Voci di campanili/San Simpliciano

San Simpliciano

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San Marco Santa Maria delle Grazie
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SAN SIMPLICIANO



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rachitico campanile, come mandi all’aria acuto, insistente, pettegolo lo squillo delle tue campane! A che serve rammaricarsi dell’opera distruggitrice del tempo e degli uomini? a che ti serve il protestare perchè nel vasto monastero ai tuoi piedi squillano le trombe, si strigliano cavalli e si cantano in cento dialetti diversi, canzoni all’amorosa lontana?

La terra in cui sono piantate le tue fondamenta, sacra da diciannove secoli, può dirti che mutano tempi, costumi e uomini, ma viva e immutata rimane la fede in quegli che disse: «Questa è l’opera di Dio, che voi crediate in Colui che ha mandato.» [p. 26 modifica]

Tacete, o campanelle malcontente, lasciateci udire quella sola fra voi che ha un suono grave e triste e fa pensare a cose passate. Essa ci racconta di tempi lontani, quando qui non v’era che una folta boscaglia traversata dalla via sacra, disseminata di are e di sepolcri: la via che conduceva alla Milano imperiale, splendida di torri, di palazzi, di teatri e di terme, dove gl’imperatori sostavano per recarsi nel settentrione o per tornare trionfatori a Roma.

Dal più fitto del bosco, pochi cristiani raccolti in una capanna, tendevano l’orecchio al frastuono di carri e di cocchi sulla via selciata, poi tutto tornava nel silenzio ed essi pregavano perchè il potente ch’era passato non portasse con sè lo sterminio e la violenza. Poco lontano, in un altro folto bosco, altri vivevano pure nella preghiera intorno a Simpliciano, l’amico del vescovo Ambrogio; vivevano ascoltando le voci di quell’anima ch’era stata dimenticata nel violento desiderio di benessere materiale, nell’affrettata conquista di una civiltà inutilmente maturata, e che la parola di un uomo, il quale avea parlato semplice come nessun altro uomo mai, aveva guidato alla Verità.

Vennero essi verso la città, nel bosco presso [p. 27 modifica]la via sacra e aiutarono i fratelli ad erigere coi sarcofagi e le lapidi pagane sparse intorno, una casa d’orazione. Ma il vescovo potente della vicina metropoli non voleva s’adorasse Dio nell’ombra. Sotto la luce sfolgorante, fra il canto dei fedeli, la cui voce fosse udita, forte e sicura da pagani e da ariani, così! non più paurosamente nell’oscurità dei boschi e dei sotterranei.

E sorse la basilica, circondata di portici, ornata di sculture e d’iscrizioni e sulla cui porta, notte e giorno per più centinaia d’anni, arse la piccola lampada davanti alla reliquia donata da Sant’Ambrogio.

Narra la storia: che nella valle d’Agno nel Trentino, tre giovani cristiani, Sisinio, Martirio ed Alessandro, furon presi dai pagani e assassinati. Il vescovo di Trento, Vigilio, mandò i tre poveri corpi mutilati, senza le teste, a Simpliciano, allora successo come vescovo a Sant’Ambrogio, perchè li facesse seppellire a Milano, nella basilica a lui prediletta.

Dove rimasero le teste? furono lasciate l’una accanto all’altra nel loro sepolcro di Trento? furono dai pagani, compiuto l’assassinio, lanciate forse giù dai monti nei torrenti che le trascinarono al mare? [p. 28 modifica]

Ma tace la campana grave e triste di San Simpliciano e la nostra immaginazione brancola nel silenzio e nel buio.



Pochi giorni di gioia e di godimento intenso compensano qualche volta la tristezza e i crucci di una vita. Così il campanile di San Simpliciano in due giorni dell’anno — quello della festa patronale e quello della prima comunione delle fanciulle e dei fanciulli della parrocchia — fa dimenticare col suo allegro scampanìo, l’uggia di tutto il resto dell’anno.

