Goa: “la Dourada„

../II ../IV IncludiIntestazione 7 aprile 2018 100% Da definire

II IV
[p. 39 modifica]

Goa: “la Dourada„.

[p. 41 modifica]

Oceano Indiano. A bordo del Pedrillo.

14 dicembre 1912.

Nessuno ha voluto seguirmi a Goa. Gli amici sono rimasti a Bombay, già presi dalle varie dolcezze della metropoli ospitale. Andare a Goa, perchè? I perchè sono molti, tutti indefinibili, quasi inconfessabili; parlano soltanto alla mia intima nostalgia di sognatore vagabondo. Perchè Goa non è ricordata da Cook, nè da Loti, perchè nessuna società di navigazione vi fa scalo, perchè mi spinge verso di lei un sonetto di De Heredia, indimenticabile, perchè pochi nomi turbavano la mia fantasia adolescente quanto il nome di Goa: Goa la Dourada.

Oh! Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili lezioni di matematica, con l’atlante aperto tra il banco e le ginocchia: ora passando attraverso l’istmo di Suez e il Mar Rosso, [p. 42 modifica]l’Oceano Indiano, ora circumnavigando l’Africa su un veliero che toccava le Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar.... Mi seguiva nel mio pellegrinaggio un compagno che non ho più rivisto da allora, e che aveva tutti i diritti a bordo della mia fantasia: aveva un fratello missionario a Goa: un fratello che non vedeva da anni, che quasi non ricordava, ma al quale doveva l’abbondanza invidiabile di francobolli coloniali e certe lettere che parlavano del Malabar e dei Gati, di tigri e di San Francesco Saverio e certe fotografie della Cattedrale e della missione tra i cocchi svettanti. Francobolli, lettere, fotografie, il nome di lui: Vico Verani: tutto m’è impresso nella memoria, come se visto da un’ora, anzi v’è impresso questo soltanto; e il viaggio sull’atlante mi pare la realtà viva, e pallida fantasia mi sembra questo cielo e questo mare: cielo e mare di stagno fuso, limitato da una fascia di biacca verde: la costa del Malabar....

Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose non sono che la magra fioritura di pochi semi de[p. 43 modifica]posti dal caso nel nostro povero cervello umano, nell’infanzia prima. Termina oggi il viaggio intrapreso a matita sull’atlante di vent’anni or sono, termina a bordo di questa tejera sobbalzante, una caravella panciuta, lunga trenta metri alla quale è stata senza dubbio aggiunta la prima caldaia a vapore che sia stata inventata. Ma tutto questo è indicibilmente poetico e mi compensa della vuota eleganza dei grandi vapori moderni dalle cabine e dalle sale presuntuose di specchi e di stucchi Impero e Luigi XV, dall’odore di volgarissimo hôtel, dove è assente ogni poesia marinaresca, ogni senso della cosa nuova e dell’avventura. Qui tutto è poetico, e la mia nostalgia può sognare d’essere ai tempi di Vasco De Gama, di navigare alle Terrae Ignotae, alle Insulae non repertae....

Dormo in una cuccia dall’oblock a telaietti come una finestra settecentesca. Scorpioni, blatte, termiti in abbondanza, ma in compenso ho intorno immagini e statuette di santi: da Nostra Signora del Soccorso a San Francesco Saverio: con strane preghiere in portoghese, per l’ora [p. 44 modifica]del naufragio....; e il legno della cabina sa di salmastro e di decrepitudine, e stride, di notte, al rodio ritmico dei tarli.

Pochi viaggiatori a bordo; qualche mercante Goanese, e cinque monaci che ritornano a Goa dalle Missioni del Nord. Ho sperato subito di aver notizie del missionario sconosciuto:

— Sì, vado a Goa per vedere il fratello d’un mio amico. Vico Verani, Vielha Citade....

Ma i cinque monaci non sanno:

— Noi siamo del Convento di Pandjim; Pandjim è la Goa nuova. Ma conosco tutti i Monaci della Citade, le farò una presentazione per Padre Jacques della Chiesa di Bom Jesù, un’altra per la Cattedrale....

