Verona illustrata/Parte terza/Capo quarto
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NOTIZIA
DELLE COSE IN QUESTA CITTÀ
PIÙ OSSERVABILI
CAPO QUARTO
FABRICHE MODERNE
L’Architettura, regina e maestra dell’arti, fiorì in Roma e in Italia negli antichi tempi, niente meno, e fors’anche più che nella Grecia stessa. Ma non potendo durare a lungo sopra la terra uno stato, si cominciò miseramente a corrompere nel declinar dell’Imperio, e dopo Costantino di mano in mano giunse a guastarsi del tutto. Cagione di questo male fu quell’istessa che impedirà pur sempre all’arti il mantenersi in perfezione gran tempo, cioè l’amor di mutazione e di novità. Cominciaron gli Architetti e gli artefici ad infastidirsi d’essere imitatori, e di usar sempre singolarmente nelle colonne le proporzioni e le forme medesime, e di non far mai altro ne’ capitelli che foglie e volute. Venne lor voglia di diventar autori, e d’introdur nuovi modi. Entrò opinione che il pregio consistesse nel variare e nell’inventare; quinci è, che se venti colonne si veggono in edifizio de’ mezani secoli, venti, differenti forme e disegni ben sovente vi si osservano ne’ capitelli. Posto questo principio, ogni buona regola forza è che vada a terra, e a ridicole stravaganze forza è che si faccia luogo. Diede mano al corrompersi di quest’arte il corrompimento delle belle lettere, che nel basso secolo de’ Romani appunto per l’istessa ragione pur s’introdusse. Il Vasari, secondo l’universal prevenzione, disse che le cattive maniere di fabricare furon trovate da’ Goti, e che son Tedesche (P. I, pag. 26; P. II, p. 325); ma nacque tal opinione dalla superbia nostra, per cui tutto il cattivo abbiam considerato come straniero: la falsa immaginazione che tal guastamento venisse da’ barbari, i quali architettura non aveano nè buona nè cattiva, e in così fatti lavori non ponean mano, si è già sgombrata nell’Istoria (lib. II). Quivi si è mostrato parimente, come con tutta la trasformazione degli ornamenti, si ritenne però in Italia sempre il modo Romano per quanto spetta alla solidità, e alla perfetta e magnifica costruzione de’ muri: anzi nelle proporzioni totali ancora, e nel complesso degli ornati, sontuosi edifizj non mancano fatti in varj luoghi d’Italia ne’ mezani secoli che meritali lode, e ne nomina alquanti il Vasari. Così nell’ardimento e ne’ modi che aveano i Romani d’inalzar con facilità colonne e pesi sterminati, continuarono le succedute età. Sovvienmi della Chiesa detta la Rotonda fuor di Ravenna, dove la cupola, o volta che serve di letto e che non ha niente meno di dieci braccia per diametro, è tutta d’un sol pezzo i pietra d’Istria. Bell’impresa sarebbe stata per Longobardi o per Goti il lavorare, trasportare e collocare in quell’altezza sì fatta mole. Par quasi impossibile, dice il Vasari nel Proemio alle Vite, che un sasso di quella sorte fosse tanto in alto collocato. Ma in questa nostra città osservisi la porta del Duomo, e la sveltezza dentro delle colonne che distinguono le navate, tenuta dall’Architetto per non ingombrare, e le belle volte pochissimo arcuate e incrociate da cordone di bella pietra lavorato vagamente, benchè a nostri giorni stolidamente imbiancato. Osservinsi le muraglie di S. Zeno, e il suo campanile, metà del quale si fece nel 1045, e nel fianco della Chiesa si noti, come faceano anche architrave, fregio e cornice, ma tutto d’invenzione e di capriccio, com’è anche nel basso lo strano ornato delle colonnette: osservisi altresì l’Occhio, cioè la rotonda fenestra ch’è nell’alto sopra la porta, e dà lume alla Chiesa per l’avanti molto oscura. L’ingegnoso artefice con bizarro disegno la fece in forma della ruota della fortuna con sei figure intorno all’ultimo giro; altri siede, altri ascende, altri precipita capitombolo. Apparisce come durava ancora l’uso Romano di mostrar qualche intenzione ne’ lavori, e di rappresentar sempre qualche cosa. L’istesso artefice fece per battezare gran vaso di pietra ottangolato, che tutto d’un pezzo e sottilmente incavato si vede nel fondo della Chiesa. Il costui nome fu Brioloto, usalo da più altri in Verona: tanto insegna l’iscrizione incastrata appresso nel muro, quale si porrà qui, come sta, per non essere ancor publicata, e per la bizarria del suo dettato misto di metrico, ritmico e leonino, e con sensi rotti e tronchi.