Sono note squillanti e gioiose che entrano come raggi di sole in tutte le stanze del popoloso e popolare quartiere; scendono nei cortili stretti e scuri, infilano le umide scale e i ballattoi, fanno spalancare le finestre, portando un risveglio di vita in vecchi infermi e malinconici, in bimbi anemici e senza sorriso, in vecchie fanciulle senza amore; portano forse un desiderio di vita più onesta in tanti corrotti che s’annidano in certe putride case lì intorno, in vie sudicie di cui una portò fino a qualche tempo fa, e merita ancora, il nome di Guasto. [p. 29 modifica]

E la sopravvegnente primavera? è il ritorno delle rondini sotto le grondaje? Lo scampanìo di quelle due feste è un’allegria per tutti: a nessuno sembrano le campane degli altri giorni.

Chi è l’artista che batte la tastiera di lassù? perchè non vi sale più spesso dentro l’anno a portar le anime in alto colle sue note armoniose? non sapete, o campane di San Simpliciano, che la musica vi deve essere sacra più che alle altre perchè sotto le vôlte austere della vostra chiesa risuonarono le prime voci di fanciulli cristiani accompagnanti i riti?

Per Simpliciano come per Sant’Ambrogio la musica era l’ala che portava le anime a Dio. Davide salmeggiava: «Lodate Dio al suono delle trombe, lodatelo col salterio e colla cetera. Lodatelo col tamburro e col flauto, lodatelo coll’arpicordo e coll’organo.» Ambrogio, meno rumoroso e più intellettuale, diceva semplicemente: Lodatelo ad ogni ora del giorno, da quando canta il gallo a quando spegnete le lucerne, colla musica del vostro canto.

Ma sonate, o campane, i vostri più esultanti accordi un giorno ancora nell’anno, nel maggio fiorito, al 29 del mese: narrate ancora al popolo di Milano che l’ha dimenticata, la miracolosa leggenda. [p. 30 modifica]



Era il 29 Maggio del 1176, nel tumulto della battaglia di Legnano. Già s’alzano le spade insanguinate dei cavalieri del Barbarossa con urla di trionfo intorno al Carroccio e ai trecento Gagliardi sbaragliati, quand’ecco, bruno vestita, arriva, inaspettata come fulmine, la Compagnia della Morte.

Novecento forti uniti in un solo disperato volere; votati alla morte a patto della vittoria; sicuri di vincere se Dio li aiuta. Dal Carroccio la croce si rialza, di nuovo risuonano le preci e i canti ed accompagnano la falange salvatrice che precipita compatta sopra il nemico.

I morenti sul terreno, coi petti squarciati, rialzano al cielo i visi sfigurati implorando l’aiuto di Dio per quei prodi, ed ecco, dalla città che si disegna in fondo alla pianura, venir volando tre bianche colombe... Non le spaventa il clamore delle armi, le irate, confuse voci che non sembrano più umane; hanno drizzato il volo verso il sacro Carroccio e dritte, sicure, vanno dove Dio le porta — come i tre giovani di Trento andarono, portati dalla fede, alla morte.

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Sono essi, i tre giovani martiri delle Alpi che riposano senza capo in San Simpliciano: è lo spirito loro che viene a proteggere i novecento valorosi, la Santa Lega che ha fatto tacere le civili discordie e unire le città italiane contro il comune nemico straniero.

La Compagnia della Morte non le vede ma le sente venire dietro di sè, sopra di sè, e incalza rinvigorita. Ecco gli Alemanni piegano, il terrore li invade... il drappello, come fosse invulnerabile, s’avanza sempre, spezzando, sbaragliando, portando lo sterminio e la morte.

Precipitano cavalieri, fuggono cavalli, s’arrendono soldati; il terribile Imperatore è travolto e scompare nella mischia; vessilli e spade, lancie e stendardi, tutto è strappato alle mani nemiche.