Strani questi Monaci Goanesi dal volto angoloso e terreo, dal sorriso larghissimo, dagli occhi piccoli, neri come scaglie d’onice incastonate sotto i sopraccigli enormi e baffuti: figure di Zuloaga, esagerate dal clima e dall’incrocio; vivacissimi nel riso, nello sguardo, nel gesto, opposti in tutto alla rigida biondezza degli Inglesi confinanti.... [p. 45 modifica]

15 dicembre.

Oggi sono sceso nella stiva. Quanta merce disparata abbiamo con noi! Pianoforti, macchine da scrivere, biciclette, balle di cotone a fiorami vivacissimi per le belle dei coloni, tre casse enormi, dove viaggia, diviso in tre parti, una statua gigantesca di San Francesco Saverio, omaggio del vescovo di Bombay a non so quale convento portoghese, e un’infinità di sacchi pieni di cocci: cocci di stoviglie raccattati in tutti gli spazzaturai occidentali, frantumi a colori vivi, ricercati dai musaicisti goanesi che ne fanno pavimenti a disegni complicati, di bellissimo effetto.

Ho avuta una gradita sorpresa. In cucina, tra un casco di banani e una latta di conserve, ho trovato un libro: Os Lisiades, le Lusiadi, il poema immortale di Camoens: un’edizione arcaica sucidissima, con in calce la real alvaira: la licenza dei superiori. Non conosco il portoghese e non mi giova ad avvicinarmi il poco spagnuolo che so, ma i versi sono così armoniosi, così perfette le rime che alla fine d’ogni strofe capisco esattamente ciò [p. 46 modifica]che il poeta ha voluto dire. Mi aiuta, d’altra parte, il cuoco, lo sguattero di bordo, qualunque marinaio: il poema è popolare tra gli illetterati come da noi Bertoldo o i Reali di Francia: con questa variante che il libro è tra i capolavori più completi che il Rinascimento abbia dato alla letteratura europea. È l’opera nazionale portoghese, quanto sopravvive, ohimè, di tutta la grandezza coloniale dei giorni splendidi. Non per nulla, e non indegnamente, Camoens fu detto il Tasso del Portogallo. Tutti gli elementi delle grandi epopee sono ricordati intorno alla figura dell’eroe: Vasco De Gama, e intorno alla sua gesta: la scoperta delle Indie Orientali. Eppure non so leggerlo senza un sorriso d’irriverenza. La figura dell’Ulisside portoghese è così grottesca, camuffata secondo l’ossessione classicheggiante del tempo: sembra di vedere gli stivali, il robone logoro d’un pirata medioevale spuntare sotto la corazza, il casco clipeato delle reminiscenze omeriche e virgiliane. Tutto l’Olimpo Pagano e Cristiano presiede alla gesta. La Vergine Maria da una parte — una Vergine troppo paganeggiante — e [p. 47 modifica]Venere dall’altra — una Venere che sa di sacrestia e di Santa Inquisizione — si contendono a volta a volta l’eroe navigatore. Il poema s’apre con una bufera d’antico stile, quando Vasco De Gama piega il Capo delle Tempeste: Bacco lo perseguita, Venere lo protegge. Sbarco a Melinda, accoglienza del Re e della figlia, ed ospitalità generosa, a sdebitarsi della quale Vasco riassume in tre lunghi canti gli annali del Portogallo, le sue glorie passate e future; la filastrocca oratoria di tutti gli eroi antichi quando giungevano alla Reggia ospitale.... Ed ecco Didone camuffata da Ines de Castro, e il quadro commovente della partenza di Vasco con la sua flotta, e il Ciclope, parodiato dal gigante Adamastorre. E tra queste reminiscenze omeriche e virgiliane Vasco giunge a Goa, la espugna, s’impossessa di tutta l’India e non dimentica con i vari Rahja un formale contratto di commercio, in belle ottave armoniose. I navigatori ritornano in patria trionfalmente e sono accolti in un’isola incantata, paradiso allegorico dove le ninfe di Teti, ferite da Venere, li compensano d’ogni dura fatica. I santi del Paradiso [p. 48 modifica]Cristiano assistono plaudendo — che libro buffo! — alle cose che si fanno sull’erbetta accademica di questo giardino d’Armida.

