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il paradiso delle signore

fiamma divoravano gli operai che davano del piccone sulla facciata. Per le finestre vuote si vedeva ora l’interno, le stanzucce, la scala nera, dove il sole non era entrato mai da duecento anni.

— Ah! siete voi! — rispose alla fine quando l’ebbe riconosciuta. — Che infamia!... ladri!

Dionisia non osava dire piú nulla, commossa a vedere quella rovina, non potendo nemmeno lei staccare gli occhi dalle pietre ammuffite che cadevano. Lassú, nel soffitto della sua antica stanza, vedeva ancora il nome in lettere nere e tremolanti «Ernestina», scritto con la fiaccola. E si rammentava quei suoi giorni di miseria, sentendo una pietà profonda per tutti i dolori. Ma gli operai, a far piú presto, avevano pensato di rompere il muro nella base; e già tentennava.

— Li schiacciasse tutti! — mormorò il Bourras selvaggiamente.

Ci fu un fragore terribile. Gli operai, spaventati, scappavano per la strada. Il muro veniva giú e portava via, con sé, tutto. La casa non si reggeva piú, piena di screpolature, e precipitò come se fosse stata di fango diluito dalla pioggia. Non c’era piú che un monte di macerie, il letamaio del passato gittato sulla via.

— Dio mio! — aveva esclamato il vecchio, quasi gli avessero strappato le viscere.

E restava a bocca aperta: non avrebbe mai creduto che venisse giú tanto alla lesta. Guardava la breccia aperta, il vuoto fatto finalmente nel fianco del Paradiso, libero cosí dalla pustola che lo disonorava. La mosca era stata schiacciata; l’ostinazione accanita dell’infinitamente piccolo era stata vinta; tutto l’isolato era stato in-


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