possenti, di dominatori temuti ed invidiati che empirono il mondo delle loro gesta e del loro nome, che il loro nome imposero con la croce e con la spada, scolpirono in marmo ed in ferro sui loro palazzi magnifici. Fu un Diego Lajnez? Un Alfonso Dequero? Un Manrico Tizzona? Forse ne ho già incontrati gli occhi sopraccigliuti in qualche galleria europea, in una tela di Velasquez o di Van Dyck, uno di quei conquistador mezzo mercanti, pirata, guerriero, esploratore che s’avanzano in tutta la pompa delle sete, delle piume, dei velluti, recando la consorte per mano, una pingue signora a riccioli simmetrici, sorridente nonostante il ferreo busto ad imbuto, la gorgiera crudele; e la prole segue in bell’ordine, già tutta imbustata e corazzata come i genitori, e un servo negro reca una scimmia sulla spalla e un pappagallo nell’una mano, sollevando con l’altra una cortina di velluto, e tra le due colonne appaiono le galee potentissime, d’innanzi al porto d’una città favolosa: Goa. Goa la Dourada, Regina dell’Oriente, orgoglio dei figli di Luso, quando sui dominii portoghesi il sole non tramontava