamato in fretta e furia da un commesso, accadde un vero diver[p. 472 modifica]bio. Come! s’era dunque messo ad abbassare i prezzi, a suo capriccio! Ma parve anch’egli cascasse dalle nuvole; non aveva dato nessun ordine; aveva parlato di tal ribasso col Favier, cosí, chiacchierando.

Il Favier prese allora l’aria addolorata d’un impiegato che si vede costretto a contraddire il suo superiore: per altro, se si trattava di salvarlo, lui era pronto a pigliare su di sé la colpa. Le cose si guastarono sempre piú.

— La capite, signor Hutin! — gridava il Mouret — non ho mai tollerati questi tentativi d’indipendenza... Noi soli dobbiamo stabilire i prezzi!

Seguitò, con voce aspra, con manifesta intenzione d’offendere; ciò sorprese i commessi, perché di solito quelle discussioni accadevano in disparte, e il caso poteva anche essere nato da un equivoco. Si sentiva in lui lo sfogo d’un rancore che non voleva confessare. L’aveva colto alla fine in fallo quell’Hutin, che dicevano fosse l’amante di Dionisia! e poteva un po’ sfogarsi facendogli sentire duramente ch’era lui il padrone! Ed esagerava, insinuando perfino che quel ribasso di prezzi nascondesse intenzioni poco oneste.

— Ma io — ripeteva l’Hutin — vi volevo parlare di questo ribasso!... È necessario, perché i velluti, come sapete, non sono andati.

Il Mouret volle farla finita, con un’altra insolenza:

— Sta bene, esamineremo la cosa. E se volete restar qui, non ricominciate!

Gli voltò le spalle. L’Hutin sbalordito, furibondo, non avendo altri che il Favier per sfo[p. 473 modifica]garsi un po’, gli disse e giurò che voleva gettare subito le dimissioni sul viso a quel bestione.

Poi, non parlò piú d’andarsene; si contento di rimuginare tutte le infami accuse che gl’imocchi lustri si difendeva e faceva vive attestazioni di simpatia. Come si fa a non rispondere? e chi si sarebbe potuto immaginare una sfuriata di quel genere per delle sciocchezze da nulla? che aveva il padrone da un pezzo in qua, che non ci si poteva piú reggere?

— Che cosa ha? — rispose l’Hutin. — Si sa che cos’ha! Che ci ho colpa io se quella seccherella delle «confezioni» gli fa girare la testa?... Tutto dipende da lei. Lui sa che ci sono stato a letto insieme, e non gli va a sangue; oppure è lei che mi vuol far mandar via, perché le do noia... Ma vi giuro io, che, se mai costei mi capita fra le unghie, le sconta tutte!

Due giorni dopo, nel salire ai laboratori per raccomandare in persona una ragazza, l’Hutin trasalí nel vedere in fondo a un andito Dionisia e il Deloche con i gomiti su una finestra aperta, tanto sprofondati in una conversazione intima, che non si voltaron nemmeno.

Gli venne subito il pensiero di farli sorprendere; il Deloche piangeva. Allora se n’andò in punta di piedi; e avendo per la scala incontrati il Bourdoncle e il Jouve, disse loro ciò che gli venne lí per lí, un guasto qualsiasi a un uscio. Cosí sarebbero saliti su, e avrebbero visto tutto.

Il Bourdoncle li scoperse per primo: si fermò e disse al Jouve d’andare a cercare il direttore; lui avrebbe aspettato lí.

L’ispettore dovette obbedire, per quanto non gli piacesse punto entrare in quell’imbroglio. [p. 474 modifica]

Era un cantuccio sperso nel vasto mondo dove si agitava il popolo del Paradiso. Vi si arrivava per cento scale ed anditi.

I laboratori stavano nelle soffitte, in una fila di stanze basse, rischiarate da finestroni aperti nello zinco del tetto, con niente altro di mobilia che lunghe tavole ed enormi stufe di ferro fuso.

Le ragazze della biancheria, delle trine, dei vestiti, dei ricami, vivevano, estate e inverno, in un caldo soffocante, in mezzo all’odore speciale della roba: bisognava costeggiare tutto il fabbricato, svoltare a sinistra dopo il laboratorio dei vestiti, salire cinque scalini, prima di giungere a quell’angolo del corridoio.

Le rare signore che un commesso accompagnava qualche volta lassú per ordinarsi qualche cosa, ripigliavano fiato, stanche, spaurite, parendo loro di aver girato intorno a se stesse per ore intere e di essere lontane cento miglia dalla strada.

Non era la prima volta che Dionisia trovava il Deloche ad aspettarla, accanto alla finestra. Nella sua qualità di aiuto, ella doveva spesso recarsi al laboratorio dove non si facevano che modelli e accomodature: ogni tanto le conveniva salir lassú, per dare degli ordini.

Il Deloche la stava ad aspettare, inventava un pretesto, le andava dietro dietro; poi fingeva di restar sorpreso quando s’imbatteva in lei, davanti all’uscio del laboratorio.

Dionisia aveva finito col riderci; erano quasi appuntamenti accettati. Il corridoio andava lungo il serbatoio dell’acqua, un immenso quadrato che conteneva sessantamila litri; e sul tetto ce [p. 475 modifica]n’era un altro di eguale grandezza, cui si giungeva per mezzo d’una scala di ferro.

Il Deloche stava lí a discorrere un po’ appoggiandosi con una spalla, nel continuo abbandono del suo gran corpo rotto dalla stanchezza. L’acqua circolava misteriosamente, e lo zinco ne vibrava.