Sul cerchio interiore questi due versi son nel di fuori:
En ego Fortuna moderor mortalibus una,
Elevo, depono, bona cunctis vel nulla dono.
E nel di dentro:
Induo nudatos, denudo veste paratos,
In me confidit si quis, derisus abibit.
L’altro iscrizioni della facciata son divulgate, benchè con più errori, come dove in luogo di quaerit anhelus, hanno letto Quirifanelus. Le figure d’animali, o di mostri in basso rilevo tenute da molti in questa e in altre vecchie fabriche per geroglifici significativi, altro non sono che bizarrie ed ornamenti. Rara sorte ebbe questo nostro Architetto ed artefice che si tramandasse in questa forma alla posterità il suo nome e il suo elogio. I nomi anche ci rimasero d’Orso, e di Gioventino, e di Gioviano, che furon negli ultimi tempi de’ Longobardi, come abbiam veduto altrove, e di Pacifico, che visse nel nono secolo, tanto lodato per ogni sorte di lavori nella sua lapida. Opera di maestro Martino, come da iscrizione, fu la parte alta e l’ornamento del campanile di questa Basilica, e il nome d’Adamino rimane sopra un capitello di colonna nel sotterraneo: Adaminus de Sancto Georgio me fecit. Delle mura e porte di Cangrande fu architetto Calzaro, come da lapida riferita dal Corte (lib. 10): nè d’altri abbiam potuto rinvenir memoria de’ mezani tempi.
Non mancano in Verona certamente edifizj anteriori al bando dato poi alla maniera detta Gotica, ed a quel risorgimento dell’arti che si attribuisce al 1400, i quali meritino d’esser distintamente osservati dal forestiero. Facciasi principio dalla gran Torre, alla cui fabrica fu posto mano nel 1172. L’altezza si pretende non inferiore a quella di qualunque altra delle più rinomate, benchè il non esser più questa isolata, le abbia tolta in gran parte la nobiltà della sua apparenza: chi per trigonometria l’ha scandagliata, la dice alta piedi 310 di questa misura; la sommità è nobilmente divisata ed ornata.
Non poca considerazione meritano ancora i ponti, con sì pochi archi in tal larghezza, e in fiume così impetuoso. Il Nuovo ha una torre dalla parte della città, che porta l’arme Scaligera, e fu nel 1298 fabricata per ordine d’Alberto: il ponte fu poi rifatto in gran parte con insuperabil robustezza dal Sanmicheli. Di quel dalle Navi furono architetti Giovanni da Ferrara e Giacopo da Gozo: in qual anno e per ordine di cui, l’insegna la grandissima lapida di marmo Greco, che fu posta allora su la torre ch’è nel mezo. L’iscrizione non è in latino, ma in volgare: il marmo restava da molte età coperto, e per fabrica posteriore occultato ed ignoto, e si è però non senza molla difficoltà, e con forar pavimenti e solai, levalo e calato a terra, indi trasportato al Museo dell’Accademia, e ripulito dalla calce, con cui era gli più volte stata fatta ingiuria. Può passar questa per la più insigne Iscrizion volgare che in tutta Italia si abbia, considerata la lunghezza sua e la sontuosità, e il non aversi marmo di versi Italiani avanti questo scolpito, già che supposto e mentito si fa conoscer quello dell’Ubaldini, addotto dal Borghini e dal Crescimbeni, non meno per ciò che contiene, che per l’inspezione oculare fattane da noi più volte in Firenze. Il carattere nel nostro marmo è molto grande, e di quella l’orma che chiamiam Gotica, e i versi a due per linea. Questo Poeta fa parlare il Ponte, ed usa il dialetto Veronese, più che il Toscano. Si mette come appunto sta, distaccate solamente e separate le parole con gl’intervalli.MERAVEIAR TE PO LETOR CHE MIRI
LA GRAN MAGNIFICENCIA EL NOBEL QVARO
QVAL MONDO NON A PARO
NEAN SEGNOR CVM QVEL CHE FE MEVZIRI
O VERONESE POPOL DA LVI SPIRI
TENVTO EN PACE LA QVAL EBE RARO
ITALIAN. NEL KARO
TE SATVRO LA GRAZIA DEL GRAN SIRI
CANSIGNORO QVEL CHE ME FECI INIRI
MILLE TRECENTO SETTANTA TRI E FARO
PO ZONSE EL SOL VN PARO
DE ANNI CHEL BON SIGNOR ME FE FINIRI.
