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il paradiso delle signore


— Ci dovremmo ficcar tutti in quella fossa! — disse il Bourras a Dionisia che gli era rimasta accanto. — Tutto il quartiere va giú con la poverina... So io quel che voglio dire, il commercio all’antica può andar giú con quelle rose bianche che scendono con lei.

Dionisia ricondusse lo zio e il fratello in una carrozza da lutto. Il resto della giornata lo passò tristissimo. Cominciò a metterla in pensiero il pallore di Gianni; e quand’ebbe capito che si trattava al solito d’una donna, lo volle quetare con l’offrirgli danaro, ma lui scoteva il capo e rifiutava. Faceva sul serio questa volta; amava la nipote d’un pasticcere ricchissimo, e lei non accettava nemmeno i mazzolini di viole. Poi, piú tardi, quando Dionisia andò a pigliare Beppino dalla Gras, questa le disse che era troppo grande oramai e non lo poteva tener piú; ecco un’altra seccatura; bisognava trovargli un collegio, e forse allontanarselo. E, per ultimo, nel portar Beppino dal Baudu, si sentí spezzare il cuore a vedere la disperazione muta di quei due. La bottega era chiusa; lo zio e la zia, in fondo al salottino, s’erano scordati d’accendere il gas, per quanto in quella giornata d’inverno fosse molto buio. Rimasti soli, l’uno in faccia all’altra, nella casa a poco a poco fatta vuota dalla rovina, sentivano, per la morte della figliuola, piú tetre le tenebre e quasi l’ultimo scricchiolio della vecchia casa imputridita dall’umido. Sotto quello sfasciamento, lo zio girava e rigirava, senza potersi fermare, intorno alla tavola, col suo passo di dianzi; muto, cieco: la zia non diceva neppure lei una parola, caduta su una seggiola, col viso bianco d’un ferito che perda il sangue a goccia a goccia. Quando Beppino li baciò e ri-


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