Per quanto il silenzio fosse profondo, li intorno, Dionisia si voltava spesso inquieta, perché le era parso di veder passare un’ombra sui muri dipinti di giallo chiaro. Ma presto la finestra li attirava, ci si appoggiavano coi gomiti, si dimenticavano di tutto in chiacchiere allegre, in ricordi innumerevoli dei loro villaggi. Sotto, si stendeva l’immensa invetriata della galleria centrale, lago di cristallo chiuso dai tetti lontani come da coste rocciose. E piú in là non vedevano se non il cielo, un pezzo di cielo che specchiava nell’acqua dormiente dei vetri il volo delle nuvole e i dolci azzurri.

Quel giorno, per l’appunto, il Deloche parlava di Valognes.

— Avevo sei anni, quando la mamma mi portava in un calessino al mercato della città. Ci sono tredici chilometri; bisognava partire da Briquebec alle cinque... Come è bello li da noi! ci siete stata mai?

— Sí, sí! — rispondeva lentamente Dionisia con gli occhi fissi su un punto lontano. — Ci sono stata una volta, ma ero piccina piccina... Certe strade con l’erba da tutt’e due le parti, non è vero?... e ogni tanto, dei montoni a due a due, che si tiran dietro la fune...

Si chetava, e poi sorridendo:

— Noi invece abbiamo delle strade diritte diritte per delle leghe, con degli alberi che fan[p. 476 modifica]no ombra... Dei prati con attorno le siepi piú alte di me, e, dentro, cavalli e vacche... c’è un flumicello, e l’acqua in un posto, che, me lo rammento bene, sotto la macchia è freschissima.

— Come da noi! come da noi! — esclamava il Deloche tutto contento. — Non si vede che dell’erba; tutti si chiudono il suo pezzo di terra con olmi e biancospini, e ci si sta come in casa sua. Tutto verde! e che verde! A Parigi non ce l’hanno mica!... Quanto chiasso ho fatto io in fondo alla stradicciola che porta al mulino!

E a voce commossa, restavano con gli occhi fissi e smarriti sui vetri lucenti pel sole. Da quella luce accecante si alzava dinanzi a loro una visione: prati infiniti, il Cotentin bagnato dall’alito dell’oceano, tinto di vapore luminoso che temperava in sfumature l’orizzonte con un grigio delicato da acquarello. E laggiú, sotto l’enorme ossatura di ferro, nella sala delle sete, la vendita rumoreggiava nel fremito della macchina: tutto il magazzino vibrava nello scalpiccio della folla, nella furia dei commessi, nella vita di quel le ventimila persone che vi si premevano. Loro due, lasciandosi trasportare dai propri sogni, sentendo quel profondo e cupo clamore che faceva fremere i tetti, credevano ascoltare il vento che passasse sull’erbe e scotesse i grandi alberi.

— Mio Dio! ma perché — mormorò il Deloche — perché, signorina, non siete un po’ piú buona con me?... Vi voglio tanto bene, io!

Aveva le lacrime agli occhi; e, volendolo essa interrompere con un gesto, continuò in fretta:

— No, lasciatemele dire un’altra volta queste cose... Si starebbe tanto bene insieme! Due che son delle stesse parti han sempre di che discorrere! [p. 477 modifica]

Non poté andare avanti dalla commozione; e lei lo ammoni con dolcezza:

— Eppure m’avevate promesso di non tenermi piú questi discorsi... E impossibile... Voi siete un bravo figliuolo, e vi sono amica vera; ma voglio restare con la mia libertà.

— Sí, sí, lo so, — rispose egli, e gli moriva nei singulti la voce — voi non mi amate. Oh! me lo potete anche dire, tanto lo vedo da me, che io non ho nulla in me che vi possa fare innamorare... Vedete, in vita mia, non ho avuto che un’ora buona, una sola, quella sera che vi incontrai a Joinville: ve ne rammentate? Per un po’, sotto gli alberi, in quell’ombra, mi parve che il braccio vi tremasse, e fui tanto stupido da immaginarmi...

Ma Dionisia l’interruppe; ecco i passi del Jouve in fondo al corridoio.

— Zitto! c’è qualcheduno.

— No! — disse lui, impedendole d’andarsene dalla finestra. — Il serbatoio manda alle volte dei rumori, che si crederebbe ci fosse gente, lí dentro.

E continuò nei suoi lamenti timidi e carezzevoli.

Lei non ascoltava piú, riassorta dalla fantasticheria in quella ninna nanna d’amore, e errando con lo sguardo sopra le tettoie del Paradiso, campo immenso di vetri e di zinco, di là dal quale si perdevano i tetti delle case vicine.

A destra e a sinistra della galleria di cristalli, altre gallerie ed altre sale luccicavano al sole, disposte in simmetria come una caserma.

Il ferro delle scale e dei ponti s’innalzava leggiero nell’azzurro dell’aria; e il camino delle cucine mandava turbinando un fumo da opificio; [p. 478 modifica]il gran serbatoio quadrato, retto per aria da pilastrini di ferro fuso, aveva lo strano profilo d’un monumento barbaro inalzato lassú dall’orgoglio d’un uomo. Lontano, Parigi rumoreggiava.

Quando Dionisia tornò da quei suoi pensieri che volavano sul Paradiso come su una solitudine, vide che il Deloche le aveva preso la mano. Ma aveva il viso cosí stralunato, che gliela lasciò fra le sue.