Po per puoi dissero i Veronesi, perchè doveano in latino pronunziar solamente la prima sillaba di potes. Per quaro intendi lo spazio quadrilungo del ponte: quara chiamasi fino in oggi nel contado il tratto di simil figura contenuto fra due filari di viti: quarto usavasi per quadrato, e quarro per quarto usaron già qualche volta anche i Toscani. Qual è scritto in vece di Ch’al, secondo l’antica pronunzia Latina. Per Meuziri forse intende Osiri. Caro per carestia, o per penuria dissero i buoni Antichi, e si trova in Dante e in Giovan Villani: più voci del nostro dialetto confrontano col Toscano antico.
Ma più degli altri è da osservare il ponte del Castel vecchio, per poter dire daver veduto forse forse il maggior arco del mondo; tanto più mirabile, quanto che a proporzione non molto s’alza, ma si distende ampiamente per lungo, con istupore dell’occhio che d’appresso il rimira. Il suo disegno si è usato per fregio nel seguente capo (V. Tav. V, n. 2). Fu edificato il ponte l’anno 1354, ma non è rimaso il nome dell’Architetto. Comunicando col Castello, e dovendo servire per tor dentro soccorsi da quella parte, o per avere, abitando in esso, un’uscita in pronto, vi si cammina a coperto tra i due muri merlati delle sponde. L'Adige in quel sito si dilata assai più che altrove, talchè non computando se non l’importar de i tre archi e delle due pile di mezo, il ponte vicn ad esser lungo piedi 348. Gli archi, principiando dalla parte di là, vanno crescendo in lunghezza e in altezza: la corda del primo è di piedi 70, e la prima pila di 185 l’arco secondo è di piedi 82, e la pila di 36. Ma la corda del terzo arco arriva alla lunghezza di piedi 142, della qual estensione non si ha notizia ch’altri si sia arrischiato in nissnna parte di costruire una volta. 11 famoso ponte di Rialto da un fianco all’altro tira piedi 86; il piò Veronese fa un palmo e mezo di Roma.
Tra le Chiese de’ mezani secoli oltre a S. Zenone ed al Duomo, della cui struttura si è già toccalo più volte, merita osservazione quella di Sant’Anastagia, che con buona simetria s’incominciò nel principio del 1300, e corrisponde alla magnificenza che per l’affluenza delle ricchezze regnava in Italia a que’ tempi. La facciata dovea esser istoriata in gran parte con quadri di basso rilevo, di che si vede il principio presso la porta. Meritano d’essere osservati anche i portoni della Bra, se ben alquanto posteriori per essere i grand’Archi non di sesto Gotico, ma eh ben condotto giro.