Che libro buffo! Ma pieno di bellezze, ed è certo il viatico poetico più adatto per il sognatore che naviga verso Goa leggendaria, il più adatto per ingannare le ore di torpore tropicale, resupini sul ponte, sotto la doppia tenda, nella monotonia d’un viaggio che sembra non dover finire più mai....

Vasco De Gama: nome tra i più favolosi che io conosca: tanto che non riesco a vedere l’uomo fuori della favola, non lo so pensare vivo, mortale, su questo mare, sotto questo cielo che furono i suoi! E pure la sua flotta navigava forse queste acque quando ospitava a bordo, in gran pompa, il Negus complice ed alleato. E l’Imperatore d’Etiopia e il Capitano portoghese erano chini sulla carta a meditare un’impresa degna dei Ciclopi, una vendetta da semidei: deviare il corso del Nilo, costringerlo ad una nuova foce sul Mar Rosso, inaridire così tutta la valle del Delta, annientando per sempre l’Egitto [p. 49 modifica]rivale; forse le navi di Vasco seguivano questo stesso solco, avevano d’innanzi questo stesso orizzonte, quando l’esploratore giunse un’ultima volta alla terra della sua gloria e del suo tormento, già vecchio, misconosciuto, agonizzante, e — turbandosi la calma dell’Oceano Indiano per un maremoto improvviso — il morente impose coraggio alla ciurma allibita, gridando con voce ferma: Non temete! È il mare che trema d’innanzi a noi!

16 dicembre.

Ohimè il mare non trema d’innanzi a noi. Da tre giorni quadro invariabile. Cielo e mare di stagno fuso, con emerso qualche tratto nero: le pinne degli squali, con sempre all’orizzonte, unica traccia concreta, la fascia sottile ondulata di biacca verde: la costa del Malabar....

17 dicembre.

Sono salito sul ponte all’alba. Si costeggia la terra. Il verde s’è innalzato come una cortina che si prolunga all’infinito. Sono i cocchi, gli alberi che [p. 50 modifica]regnano le coste di tutto il Malabar, di Ceylon, della Papuasia: compatti, monotoni, abbarbicati fin sulla sabbia, tanto che l’alta marea inghirlanda i loro tronchi d’alghe e di attinie. Sono i cocchi, la nota visiva dominante di queste contrade, le palme selvaggie che dànno al tropico quel suo profilo nostalgico. E non so come un mio compagno di viaggio li possa chiamare datteri, confonderli col dattero africano dal tronco a colonna, fatto di scaglia e di stoppa, dalle foglie di latta rigida, arido compagno del deserto e della piramide. Il cocco è l’amico della pagoda, il figlio dell’ombra umida e calda. I tronchi si profilano bianchi sulla compagine verde, obliqui, sottili come steli di gramigne favolose, lancianti a venti, a trenta metri nel cielo il razzo verde delle foglie espanse, gigantesche, ondeggianti con una grazia infinita sul tronco troppo gracile. Appoggiato al parapetto del ponte, col mento chiuso tra le mani guardo da un’ora quell’unico scenario di creature vegetali. La loro bellezza m’incanta.... [p. 51 modifica]

17 dicembre, pomeriggio.

E non immaginavo una città cristianissima sepolta sotto l’ombra selvaggia.

Il Pedrillo ha risalito l’estuario della Mandavj, ci ha deposti sull’imbarcadero malfermo della Vielha Citade, ed è ripartito in tutta fretta verso la Nova Citade, prima che la bassa marea lo paralizzi su queste rive.