— Abbiate pazienza — diceva lui; — oramai è una cosa finita: sarei troppo disgraziato se mi toglieste la vostra amicizia per punirmene... Vi giuro che vi volevo dire un’altra cosa... Sí... volevo mostrarvi che oramai m’ero rassegnato...

Piangeva da capo, e cercava che la voce non gli tremasse tanto.

— Perché io lo so quel che nella vita mi tocca; e la fortuna non mi si muta piú. Botte laggiú, botte a Parigi, botte dappertutto. Son qui da quattr’anni e son sempre l’ultimo della sezione... E questo vi volevo dire; non v’importunerò piú, io; e voi non dovete darvi piú pensiero di me: cercate di essere felice, amate un altro; ci avrò piacere io. Contenta voi, sarò contento anch’io... Sarà quella la mia felicità.

Non poté seguitare. Come per sigillare la promessa, aveva posate le labbra su la mano della giovinetta, e la baciava col bacio umile d’uno schiavo.

Dionisia era commossa e con affetto fraterno, che diminuiva la compassione delle parole, disse soltanto:

— Povero figliuolo!

Ma trasalirono, e si voltarono. [p. 479 modifica]

Il Mouret era li dinanzi a loro.

Da dieci minuti il Jouve cercava per il magazzino il direttore, ch’era sui palchi della nuova facciata in Via Dieci Dicembre. Tutti i giorni stava lí delle ore, cercando appassionarsi a quei lavori che aveva studiato tanto.

Era il rifugio dai suoi tormenti, trovarsi tra i muratori che innalzavano i pilastri degli angoli in pietre di cava, e i fabbriferrai che su vi posavano i ferri dell’ossatura.

La facciata usciva già dal suolo, accennava il porticato, le finestre del primo piano, un palazzo appena disegnato.

Il Mouret saliva su le scale, discuteva con l’ingegnere gli ornamenti che dovevano essere originali, scavalcava ferri e mattoni, scendeva perfino nei fondamenti; e il frastuono della macchina a vapore, lo strepito delle gru, il fragor dei martelli, le grida d’un popolo d’operai, in quella enorme gabbia circondata da impalancati che risonavano, riusciva per un poco a stordirlo. Ne usciva bianco di polvere, nero di limatura di ferro, con i piedi infangati dalle cannelle d’acqua che gli schizzavano addosso: cosí mal guarito dai suoi pensieri, che l’angoscia subito lo riafferrava e gli faceva battere più forte il cuore, a mano a mano che dietro lui s’andava ammorzando il fracasso degli operai.

Quel giorno, per l’appunto, era di buon umore per una distrazione avuta; e stava ancora a studiare un album di disegni per mosaici e terre cotte smaltate che dovevano decorare il cornicione, quando il Jouve venne a cercarlo, ansante, tutt’arrabbiato di sciuparsi il soprabito tra quei materiali. Da principio esclamò: «Mi aspettino! »; ma l’ispettore gli sussurrò qualcosa [p. 480 modifica]in un orecchio, ed egli lo seguí, fremendo, riassalito, oppresso, dal suo male.

Tutto era bell’e finito; la facciata crollava prima d’essere giunta in cima. Che gli giovava quel trionfo supremo del suo orgoglio, se bastava soltanto il nome d’una donna sussurratogli all’orecchio per tormentarlo in quel modo?

Arrivato che fu, il Bourdoncle e il Jouve crederono prudente svignarsela.

Il Deloche scappò anche lui. Dionisia sola restò in faccia al Mouret, piú pallida del solito, ma guardandolo francamente in viso.

— Seguitemi, signorina, — diss’egli duramente.

Lei lo seguí; scesero due piani e traversarono le sezioni dei mobili e dei tappeti, senza dir parola.

Quando fu davanti allo studio, lui ne spalancò tutto l’uscio:

— Entrate, signorina.

E, richiuso ch’ebbe, andò al suo banco. Il nuovo studio del direttore era piú di lusso che quello d’un tempo: invece che di reps, la mobilia era di velluto verde; uno scaffale, pieno di libri, incrostato d’avorio, copriva una parete; ma il ritratto della signora Hédouin c’era sempre, giovane, con un bel viso calmo, che sorrideva di dentro la cornice dorata.

— Signorina, — diss’egli finalmente, cercando mantenersi in una severità fredda — ci son delle cose che noi non possiamo tollerare... La buona condotta qui è di rigore...

Si fermò, cercando le parole per non lasciarsi prendere dalla collera furiosa che sentiva crescere in sé. Come! era quel coso lí ch’ella amava, quel miserabile venditore, il ridicolo della [p. 481 modifica]sezione! era il piú goffo di tutti, ch’ella preferiva a lui, al padrone! perché li aveva visti con gli occhi suoi, lei gli aveva abbandonata la mano, e lui la copriva di baci!

— Son stato troppo buono con voi, signorina — continuò facendo un nuovo sforzo. — D’essere ricompensato cosí non me l’aspettavo davvero!

Dionisia, fin da quando era entrata, aveva posato gli occhi sul ritratto della signora Hédouin, che, nonostante il suo gran turbamento, la teneva ancora sovra pensiero.

Ogni volta ch’entrava nella Direzione, i suoi sguardi s’incrociavano con quelli del ritratto.

Ne aveva un po’ paura, per quanto le paresse di aspetto buona. Quel giorno la vedeva lí quasi a proteggerla.

— È vero, signore, — rispose con dolcezza — ho fatto male a fermarmi a discorrere, e ve ne chiedo scusa... Quel giovinotto è del mio paese.