Le tre colombe, sull’antenna del Carroccio, non muovono più ala — solo candore fra tutto quel rosseggiar di sangue; e non ripartono che quando l’orrenda carnificina è cessata, quando lo sventolar gioioso delle insegne colorate delle nove porte di Milano e de’ vessilli delle città collegate, e il canto che s’eleva intorno all’Ostia consacrata dall’alto del Carroccio, non dicono che la vittoria è del diritto. [p. 32 modifica]



Non volano ora colombe intorno al campanile di San Simpliciano? non pigolano sulla piazza, addomesticate, come in piazza San Marco a Venezia? No, non s’è mantenuta nel popolo la mistica leggenda, nè il culto per i colombi, e neppure la gran festa del 29 Maggio in cui il clero, i magistrati, il popolo di Milano si recavano in pompa solenne, sotto archi di trionfo, a rendere grazie a Dio nella chiesa di San Simpliciano. Quasi nulla più rimane dell’antica basilica e dell’antica leggenda, fuor che de’ mutilati capitelli nella porta dove figurano uccelli, che forse sono colombi, e una processione, che forse è quella del 29 Maggio.

I barbari devastarono la basilica e i frati la ristaurarono e la rifecero barbaramente; i doni di Ariberto d’Intimiano e de’ cittadini arricchivano i monaci ma non la chiesa. Ha dunque ragione il mozzato campanile di aver un’aria così umiliata.

Altre chiese assorbirono tutte le idealità artistiche e le artistiche ambizioni dei duchi di Milano, e, se non fossero stati i Benedettini, che ritornati nella vecchia basilica, le pareti dell’ampio [p. 33 modifica]dell’ampio e già splendido monastero vollero dipinte dal pennello castigato e sereno di quell’Ambrogio da Fossano che aveva lavorato alla Certosa di Pavia, noi non avremmo oggi l’unica opera d’arte che si può ammirar nella chiesa: il grande affresco del Bergognone.



Oh, l’idealità di quella pallida e bionda Madonna, chinata umile e pia a ricevere la corona dalle mani di Cristo — tutti e due inginocchiati ai piedi del Padre Eterno, sotto le candide ali dello Spirito Santo! È la «trina luce in unica stella» che videro gli occhi meravigliati di Dante. E intorno è una lunga schiera d’angeli o di cherubini variopinti che formano un fulgido arcobaleno.

Suonano arpe, cetere e viole; orano alcuni colle mani incrociate sul petto; altri colle mani giunte, e v’è negli occhi e nella dolce fisonomia d’ognuno una così penetrante soavità, che vi par di sentire un lieve canto lontano, la divina cantilena della Salutazione che rapì Dante in mistica estasi.

Non sapete perchè vi sia impossibile sottrarvi [p. 34 modifica]al ricordo della visione Dantesca, quand’ecco a sinistra, confuso fra quella folla di profeti e di santi che dappiedi della pittura guardano al «sicuro e gaudioso regno,» voi scorgete ad un tratto la figura di Dante stesso.

A lui si rivolge un vecchio dai lunghi capelli e dalla barba bianchi; è egli San Bernardo? sta Dante chiedendo, stupito di non vedersi più accanto Beatrice: «Ella ov’è?» I nostri occhi corrono a tutta quella «beata coorte» in cerca di quella che

si facea corona
Riflettendo da sè gli eterni rai

e ci pare di ritrovarla, non come la ideò Dante, ma come la sentì l’artista. Un angelo tutto candido che vince gli altri in bellezza e soavità e viene innanzi, si stacca dalla schiera, e invece di rivolgere gli occhi al centro dove tutti guardano, ha il viso chinato amorosamente a guardare in giù, verso quell’energica testa incappucciata.

La sua bella mano tocca le corde del liuto, e par che in linguaggio divino dica: — drizza gli occhi in su: vedi com’io ti sorrido e ti riguardo.