Da due ore m’aggiro per la più strana, la più triste delle città morte. L’Oriente è pieno di città che furono. Ma risalgono a millenni, nella notte delle origini buddiche e bramine, ce le fa indifferenti l’abisso del tempo, della razza, della fede. La nostra malinconia ritrova invece a Goa lo spettro di cose nostre: conventi, palazzi, chiese del Cinquecento e del Seicento: una vasta città che ricorda a volte una via di Roma barocca o una piazza dell’Umbria: una città che fu suntuosa e ricca, sorta per imposizione della croce e della spada, città che conteneva trecentomila abitanti ed ora ne conta trecento: tutti monaci o guardiani dei palazzi e delle [p. 52 modifica]chiese crollanti, testimoni indolenti che non ristorano una pietra, rassegnati all’opera implacabile del clima e della foresta. Per le cose come per gli uomini il tropico è deleterio; e sotto questo cielo di fiamma e d’uragano i secoli contano per millenni. La città è vastissima, ma sono pochi gli edifici completi. Avanzo a caso, senza una mèta, senza una commendatizia, scortato da un monello vivace che m’interroga sulla mia scelta: — Palazzo dell’Inquisizione? Chiesa di San Francesco Saverio? Cattedrale di Nostra Signora degli Elefanti? — E comincia a considerare il mio vagabondaggio trasognato con qualche inquietudine. Un edificio m’attira, un palazzo del Seicento, imponente, dalle grate panciute, dai balconi a volute aggraziate, recanti al centro, in corsivo, un monogramma o uno stemma padronale; e lo stemma è riprodotto in pietra sul vasto androne d’ingresso. Il cortile è circondato da un doppio loggiato barocco, a colonne spirali; ma il loggiato è crollato per una buona metà e s’apre sopra la campagna selvaggia. Seguo il portico a caso, entro nella vasta dimora. Ohimè! Vedo il soffitto; e, attraverso il soffitto, [p. 53 modifica]larghe chiazze azzurre: il cielo del tropico. Dei tre ripiani, delle fughe interminabili di sale e di corridoi, non resta più traccia, tutto è crollato, e il palazzo non è che una scatola, una topaja deserta, che serve di magazzino per le noci di cocco. In terra, fino a vari metri d’altezza, sono accumulati i grossi frutti chiomati che fanno pensare a piramidi di teste tronche. Esco all’aperto, mi siedo sotto il portico sopra un capitello infranto, mi disseto ad un cocco che il guardiano rompe e mi porge.

— Di chi è il palazzo?

— Dell’Abbazia.

— Ma chi l’abitava, chi l’ha fatto costrurre?

Il guardiano non comprende, mi guarda perplesso. Accenno allo stemma che traspare anche qui, sul selciato consunto.

L’uomo non sa, fa un gesto d’indifferenza.

— Chi può sapere? Un conquistador, nei tempi dei tempi....

Ma quale conquistador? È mai possibile che tre secoli possano annientare a tal segno ogni memoria del nostro passaggio sulla terra? E la memoria di uomini [p. 54 modifica]possenti, di dominatori temuti ed invidiati che empirono il mondo delle loro gesta e del loro nome, che il loro nome imposero con la croce e con la spada, scolpirono in marmo ed in ferro sui loro palazzi magnifici. Fu un Diego Lajnez? Un Alfonso Dequero? Un Manrico Tizzona? Forse ne ho già incontrati gli occhi sopraccigliuti in qualche galleria europea, in una tela di Velasquez o di Van Dyck, uno di quei conquistador mezzo mercanti, pirata, guerriero, esploratore che s’avanzano in tutta la pompa delle sete, delle piume, dei velluti, recando la consorte per mano, una pingue signora a riccioli simmetrici, sorridente nonostante il ferreo busto ad imbuto, la gorgiera crudele; e la prole segue in bell’ordine, già tutta imbustata e corazzata come i genitori, e un servo negro reca una scimmia sulla spalla e un pappagallo nell’una mano, sollevando con l’altra una cortina di velluto, e tra le due colonne appaiono le galee potentissime, d’innanzi al porto d’una città favolosa: Goa. Goa la Dourada, Regina dell’Oriente, orgoglio dei figli di Luso, quando sui dominii portoghesi il sole non tramontava [p. 55 modifica]mai. «Chi ha visto Goa non ha più bisogno di veder Lisbona».

Ancora una volta tocco l’ultimo limite della delusione, sconto la curiosità morbosa di voler vedere troppo vicina la realtà delle pietre morte, di voler constatare che le cose magnificate dalla storia, dall’arte, cantate dai poeti, non sono più, non saranno mai più, sono come se non siano state mai!