— Lo caccio via! — urlò il Mouret, che mise tutto il suo dolore in quel grido furioso.

E, fuor di sé, cessando di far la parte del direttore che rimproveri una ragazza per una mancanza contro i regolamenti, si lasciò andare a parole violente.

Non si vergognava? una ragazza come lei, abbandonarsi a un grullo come quello? E venne ad accuse atroci, le rimproverò l’Hutin, e degli altri ancora, con una tal foga di parole che lei non poteva nemmeno difendersi.

Ma voleva far una ripulita! li voleva mandar via tutti a pedate! La serietà che s’era ripromesso di conservare, mentre seguiva il Jouve, [p. 482 modifica]finiva nella vergognosa violenza d’una scenata di gelosia:

— I vostri amanti, sí!... Me l’avevan detto, e io ero stato tanto stupido da dubitarne... Non c’ero che io! non c’ero che io a dubitarne!

Dionisia, soffocata, stordita, ascoltava gl’infami rimproveri, senza che da principio riuscisse a capire. Mio Dio! la credeva dunque una poco di buono? Ma, a una parola piú dura, si diresse silenziosamente verso l’uscio. E a un gesto che egli fece per trattenerla:

— Lasciatemi, signore, me ne vado... Se voi mi credete quello che dite, non voglio restare nel magazzino neppure un minuto di piú.

Egli corse davanti l’uscio:

— Ma difendetevi almeno!... Dite qualcosa!

Lei restava dritta, in un silenzio gelido. Il Mouret per un pezzo la tempestò di domande con ansietà sempre crescente; e la muta dignità di quella vergine pareva anche quella volta il calcolo sapiente d’una donna, maestra nella tattica della passione. Non avrebbe potuto trovar di meglio perché il Mouret le cascasse ai piedi, piú straziato dal dubbio, piú desideroso d’esser convinto!

— Guardiamo, voi dite ch’è uno del vostro paese... Vi potete essere incontrati là... Giuratemi che tra voi e lui non c’è stato niente.

Allora, siccome lei s’intestava nel silenzio, e voleva sempre aprir l’uscio e andarsene, finí di perder la testa, ed ebbe una esplosione suprema di dolore:

— Mio Dio! io vi amo... Perché ci pigliate gusto a straziarmi cosí? Non lo vedete che per me non c’è piú nulla, se non voi? che della gente di cui vi parlo non me n’importa che per [p. 483 modifica]voi? che ora siete voi la sola cosa che mi preme nel mondo?... V’ho creduta gelosa, e vi ho sacrificato i miei piaceri. Vi hanno detto che avevo delle amanti, e bene! non ne ho piú, è assai ve esco di casa. Non vi ho preferita proprio a quella signora? Non l’ho io rotta con lei, per essere tutto vostro? Aspetto ancora un ringraziamento, un po’ di gratitudine... E se avete paura ch’io ci ritorni, potete star tranquilla: ella si vendica, aiutando uno dei nostri commessi a metter su un negozio e farmi concorrenza... Dite, bisogna che mi metta in ginocchio, per commovervi?

A tale era ormai; lui che non tollerava un peccatuccio nelle ragazze del magazzino, e che le buttava sul lastrico pel minimo capriccio, si trovava ora ridotto a supplicare una di loro a non andarsene, a non abbandonarlo nella sua infelicità.

Si frapponeva tra lei e la porta, pronto a perdonarle, a chiuder gli occhi, purché si degnasse dire una bugia.

E diceva la verità; delle ragazze trovate per le trattorie n’era stufo; non stava piú con Clara, non aveva nemmeno rimesso piú il piede dalla Desforges, dove il Bouthemont spadroneggiava aspettando l’apertura dei nuovi magazzini, Le Quattro Stagioni, che già empivano i giornali con gli annunzi.

— Ma dunque mi devo mettere in ginocchio? — ripeté, soffocato da lacrime represse.

Dionisia lo trattenne con la mano, non potendo piú nemmeno lei nascondere il suo turbamento, commossa, nell’intimo, da quella passione di cui lo vedeva tanto soffrire.

— Fate male a pigliarvela cosí! — rispose [p. 484 modifica]alla fine. — Vi giuro che tutte queste son calunnie... indegne calunnie... Quel povero diavolo è innocente anche lui come me.

E teneva gli occhi limpidi alti e dritti con la sua bella franchezza.

— Va bene; vi credo, — mormorò lui — non manderò via nessuno, dacché pigliate tutti sotto la vostra protezione... Ma allora, se non volete bene a nessuno, perché respingete me?

Un improvviso imbarazzo, un inquieto pudore, s’impadronirono di lei.

— Volete bene a qualcuno? — ripigliò il Mouret con voce tremante. — Oh! me lo potete dire; non ho nessun diritto io al vostro amore... Volete bene a qualcuno?

Lei s’era fatta rossa infocata, aveva il cuore sulle labbra; sentiva di non poter dire una bugia, con quella commozione che la tradiva, quella repugnanza a mentire, per cui le si leggeva sul viso la verità:

— Sí, — disse alla fine. — Ve ne prego, lasciatemi andare, ne soffro per voi: mi fate pena.