Ma dove abbiam noi lasciati i monumenti Scaligeri di S. Maria Antica, alla nobiltà de’ quali non si troveranno forse gli uguali di que’ tempi? In terra e meze sepolte son prima tre arche di marmo nostrale, quali non si sa per qual di questa Casa servissero, poichè non hanno iscrizione alcuna; ben hanno l’arme sopra i coperchi, e nel mezo di uno si vede la Scala con Aquila sopra, onde s’intenda il verso di Dante, ch’era Ghibellino:
- E ’n su la Scala porta il santo uccello.
Su gli angoli hanno quel rilevamento che si osserva in molte delle antiche, onde si può riconoscere quanto durasse l’imitazione dell’opere Romane: una di esse è grandissima, e tutta lavorata e figurata. Altra ve n’ha presso la Chiesa, posteriormente segnata del nome e dell’arma d’altra famiglia: questa è nobilmente collocata, e finge esser coperta da un padiglione formato da sei gran lastre di marmo, che si uniscon nella cima in un piccol quadro con palla sopra, e posano su i traversi di sotto per via di piccolissimo incastro molto artificiosamente. Abbiam dal Moscardo (lib. 9) come in questa fu collocato Mastino primo, che nel 1261 fu eletto Capitan Generale del popolo in vita; titolo corrispondente appunto a quel d’Imperadore in Roma, e col quale Mastino o coperse, o si fece strada al dominio: l’istesso Storico recita l’iscrizione, della quale ora non si trova vestigio alcuno.
Sopra la porta della Chiesa è l’arca di Can-Grande primo con la sua figura, che mostra giacer sopra un letto, e nella cima del tutto la sua statua armata a cavallo, con visiera calata, ma ricadendogli il cimiero dietro le spalle, coperto tutto di maglia il cavallo ancora: le colonne e i capitelli sono assai ragionevoli. Questi morì nel 1328, dopo aver dilatato il dominio non solamente in Brescia e in Padova, ma nel Friuli e in tutta la nostra Marca fino a Trieste. Il Mausoleo ch’è su l’angolo dalla parte della piazza tien l’ossa di Mastino, che mori nel 1350, e di cui dice l’iscrizione:
- Me dominum Verona suum, me Brixia vidit,
- Parmaque cum Lucca, cum Feltro Marchia tota1.
Quest’edifizio è sontuoso e ammirabile, perchè posa tutto su quattro colonne architravate in distanza di nove piedi. Sopra i traversi posa un grandissimo e grosso quadro di Verde antico, che forma il piano sopra del quale è collocata in mezo l’arca del defonto. Quattro altre colonne sostentano la volta, che fa coperto, e il fastigio co’ suoi ornamenti: nell’ultima cima si vede la statua equestre di Mastino, grande al naturale. Intorno è nobil recinto di pietra e di ferro, con quattro pilastri e statue negli angoli.
Cansignorio, che morì l’anno 1370, volle prima prepararsi il sepolcro, ed avanzare in ciò la magnificenza degli anteriori. Non può certamente esser più superbo, supposta l’angustia grande del sito. Ha sei faccio, ed è sostenuto da sei colonne, che reggon prima un piano di bel marmo antico, sopra il quale sta la grand’arca tutta istoriata. L’essersi serviti nell’uno e nell’altro di questi mausolei di due sì gran pezzi di preziosi marmi ed antichi, non tanto fu per magnificenza, mentre restan coperti e quasi nascosti, quanto per sicurezza, attesa la maggior durezza e consistenza de’ marmi orientali e oltramarini. I capitelli hanno la prima mano di belle foglie Corintie, ma si devia nel rimanente. Sei altre colonne reggon l’altissimo fastigio, nella cima del quale fa bella mostra lo Scaligero a cavallo. Il tutto è così operosamente ornato e con tanta spesa lavorato, che di maniera Gotica, come suol chiamarsi, difficilmente si troverà cosa più nobile e più bella. L’iscrizione è intorno nel fregio, ed è già stata publicata con l’altre da più d’uno de nostri, ma senza avere avvertilo ch’altra ve n’ha nel primo e più basso listello col nome dell’artefice. Hoc opus sculpsit, et fecit Boninus de Campigliono Mediolanensis Diocesis. Serra intorno un recinto di marmo rosso pur in sessangolo con sei pilastri, sopra quali i soliti tabernacoli quadrati con statue di Santi che fecero profession d’armi. È notabile anche il serraglio e cancello di ferro con l’armi della Scala, perchè lavorato con tal vaghezza di disegno a fiorarne, che poco di più potrebbesi aspettare dalla bizarria moderna.