Strade interminabili, alternate di palazzi cadenti, vuoti come teschi, di verzura selvaggia sopravanzante alti muri massicci, di torrioni rivestiti di capillarie pendule, di liane gonfie, maculate come pitoni; e chiese, ruine religiose più tristi delle ruine profane. Sosto nella frescura ombrosa d’un frammento di vòlta a sesto acuto, rimasta in piedi per prodigio, poichè sorretta da un solo muro superstite. La mia nostalgia s’illude per un attimo d’essere in una chiesa diroccata della Romagna o dell’Abruzzo. Ma tre scimmie oscene — vero simbolo apocalittico di Satanasso — occupano il vano dell’abside, una frotta di pappagalli minuscoli corre sulle quattro ogive; non l’edera, non la [p. 56 modifica]lucertola amica animano la pietra morta, ma uno strano rampicante dai fiori sogghignanti, e i camaleonti diabolici, dagli occhi strabici.... Dall’alto un cocco ha introdotto nella chiesa una foglia immensa e l’agita lento, proiettando in terra l’ombra di una mano che benedica.

La malinconia della città morta è tutta nel contrasto di questo medioevo europeo, di questo passato nostro, sepolto sotto un cielo d’esilio, in una terra selvaggia.

Non ho altra mèta, altra indicazione in questa solitudine di piante e di ruine che il nome di un italiano non conosciuto mai: e lo ripeto a tutti i rari passanti; ma nessuno sa indicarmi il suo convento. I conventi sono molti e passo dall’uno all’altro inutilmente; nessuno conosce Vico Verani e senza il suo nome religioso sarà difficile la ricerca; e non ricordo quel nome. Mi consigliano di rivolgermi alla Cattedrale dov’è la Direzione Ecclesiastica con tutti i registri....

Affretto il passo, seguito dal monello goanese che si interessa a quella ricerca con grandi esclamazioni grottesche, e agitar d’occhi e di braccia: una mimica [p. 57 modifica]eccessiva che rivela il rampollo di razza bastarda. Si arriva nel centro di Goa: solitudine, silenzio, morte anche qui. Formidabile come una fortezza il Palazzo della Santissima Inquisizione: inquisizione più spaventosa di quella europea, causa prima della decadenza d’un dominio coloniale che non ebbe l’eguale in grandezza.

Ecco la Cattedrale, chiesa abbaziale delle Indie, moschea trasformata in tempio cristiano da San Francesco Saverio. Ed ecco la chiesa del Bom Jesù su di una piazza deserta, ombrata di palme. Visito la tomba del Santo, suntuoso mausoleo barocco di giada, di marmo, d’argento. Il corpo del Santo fu ufficialmente dichiarato Vicerè delle Indie e Luogotenente generale; il vero governatore che giungeva dal Portogallo doveva chiedere il permesso alla salma idolizzata, e ancora al principio del secolo XIX egli veniva in gran pompa a questa chiesa prima di prendere il suo posto: il rito voleva che ritornasse a colloquio con le sante reliquie, prima d’ogni decisione importante....

Il monaco mi fa passare nelle sacrestie: [p. 58 modifica]attraversiamo un cortile interno, vasto e murato, dove lo stile tozzo d’altri tempi, la malinconia secolare fanno uno strano contrasto con la verzura ed il cielo abbagliante. Si sale al primo piano; nella biblioteca sono presentato al Padre Superiore. Il monaco m’accoglie benevolo, fa togliere dagli scaffali tre, quattro registri di epoche diverse, sfoglia con rapidità accurata, appuntando sulla carta giallognola l’indice gemmato d’una grossa pietra violacea. Nel silenzio considero quella tonsura grigia ed occhialuta, la persona massiccia nella tunica nera e bianca, e l’altro compagno silenzioso, scarno, irrigidito, addossato ad un planisferio antico recante a figure di belve e di selvaggi i confini portoghesi. E dietro le spalle del padre, dietro l’alta sedia a bracciuoli, s’apre la vetrata, appare un cortile alberato dove una schiera di monelli indigeni, dai volti più foschi nel camice bianco, fanno esercizi ginnastici accompagnati da una specie di canto liturgico. Odore d’incenso putrido, di tabacco aromatico, di tempo e di santità, odore di fiori sconosciuti e di miasmi tropicali. Ho l’incubo. Guardo con [p. 59 modifica]impazienza ansiosa l’indice che scorre sul vasto registro. Il silenzio mi pare eterno. E mai avrei pensato di tanto desiderare l’incontro d’un italiano, sia pure il fratello sconosciuto di un amico dimenticato.