Toccava ora a lei di soffrire. Non bastava che si dovesse difendere da lui? anche contro se stessa bisognava si difendesse, contro gl’impulsi dell’amore che ogni po’ le toglievano tutto il coraggio. Quando il Mouret parlava in quella maniera, quando lo vedeva tanto commosso, cosí sossopra, non sapeva piú nemmeno lei perché dicesse di no; e soltanto dopo, in fondo alla sua natura di ragazza sana nel corpo e nell’anima, trovava la fierezza e la ragione che la tenevan dritta nella sua ostinazione di vergine. Solo per un istinto di felicità, ella s’incaponiva nel rifiuto: per soddisfare il bisogno di vita tranquilla, non già per obbedire all’idea della virtú. Sareb[p. 485 modifica]be caduta tra le braccia di quell’uomo, vinta nella carne e nel cuore, se non avesse sentito repugnanza a darsi intera, gettandosi nell’ignoto dell’avvenire. L’amante le faceva paura, quella paura pazza che fa pallida la donna quando le si avvicina l’uomo.

Il Mouret s’era accasciato in un cupo scorag giamento. Non capiva. Tornò al banco, prese dei fogli che riposò subito, e disse:

— Non vi trattengo piú: non vi posso tenere contro la vostra volontà.

— Ma io non me ne voglio andare! - rispose lei sorridendo — se mi credete onesta, resto... Le donne bisogna sempre crederle oneste: ce n’è molte di donne oneste, ve l’assicuro io.

Gli occhi di Dionisia, involontariamente, s’eran posati sul ritratto della Hédouin, della signora tanto bella e brava che col suo sangue, dicevano, recava fortuna al magazzino. Il Mouret seguí gli sguardi della giovinetta, trasalendo, perché gli era parso risentire la voce della moglie morta: quelle parole le ripeteva spesso lei. Ed era quasi una resurrezione: gli tornava in Dionisia il buon senso, il giusto equilibrio di colei ch’egli aveva perduta; perfino la voce dolce, aliena dalle parole inutili. Ne fu commosso, e divenne anche piú triste.

— Sapete che io sono una cosa vostra, oramai — mormorò per concludere. Fate di me quel che vi pare.

Allora lei rispose spigliatamente:

— Cosí va bene. Il consiglio d’una donna, per umile che sia, è sempre utile starlo a sentire, quando ella ha un po’ d’intelligenza. Se vi affidate alle mie mani, ne farò una brava persona di voi; state sicuro! [p. 486 modifica]

Scherzava con l’aria semplice, che aveva in sé tanta grazia. Anch’egli sorrise melanconicamente, e la riaccompagnò all’uscio come una signora.

Il giorno dopo Dionisia era nominata direttrice.

La Direzione aveva sdoppiato la sezione dei vestiti, facendo apposta per lei una sezione di vestiti da bambini che fu messa accanto alle «confezioni». Da quando le avevan mandato via il figliuolo, la signora Aurelia tremava, perché si accorgeva che i capi divenivano freddi verso di lei, e scorgeva di giorno in giorno crescere la potenza della giovane. Chi sa che non profittassero della prima occasione, e con un pretesto qualsiasi non le togliessero il posto per darlo a costei? La maschera imperiale pareva dimagrata dalla vergogna che macchiava ormai la dinastia dei Lhomme; e tutte le sere ella se n’andava ora a braccio del marito, ravvicinati dalla comune disgrazia, accorgendosi ch’era un po’ colpa loro quel disordine in famiglia; mentre il pover’uomo, anche piú addolorato di lei, temendo non sospettassero anche lui di furto, contava due volte i quattrini a gran rumore, facendo veri miracoli col suo moncherino. Per ciò quando vide Dionisia diventar direttrice della nuova sezione, la signora Aurelia fu tanto contenta, che fece di tutto perché lei e tutte s’accorgessero del bene che le voleva. Com’era stata buona a non portarle via il posto! E la colmava di gentilezze, trattandola da pari a pari, andando spesso a discorrere nella sezione accanto, con un’aria maestosa, come una regina madre che si reca a visitare una giovine regina.

Del resto, Dionisia si trovava ora al colmo [p. 487 modifica]della fortuna; la nomina a direttrice ne aveva compiuta la vittoria. Se si seguitava a chiacchierare per quella rabbia delle lingue che infuria in ogni compagnia d’uomini e di donne, gl’inchini profondi fino a terra. Margherita, divenuta aiuto nelle «confezioni», non la finiva piú con gli elogi; perfino Clara avea piegato il capo, costretta a rispettare una fortuna di cui si sentiva incapace. Ma il trionfo di Dionisia era anche piú intero su gli uomini; sul Jouve, che non le parlava piú se non ripiegato su se stesso, su l’Hutin, che sentiva il terreno mancargli sotto i piedi, sul Bourdoncle, ridotto a non saper piú che fare contro lei. Quando l’aveva vista uscire dalla Direzione, sorridente e tranquilla, e quando, il giorno dopo, il direttore aveva voluto dal Consiglio la nuova sezione, s’era inchinato preso da un sacro terrore per le donne. Aveva sempre ceduto cosí dinanzi al Mouret, riconoscendolo padrone e signore, anche quando gli pareva non piú aiutato dal suo ingegno, o che cedesse stupidamente al cuor suo. La donna era piú forte, ed egli s’aspettava d’esser trascinato nella rovina.

Dionisia intanto trionfava con calma e con grazia. Contenta di quel rispetto, ci voleva vedere un’affettuosa simpatia per ciò che aveva dovuto soffrire da principio, ed una ricompensa del suo lungo coraggio. Per questo, con sorridente allegrezza accoglieva anche le piú piccole prove d’amicizia; e si fece cosí voler bene da molti, tanto era dolce e benevola, sempre pronta a rispondere con l’affetto all’affetto. Non mostrò invincibile repugnanza che per Clara, perché aveva saputo che aveva fatto quanto aveva detto, ed una sera s’era portata con sé il Colom[p. 488 modifica]ban; e il commesso, trascinato dalla sua passio ne soddisfatta alla fine, non tornava a volte la sera a casa, mentre la povera Genoveffa se ne moriva. La cosa correva pel Paradiso, e pareva un fatto curioso.