Finalmente nel secolo del 1400, ripigliato con fervore il coltivamento delle Greche lettere e de’ buoni studj, anche l’architettura tornò a ristabilirsi, talchè esiliata quella maniera che suol dirsi Gotica, e abbandonate le sottili c improprie colonne, e i capitelli di capriccio, e le tante punte, e foglie, e tabernacolini, e risalti, con la considerazione dell’anticaglie Romane e degli avanzi di fabriche a’ buoni tempi erette, si rimisero in uso i veri ed antichi ordini, Toscano, Dorico, Jonico, Corintio e Romano, o vogliam dir Composto. Lo studio e ’l buon senso d’ingegnosi uomini e singolari venne poi continuando per modo, che nel 1500 si vide quest’arte arrivata di nuovo alla perfezione antica. Nè la città nostra fu inferiore a nissun’altra ne’ Soggetti che in tal grado ritornarono l’Architettura, anzi di essa pure usciron quelli che a tutte queste parti del sano e del perfetto operare dieder l’esempio. Lasciando Antonio Rivio, o Riccio, che Veronese, e statuaria, et architectura clarissimus, vien detto da Matteo Colaccio ne’ suoi opuscob stampati nel 1498 in Venezia, due lumi di quest’arte nacquero qui circa la metà del decimoquinto secolo, a’ quali non molti sono che possano agguagliarsi.
Farem principio da Giovan Maria Falconetto, che applicò prima e si esercitò nella pittura, ma invaghitosi poi dell’architettura, cominciò a far osservazione sopra le antichità che qui abbiamo, e a ritrarle con somma diligenza. Portatosi dipoi a Roma, vi si trattenne dodici anni misurando e disegnando quante anticaglie vi si trovano. Tornato in patria, mcntr’era agitata dalla guerra e tenuta da Tedeschi, poco potè operare in quest’arte, e più tosto fece qualche cosa di pittura, e così in Trento, dove poi fu costretto a ritirarsi. Ma finalmente passato a Padova, innamoraronsi di lui Pietro Bembo e Luigi Cornaro Senatore di grand’animo e di molto sapere, il quale non trovando chi più belli e meglio pensati disegni facesse, nè chi meglio scifrasse Vitruvio, se lo prese presso di lui, e vel tenne fin ch’ebbe vita. Per veder le antichità ch’ivi rimangono, si trasferì Falconetto a Pola. In Padova operò più che altrove. Due porte della città vi fece col ricetto per le guardie: venendo da Vicenza si vede scritto su la pilastrata interna (sinistra entrando) Io. Mar. Falconettus Veron. Architectus. D’altre sue opere, e de modelli di Palazzi e Chiese da lui fatti, e dell’aver lui insegnato a metter in opera gli stucchi, veggasi il Vasari, che dice ancora, com’ei fu uomo di gran coraggio e di genio allegro, e bel parlatore e arguto ne’ motti; e dice, com’ei fu il primo che mettesse in disegno Teatri ed Anfiteatri, e ne trovasse le piante; e come ripieno d'idee Romane desiderava occasione d’edifizj grandi, nè volentieri mettea mano a case private. È stato osservato, come alcune invenzioni e modi particolari, quali si attribuiscono a Michelangelo Bonarroti, furon prima posti in pratica dal Falconetto. L’ultima cosa ch’ei facesse (essendo morto dopo in età d’anni 76) fu la bellissima ed ornatissima loggia, come la chiama ben con ragione il Vasari, della casa Cornara in Padova, non lungi dalla Chiesa di Sant’Antonio, in fronte al cortile dove era poi per fabricarsi il palazzo. In questa fece vedere, come secondo i luoghi e sapea far sodo e schietto e vago ed ornato, e ben meriterebbe d’esser visitata da’ forastieri di buon gusto in quella città, restando per altro occultata e chiusa a chi non ne ha notizia: vi si vede scolpito intorno all’arco di mezo il nome dell’Architetto, e la patria e l’anno 1534. Quivi pure è un piccolo, ma bizarro edilizio, che fu fatto con suo disegno per musiche e per altri tali trattenimenti: il Serlio nel libro settimo, che fa volume da se, ne diede la pianta e ’l prospetto: lo chiama la Rotonda di Padova, e pare servisse in parte di modello al Palladio per ideare il bel palazzo di campagna detto la Rotonda de i Conti Capra2. Chiuderemo con ciò che scrive del Falconetto il Vasari nella sua vita: cioè ch’ei fu il primo che portasse il vero modo di fabricare, e la buona architettura in Verona, Venezia, e in tutte queste parti; non essendo stato innanzi lui chi sapesse pur fare una cornice o un capitello, nè chi intendesse misura o proporzione d’Ordine alcuno: il che però vuol intendersi con certa limitazione. Se fossero de’ tempi Scaligeri, come alcuni credono la porta di S. Maria dalla Scala, e la prossima del Convento, che ne porta l’arme, molto innanzi converrebbe dire si fosse qui principiato a ristorar l’arte.
