Voci di campanili/San Marco
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SAN MARCO
E l’illusione di non essere più nella Milano affacendata e rumorosa, dura e s’accresce quando s’arriva in fondo alla via, sul ponte Marcellino. S’ode il tonfo cadenzato e lo scrosciare d’acqua di una ruota di mulino, giù nel naviglio, e un picchiare secco di scalpellini. Di qui un portone che s’apre su una lunga sostra di pietre abbagliante sotto il sole; a dritta il casone scuro della tintoria, con la porta simile a un trabocchetto che voglia trascinare la gente giù, per gli scalini bagnati e viscidi, nello stanzone bujo, su quei mucchi di stoffe scolorite... Di contro, il massiccio, arcigno fianco a mattoni della chiesa di San Marco, con quel largo tetto sulla tozza torre delle campane — che ha l’aria di un frate che si sia tirato umilmente il cappuccio sulla fronte.
Una volta non era, no, così umile, ci dicono le storie. Ha avuto un passato di alterezza e di splendore anch’esso, come il Padre Cristoforo, il vecchio campanile di San Marco. Esso rizzava il suo svelto e alto cono a mattoni al disopra del terrazzo, a dominare tutto il presbitero e il grande chiostro dove passeggiavano salmodiando gli Eremitani, e il camposanto davanti e intorno alla chiesa, dove venivano a dormire l’ultimo sonno i patrizi milanesi.
Ai ricchi mercanti sfarzosi il gloriarsi del Duomo col suo lusso appariscente di marmi e la novità di pinnacoli superbi: ai patrizi la dignitosa e, in apparenza, umile chiesa, dove, lasciando l’antica forma basilicale, la nuova arte sapeva elevarsi svelta e fiorita nella sua austerità, pur adoperando il rozzo mattone e mantenendo un carattere prettamente lombardo.
Forse, invece del tradizionale gallo dorato, sventolava sull’alto del campanile un leone alato, a ricordo e gratitudine verso quella Repubblica Veneta che aiutò a riparare ai guasti fatti alla città alleata da Federico II; ed esso deve aver ruggito d’allegrezza quando Francesco Sforza invase il camposanto, e obbligando le sparse ossa a rifugiarsi in chiesa, volle scavarvi davanti un canale. Il leone della laguna, nella sua nostalgia, avea inspirato lo Sforza, e giù per quell’acqua mandò certo il suo saluto al Leone della Piazzetta.
Ancora nel 1500 l’elegante campanile si rizzava sopra i grandi alberi degli orti intorno, poi, come il campanile di Sant’Ambrogio, come quello di San Simpliciano, ebbe il capo mozzato da quel governatore che nella sua superbia spagnuola, non si sentiva però abbastanza sicuro di quelle torri di monasteri che dominavano il Castello.
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Ma che c’è ora? perchè mai, arrivati sul ponte Marcellino non proviamo più la tetraggine di quel fianco oscuro di San Marco? che cosa mai ci fa sollevar la testa senza volerlo e ci porta il pensiero in alto?
Ben pochi s’accorsero a Milano che cosa è accaduto da qualche anno al campanile di San Marco. I giornali anch’essi aveano ben altro di che occuparsi: figuratevi! c’era allora la pavimentazione delle vie, i viaggi semigratis dei giornalisti, c’erano le oche ammaestrate al Dal Verme; vi pare che avesse tempo il pubblico di alzar gli occhi e di vedere se sul cielo di Milano si disegnava un campanile di più?
Eppure questo campanile è un pezzetto di trecento risuscitato: il vecchio cono decapitato da Ferrante Gonzaga, s’è rizzato di nuovo snello e fresco a guardare il Castello che non ha più paura.
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Ed è un poema questa risurrezione: un poema che vorrebbe Longfellow per cantarlo.
— «Un vecchio aveva perduto la sua compagna: il vecchio era artista, la compagna era buona e pia. La portarono sotto la terra del camposanto e lui rimase solo nella casa quieta che guardava sull’ampio giardino. Il suo pensiero andava a trovarla, ma non laggiù nel freddo camposanto, fra i mille monumenti che si pigiano.
Il suo pensiero andava a trovarla in alto, là dove lei ha avuto fede di andare; e in alto egli pose il monumento della sua compagna, sulla torre delle campane, che domini il cielo ed elevi i cuori, come la bontà di lei, viva.
Un monumento che a lei lontano parli dell’arte, che sola confortò lui, rimasto senza la sua compagna.» —
Uno scudetto di marmo bianco appare ai piedi del cono: vi sono incise delle parole, non sappiamo quali. Nessuno le può leggere dalla via. Forse vi sarà una data che il pubblico non capirebbe, ma che risonava triste nel cuore dell’artista: e un’altra data che fra qualche secolo interesserà, quella della risurrezione dell’antico bel campanile.
È sperabile che insieme vi sia il nome di chi l’ha operata. A noi che abbiamo ben altro per la testa, che ci occupiamo di ben altro che di campanili e di poemi, non interessa punto, ma ai posteri piacerà invece di sapere che chi ha eretto alla sua compagna così degno, così eletto, così poetico monumento, si chiamava Giuseppe Mongeri.