Ma questo dolore, l’unico ch’ella avesse, non alterava punto l’umore uguale di Dionisia. Bisognava vederla nella sezione, tra quel suo popolo di bambini di tutte le età! Era proprio il suo posto, perché i bambini li adorava. A volte ce n’era lí una cinquantina, tra femminucce e maschietti; un intero collegio che tumultuava nei desideri nascenti della civetteria. Le mamme ci perdevan la testa; lei, sorridendo, faceva mettere tutti quei monelli in fila a sedere, e quando una piccina col visetto roseo la tentava, la voleva servire da sé, portava il vestitino e lo misurava su le spalli grassocce, con la manierina d’una sorella maggiore. Tra le voci delle mamme che sgridavano, si sentivano risate argentine, e leggiere esclamazioni di stupore. Qualche volta una ragazzina grandetta, di nove o dieci anni, si guardava in uno specchio con un paltoncino di panno su le spalle, si voltava, si rivoltava tutta attenta, con gli occhi luccicanti pel bisogno di piacere. E la roba si ammucchiava sui banchi: vestitini di tela d’Asia, color rosa e turchino per i bambini da uno ai cinque anni, uniformi da marinaio, cappottini con rivolte, mantelli, giacchettine, una confusione di vestiari piccoli e stecchiti nella loro grazia infantile, come il corredo d’una schiera di grandi bambole tratto fuor degli armadi e sparpagliato a ruba. Dionisia aveva sempre in fondo alle tasche qualche confetto per far chetare un bambino che, mettiamo il caso, volesse per forza un paio di [p. 489 modifica]calzoncini rossi; viveva là tra i piccini come nella sua famiglia, ringiovanita da quella innocenza e da quella freschezza che di continuo le si rinnovava intorno alle gonnelle.

Aveva anche, spesso, lunghe conversazioni col Mouret. Quando doveva andare in Direzione per prender ordini o dare notizie, lui la tratteneva a discorrere, e gli piaceva di starla a sentire. Era ciò ch’essa chiamava, ridendo, «far di lui un brav’uomo». Nella sua testa seria e sveglia da normanna, nascevano disegni sopra disegni, quelle idee sul nuovo commercio che usava già sfiorare col Robineau, e che al Mouret aveva accennate quella sera che avevan passeggiato insieme alle Tuileries. Non le riusciva occuparsi d’una cosa, veder andare innanzi un lavoro, senza essere tormentata dal bisogno di metterci un po’ d’ordine, migliorarne il meccanismo. Per questo, da quand’era entrata nel Paradiso, le dava noia principalmente la incerta sorte dei commessi: quel poter esser mandati via da un momento all’altro le pareva ingiusto e dannoso a tutti, tanto al magazzino quanto al personale. Ogni volta che per le sezioni s’imbatteva in una arrivata di fresco, con i piedi indolenziti, gli occhi pieni di lacrime, trascinando la sua miseria sotto il vestito di seta, tra la persecuzione accanita delle compagne, le tornavano a mente i dolori di quando aveva incominciato anche lei, e si sentiva stringere il cuore di compassione. Quella vita da cane frustato faceva cattive anche le migliori; e le passavano pel capo tante, rovinate dal mestiere prima dei quarant’anni, scomparse nell’ignoto, le piú morte dalla fatica tisiche o anemiche, per il lavoro e l’aria chiusa, altre divenute sgualdrine sui marciapiedi; le piú [p. 490 modifica]felici, maritate e sepolte in fondo a una botteguccia di provincia. Era umano, era giusto, quello spaventoso sfruttamento dei dipendenti che i grandi magazzini facevano, anno per anno? E difendeva le ruote della macchina non già con ragioni sentimentali, ma con argomenti tratti dall’interesse medesimo dei padroni. Chi vuole una macchina forte, la fa di buon ferro; se il buon ferro si rompe o lo lasciano rompere, il lavoro si ferma, la forza si sperde, le spese crescono. Qualche volta si accendeva; e vedeva l’immenso bazar ideale, il falanstero del negozio, dove ciascuno avrebbe la sua parte degli utili secondo i meriti propri, con la certezza del l’avvenire regolato da un contratto.

Il Mouret allora, per quanto soffrisse, si metteva a ridere. L’accusava di socialismo, e le chiudeva la bocca mostrandole la difficoltà della pratica: perché essa parlava con la semplicità dell’anima sua, e se ne rimetteva bravamente all’avvenire ogni volta che s’accorgeva d’uno strappo pericoloso alla sua pratica da cuor buono. Ma intanto egli era scosso e sedotto dalla voce giovanile, fremente ancora dei mali sofferti, tanto convinta quando indicava le riforme che dovevano rinvigorire il magazzino; e la stava a sentire mentre scherzaya. A poco a poco la sorte dei commessi era migliorata; le licenze in massa, sostituite da un sistema di congedi dati nelle stagioni di minor vendita: si stava perfino studiando una cassa di mutuo soccorso la quale avrebbe messi gl’impiegati al sicuro, e avrebbe assicurato loro una pensione a una certa età. Era il germe delle associazioni operaie del secolo ventesimo.