Il padre s’arresta, legge finalmente:

— Padre Miguel, al secolo Vico Verani, convento di Santa Trinidad, insegnante di teologia dal 20 settembre 1884, ordinato nel 1891 e....

Il padre alza il volto, mi fissa con occhi placidi:

— È morto il 22 ottobre 1896.

Un silenzio.

— Si dura poco, sotto questi climi, caro signore.

La solitudine mi par più completa, più vivo il desiderio di andarmene, ora che so di aver seguita la traccia d’un morto nella città morta. I monaci m’offrono ospitalità, insistono; ci sono dieci chilometri prima di arrivare a Pandjim, la Nova Citade dove posso trovare un albergo; la notte mi accoglierà a mezza via. Poco importa. M’accomiato; salgo su un trespolo a zebu, un veicolo che ricorda una bara o una bigoncia, dove il viaggiatore si [p. 60 modifica]adagia quasi supino, sollevando e abbassando sul volto una specie di paracuna. E si parte di gran corsa verso la Goa moderna.

Goa moderna: ma sembra una città di provincia dei tempi andati, una capitale di qualche Republica dell’America Centrale, sul finire del secolo XVIII. Passo la mia sera nel modo più banale, pur di convincermi di vivere ancora, di essere sempre ai giorni nostri. Entro in un cinematografo. Passo in un caffè, tra questa folla numerosa, così diversa dalla corretta eleganza degli Inglesi e dalla grazia dignitosa degli Indu, folla di meticci portoghesi che si riprodussero come la gramigna sotto questo cielo, sopravvissero alle ruine, più tenaci della pietra, e che si chiamano pomposamente Toupas, cioè europei «che portano il cappello», ma che d’europeo non hanno più nulla, con quelle spalle gracili, le gambe smilze, il volto olivigno, angoloso, dagli occhi vivi, ma scimmieschi sotto la fronte depressa; e hanno atteggiamenti grotteschi di cavalleria, sono lisciati, impomatati, portano in giro sigari enormi e compagne languide, che sfoggiano i [p. 61 modifica]figurini di dieci anni or sono, il ritagliume che loro invia qualche fondo di magazzino europeo.

Sorseggio un bicchierino d’arach, il liquore nazionale, il massimo commercio della colonia. Tra il vociare aspro e sconosciuto che m’assorda e il fumo che m’accieca e mi soffoca, ricordo con qualche cartolina illustrata qualche amico d’Europa. E osservo che i francobolli recano ancora l’effige di Don Carlos; la florida ciera del monarca trucidato mi sorride sotto la correzione violenta a grossi caratteri neri: Republica. Sic transit. Non so perchè questo particolare chiude con un’ultima tristezza questa sosta portoghese, giornata malinconica tra le più malinconiche del mio pellegrinaggio.

Esco dal caffè, passeggio pei giardini, m’allontano lungo il mare fin dove cessano i fanali a gas ed appaiono tutte le stelle del cielo tropicale, dominate dalla Croce del Sud; s’ode nel buio il crepitìo caratteristico che fanno le foglie dei palmizi fruscanti tra loro, alla brezza marina. E tento di ricordare e di ripetere come una preghiera sulla tomba della città defunta [p. 62 modifica]un sonetto di De Heredia, per la patria lontana.

Morne Ville, jadis reine des Océans!
Aujourd’hui le requin poursuit en paix les scombres
Et le nuage errant allonge seul des ombres
Sur la rade où roulaient les galions géants.

Depuis Drake et l’assur des Anglais mécréants,
Tes murs désemparés çroulent en noir décombres
Et, comme un glorieux collier de perles sombres
Des boulets de Pointis montrent les trous béants.

Entre le ciel qui brûle et la mer qui moutonne,
Au somnolent soleil d’un midi monotone,
Tu songes, ô Guerrière, aux vieux Conquistadors;

Et dans l’énervement des nuits chaudes et calmes,
Berçant ta gloire éteinte, ô Cité, tu t’endors
Sous les palmier, au long frémissement des palmes.

Più che nel tronfio accademico poema di Camoens, Goa «la Dourada» è chiusa in questo miracolo di quattordici versi!