Contemporaneo del Falconetto fu Fra Giocondo, anzi anterior d’alquanto, poichè fiorì in tempo di Lorenzo Medici, e nel 1513 era già vetulus, come lo chiama il Giunta nella Dedica del Vitruvio. Di questo letterato e Architetto, ch'ebbe molto lunga vita, si è già parlato trattando degli Scrittori. Ei fu il primo che por- tasse l'architettura di là da monti, chiamato in Francia da Lodovico XII; secondo fu il Serlio chiamatovi da Francesco I. Fece a Parigi il famoso ponte su la Senna, e vi fece anche il Ponte piccolo carichi di botteghe; opere, dice il Vasari, degne veramente del grand' animo di quel Re, e del maraviglioso ingegno di Fra Giocondo3. E noto il distico del Sannazaro, Jucundus geminum imposuit tibi Sequana pontem, ec. Giulio Scaligero nelle poesie:
Euclides, et Vitruvius, cui cedere possent;
Nam geminos posuit pinguis tibi, Sequana, pontes,
Implevitque alias immensis molibus urbes.
Molt' altre opere architettò in quel Regno, dove lungo tempo si trattenne. Ma trovatosi in Roma alla morte di Bramante, cui era appoggiata la fabrica di S. Pietro, fu fatto a lui succedere in quell'incarico insieme con Raffael d'Urbino e con Giuliano da S. Gallo; dove essendo convenuto rifondarla, perchè minacciava ruina, l'ingegno di Giocondo ebbe adito di manifestarsi. In Venezia avendo considerato, come le lagune erano in punto d'interrarsi fra poco, ne diede Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/140 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/141 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/142 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/143 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/144 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/145 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/146 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/147 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/148 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/149 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/150 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/151 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/152 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/153 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/154 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/155 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/156 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/157 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/158 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/159 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/160 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/161 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/162 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/163 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/164 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/165 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/166 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/167 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/168 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/169 Pagina:Maffei - Verona illustrata IV, 1826.djvu/170
- ↑ Tra Feltro e Feltro.
- ↑ Copiata in Francia nel Regio Palazzo di Marlì.
- ↑ I ponti che fece a Parigi sono il Pont Notre Dame ch'entra nell'Isola, e le petit Pont che n'esce. A questo fu messo il distico inetto attribuito al Sanazaro. — Il Pont Notre Dame fu principiato nel 1507. Il Ponte Nuovo fu cominciato nel 1578 sotto Enrico III, finito nel 1606. Regnier, let. 8: que le Pont neuf s'achève. Forse quei di Giocondo furono i primi di pietra.