Dionisia, d’altra parte, non si contentava di [p. 491 modifica]curare le piaghe vive che avevan fatto sanguinare lei: certe sue idee gentili, suggerite al Mouret, misero sossopra la clientela. Fece perfino contento il Lhomme, sostenendo un’idea ch’egli aveva da un pezzo, quella di metter su una banda musicale, tutta composta d’impiegati. Tre mesi dopo, il Lhomme aveva centoventi sonatori sotto di sé; l’ideale della sua vita era bell’e raggiunto. Fu data nei magazzini una gran festa, ballo e concerto, per presentare la banda del Paradiso ai clienti, a tutti! I giornali ne parlarono. Perfino il Bourdoncle, sconvolto da quelle innovazioni, dové inchinarsi davanti all’enorme pubblicità. Poi, fu messa su una sala da gioco per i commessi, due biliardi, tavole di tric-trac e di scacchi. La sera ci furono, nel magazzino, corsi d’inglese e di tedesco, di grammatica, d’aritmetica, di geografia; perfino di equitazione e di scherma. Fu costituita una biblioteca, con diecimila volumi a disposizione degl’impiegati. E si aggiunse anche un medico che desse ogni giorno consulti gratuiti; bagni, trattoria, sala di «toilette». Lí si poteva vivere senza mai uscirne; c’era lo studio, il cibo, il letto, il vestito. Bastava a se stesso il Paradiso; a tutti i piaceri e bisogni, in mezzo a Parigi, che non si stancava d’ammirare quella città del lavoro cosí rigogliosa tra le vecchie strade, aperte finalmente alla luce del sole.

Tutti si volsero allora in suo favore. Sentendo il Bourdoncle dire e ripetere agli amici suoi, che avrebbe dato un tanto per metterla lui nel letto del Mouret, capirono che non aveva mai ceduto, e che la sua onnipotenza proveniva appunto dai suoi rifiuti. E da allora fu levata a cielo: sapevano ciò che le dovevano, e l’ammira[p. 492 modifica]vano per la forza della volontà che aveva avuta. Questa, sí, che aveva messo il piede sul capo del padrone e li vendicava tutti, traendo da lui ben altro che promesse! Era giunta alla fine colei che faceva un po’ rispettare i poveri diavoli! Quando passava col suo volto gentile e ostinato, con la sua aria dolce e invincibile, i commessi le sorridevano, ne erano fieri; l’avrebbero volentieri mostrata al pubblico. Dionisia n’era lieta, e si lasciava avvolgere da quella simpatia sempre crescente. Come era possibile? Si rivedeva quand’era entrata nel magazzino miseramente vestita, spersa, spaventata, tra le ruote della terribile macchina; le era sembrato, per un pezzo, di non esser nulla, d’essere appena un chicco di miglio sotto una macina enorme; ed ora l’anima di tutto era lei, lei sola importava, lei sola poteva con una parola accelerare o rallentare il colosso che le stava sotto i piedini. Eppure non l’aveva mica voluta tanta potenza! s’era soltanto presentata senza pensieri nascosti, con l’unico incantesimo della dolcezza. Qualche volta si meravigliava ella stessa di trovarsi cosí sovrana, e n’era inquieta: perché mai le obbedivano tutti? Non era bella, e non era nemmeno cattiva! Ma poi sorrideva col cuore in pace, non avendo in sé che bontà e ragione, un amore della verità e della logica che faceva la sua forza.

Una delle piú grandi gioie di Dionisia fu di poter giovare a Paolina, col favore di cui godeva. Paolina era incinta, e aveva una gran paura addosso perché in quindici giorni avevan dovuto andarsene due ragazze nel settimo mese di gravidanza. La Direzione non tollerava certe cose; la maternità era soppressa come un imbarazzo e un’indecenza. Il matrimonio, alla peg[p. 493 modifica]gio, si poteva permetterlo, ma i figliuoli poi, no! Paolina aveva, è vero, il marito impiegato anch’egli nel Paradiso, ma con tutto ciò aveva paura, perché, al banco, poco piú ci sarebbe potuta durare; e per ritardare d’esser mandata via, si stringeva da soffocarne, risoluta a nascondere la cosa piú che potesse. Una delle due ragazze licenziate aveva partorito in quei giorni un bambino morto, a forza di stringersi la vita; i medici disperavano anche di salvare lei. Il Bourdoncle intanto osservava che il viso di Paolina diventava sempre piú livido, e ch’ella camminava tutta d’un pezzo e come se soffrisse. Una mattina, mentre le era vicino, un garzone che alzava un involto, le diè un tal colpo, ch’ella mandò un urlo e si mise subito le mani sul ventre. Quando si fu riavuta, la portò da parte, le fece confessare tutto, e poi propose al Consiglio di mandarla via col pretesto che un po’ d’aria di campagna era proprio ciò che ci voleva: tutti avrebbero saputo di quel colpo; e, se abortiva, il pubblico ne sarebbe stato commosso: l’anno innanzi, un’altra aveva abortito. Il Mouret, che non era presente al Consiglio, non poté dire il suo parere che la sera, ma Dionisia aveva avuto il tempo di prepararlo, ed egli chiuse subito la bocca al Bourdoncle in nome dell’interesse stesso del magazzino. Volevano mettersi contro tutte le mamme? farsi nemiche tutte le giovani signore della clientela? Fu allora solennemente stabilito che tutte le maritate, quando restassero incinte, sarebbero messe da una levatrice speciale, non appena la loro presenza al banco desse noia a certi scrupoli eccessivi. [p. 494 modifica]

Il giorno dopo, quando Dionisia andò nell’infermeria a far visita a Paolina, che aveva dovuto mettersi a letto, questa la baciò di-schianto su tutt’e due le gote:

— Come siete buona! Se non eravate voi, mi mandavano via!... E non abbiate paura, il medico dice che non accadrà nulla di male.

Il Baugé, scappato per un momento dalla sua sezione, era anche lui li, dall’altra parte del letto, e balbettava ringraziamenti, confuso davanti a Dionisia che ora trattava come una persona degna d’ogni rispetto e molto superiore a lui. Oh! se avesse sentito dire ancora qualche porcheria su di lei, avrebbe pensato lui a chiudere il becco agli invidiosi! Ma Paolina, sorridendo, alzò le spalle:

— Mio caro, tu non dici che sciocchezze!... Va’! va’! lasciaci un po’ discorrere insieme.

L’infermeria era una stanza lunga, inondata di luce: dodici letti in fila, con le tendine. Ma quel giorno c’era Paolina sola, in un letto vicino a uno dei grandi finestroni che davano in Via Nuova di Sant’Agostino.

Cominciaron subito le parole affettuose, e le confidenze sussurrate, in mezzo a quella biancheria pulita, a quell’aria dolce, a quel vago profumo di bucato.

— Dunque fa tutto ciò che volete voi?... Come siete cattiva, a farlo soffrire cosí! Ditemi un po’, giacché sono entrata su questo argomento. L’odiate?

Teneva tra le sue la mano di Dionisia, ch’era a sedere accanto al letto coi gomiti appoggiati sul capezzale; e Dionisia, profondamente commossa, con le gote infiammate, non ebbe piú la [p. 495 modifica]forza di tenere stretto il suo segreto, e, nascondendo il capo nel guanciale mormorò:

— Gli voglio bene!

Paolina cascò dalle nuvole:

— Come! l’amate? Ma allora ci vuol poco; dite di sí.

Dionisia, col viso sempre nascosto, diceva di no, scotendo risolutamente la testa. E diceva di no, appunto perché gli voleva bene, senza riuscire a spiegarselo: ma sentiva a quel modo, e, per quanto capisse ch’era una cosa ridicola, non si poteva mica rifare.

La sorpresa dell’amica aumentava, e alla fine le domandò:

— Ma dunque lo fate per farvi sposare?

Dionisia si rizzò a un tratto, sossopra:

— Lui sposarmi! Oh, no, no! Vi giuro che non ci ho pensato mai!... No, non mi è mai nemmeno passato per la testa, e voi lo sapete se son capace di mentire!

— Dio santo! — rispose con dolcezza Paolina. — Se aveste voluto farvi sposare, non vi sareste condotta diversamente... O prima o poi bisogna che la finite, e non c’è che il matrimonio, una volta che vi ostinate cosí... Tutti, vedete, lo credono; già, credono che lo fate disperare per portarlo davanti al sindaco... Che ragazza curiosa siete voi!

E si dové mettere a consolare Dionisia, ch’era ricascata sul guanciale, singhiozzando e ripetendo che se ne voleva andare dacché l’accusavano di cose che lei non se l’era neppur sognate. Sicuro, quando un uomo ama una donna, la deve sposare: ma lei non voleva niente, non ci pen[p. 496 modifica]sava, desiderava soltanto che la lasciassero in pace con i suoi dolori e le sue gioie, come tutti gli altri. Era meglio che se ne andasse.

In quel mentre il Mouret passava giú nei magazzini; s’era voluto distrarre col visitare da caalzava ora linee monumentali dietro l’assito che po i lavori. Eran passati dei mesi, e la facciata la nascondeva al pubblico. Un esercito di operai vi lavorava nei marmi, nelle porcellane, nei mo saici; si stava dorando il gruppo di mezzo; sopra la porta e sul cornicione si ponevan già i piedistalli che dovevan reggere le statue delle città industriali di Francia. Dalla mattina alla sera, lungo la Via Dieci Dicembre, aperta da poco, stava ferma una folla di curiosi a guardare in su, senza riuscire a vedere nulla, ma attirati dalle vantate meraviglie di quella facciata, che il giorno dell’inaugurazione doveva far parlare di sé tutta Parigi. Su quei palchi dove ardeva il lavoro, in mezzo agli operai che finivano di realizzare il suo sogno, il Mouret sentiva piú amaramente che mai la vanità della sua potenza. Il pensiero di Dionisia gli aveva a un tratto quasi tolto il respiro; quel pensiero che senza mai posa lo rodeva, come un male incurabile. Fuggí via senza una parola di lode, temendo di mostrare le sue lacrime, lasciando dietro a sé la nausea del trionfo. Quella facciata, che s’innalzava quasi compiuta, gli pareva piccina come uno di quei muri di rena che si costruiscono i bambini; neppure se fosse stata larga da un quartiere all’altro ed alta fino alle stelle, avrebbe riempito il vuoto del suo cuore che soltanto il «sí» d’una fanciulla poteva riempire. [p. 497 modifica]

Quando il Mouret rientrò nello studio, si sentiva soffocare dal pianto rattenuto. Ma che voleva dunque costei? Non osava piú offrirle danaro; il pensiero confuso del matrimonio gli si affacciava tra repugnanze di vedovo giovane. E nella stanchezza della sua impotenza non poté piú frenarsi, e pianse.

Si sentiva infelice.