Vae Victis/Parte terza/XXVI
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XXVI.
Indietreggiò vacillante dalla finestra e si guardò intorno, folle, smarrita, Florian! Era Florian! Che cosa fare? Il bambino — dove nascondere il bambino?
Il fischio sommesso riprese, ma più urgente con una nota di fretta e d’ansia. Sì — sì — bisognava far entrare Florian. Come mai era giunto?... Certo lo minacciavano mille pericoli laggiù sulla strada aperta...
Chérie abbassò gli occhi e si guardò. Guardò la sua vestaglia bianca ancora slacciata sul petto — tepido nido del pargolo lattante — e l’allacciò colle mani che tremavano. Poi scorse uno scialle nero di Luisa gettato sopra una seggiola; se ne avvolse in fretta le spalle e corse giù ad aprire.
Florian entrò rapido e chiuse subito la porta dietro a sè. Che strano aspetto aveva con quel cappotto di tela cerata gialla, e il cappellaccio calcato sulla testa! Chérie al primo sguardo lo vide cambiato; le parve più alto, e scuro e scarno in faccia.
Ora, chiusi nel vestibolo buio, ella non ne distingueva più i lineamenti.
«Chérie!» Egli le aveva afferrato la mano e gliela stringeva forte. «Sei tu, mia piccola Chérie!...» Aveva la voce rauca per l’emozione. «Dimmi — chi c’è qui con te?»
«Nessuno,» rispose lei.
«Nessuno? Ma come? Sei sola in casa?»
«Sì —» mormorò Chérie, ritraendo la sua mano. «Cioè —» E tacque.
«Ma tu — vivi qui sola? Ma gli altri dove sono? Luisa? Mirella?»
«Luisa è qui — è uscita...» balbettò Chérie.
Florian trasse un gran sospiro di sollievo. «Ah, Luisa è qui!... Conducimi di sopra. Guarda che ho poco tempo.» Si chinò per guardarla meglio. «Cos’hai? T’ho fatto paura?»
«Sì,» rispose Chérie.
«Ma sei livida! Sei spettrale... Chérie —» una nota d’ansia, di terrore nuovo gli vibrò nella voce. «Cos’hai? Sei ammalata?»
«Sì,» ripetè Chérie e la sua voce era un soffio.
Egli non le chiese altro; la cinse col braccio, sorreggendola nel salire le scale. La porta del salotto era aperta e Florian entrò rapido guardandosi intorno nella stanza famigliare.
«Ah, sia lodato Iddio,» disse piano, e traendo seco Chérie che pareva quasi svenuta, chiuse la porta.
Gettò su una seggiola il largo cappello lacero e il lungo cappotto, ed apparve vestito di un’uniforme di tela scura come Chérie ne aveva veduto indosso ai feriti tedeschi.
«Vieni qui, accanto alla finestra — ch’io ti veda.» E la trasse a sedere dove l’ultima luce di quel crepuscolo di maggio le illuminava il viso. «Dimmi, Chérie, dimmi! Che cosa hai avuto?... Che ne è di te?»
Gli occhi di lui non si staccavano da quel pallidissimo volto, dalle fragili forme ritrose, dal chiarore delle chiome raggianti. «Dammi tutte le notizie. Pur troppo non potrò restar qui molto —» le strinse forte la piccola mano fredda — «sarebbe pericoloso per voi e per me.... A quest’ora le pattuglie batteranno tutta la regione per ritrovarmi — e per ritrovare il cappotto del giardiniere!» soggiunse con un rapido sorriso che lo fece per un attimo rassomigliare al Florian d’una volta. «Sono fuggito sette giorni or sono dall’ospedale di Liegi —»
«Dall’ospedale? Sei ferito?»
«No, affatto. Sono stato semplicemente intontito da un’esplosione. I tedeschi m’hanno trovato, m’hanno creduto «boche» e «meschugge» — che in berlinese vuol dir pazzo — e da tre settimane mi tengono a letto col ghiaccio sulla testa....» E rise. «Forse nei primi giorni sarò stato davvero un po’ tocco nel cervello.... ti vedevo sempre là, ritta a’ piedi del mio letto.... Ma dimmi, dimmi di te! Come stai? Come sta Luisa?»
«Luisa sta bene.»
«E la piccola? È qui?»
«Mirella?» Vi fu una pausa. «Sì, Mirella è qui.»
Qualche cosa nella voce di lei lo colpì. «Che cosa c’è? È accaduto qualche cosa?»
Ella non rispose. Florian si sentì d’un tratto il respiro più corto. La guardò. Gli parve improvvisamente che questa timida creatura nella sua veste bianca, nel suo scialle nero, fosse aliena da lui, estranea a lui e avvolta nel mistero. «Che cosa c’è stato?» ripetè. «Rispondi. — Luisa dov’è?»
E si guardava intorno nella stanza amica, morso al cuore da un cattivo presentimento.
«È andata a prendere Mirella,» balbettò Chérie.
«A prendere Mirella? Dove? Perchè?»
Chérie alzò gli occhi — erano gli occhi di preda inseguita — e li fissò in volto a lui.
«Mirella... non è più quella di prima.»
Florian si sentì stretto alla gola come se una tigre l’avesse azzannato.
«Cos’ha?»
«Non riconosce nessuno...» balbettò Chérie, «e non parla più.»
«Non parla più?» Florian stentava a respirare. «Che cosa — che cosa vuoi dire?»
«È muta,» disse con un singulto Chérie.
«Muta!!...»
Ansante Chérie continuò: «Si è spaventata... in quella notte... quella notte della mia festa...»
Non potè dir altro. Tacque. Ed anche Florian improvvisamente non parlò più.
Il silenzio di lui sembrò cadere come una roccia sul cuore di Chérie. Il sudore freddo le perlò sulla fronte.
«Parla,» disse lui alfine con voce rauca.
«Sono venuti qui i nemici...»
«Lo so, lo so che attraversarono Bomal,» gridò Florian soffocato. «Ma non vennero in questa casa?»
Per tutta risposta Chérie lo guardò negli occhi.
E di nuovo cadde su loro il silenzio — il silenzio fatidico, sinistro.
Allora Florian si levò in piedi e si scostò un poco da lei.
«Vennero in questa casa,» ripetè come se parlasse in sogno. Aveva le labbra secche e la gola arida; udiva la sua propria voce, e gli sembrava remota, come se non appartenesse a lui. «Che cosa — che cosa accadde a Mirella?... Le fecero del male?»
«No. Aveva paura.... strillava.... allora l’hanno presa... e l’hanno legata là, a quella ringhiera —» additò colla mano tremante la balaustra di ferro battuto a fogliami e fiori.
Ed anco una volta il terribile silenzio di Florian le cadde sul cuore come un masso pesante, soffocandola, togliendole il respiro e la vita.
Dopo molto tempo Florian si mosse. Indietreggiò, scostandosi ancora più da lei; le sue labbra si movevano senza ch’egli potesse pronunciare le parole.
«E a te....» la voce gli uscì rauca, a scatti, di tra i denti chiusi, «a te?... Cos’hanno fatto?»
Silenzio.
Egli attese, attese a lungo, poi ripetè la domanda.
«A te — cos’hanno fatto?»
D’improvviso Chérie cadde in ginocchio e si nascose il volto tra le mani.
Con un ruggito di belva egli si slanciò su lei, le afferrò i polsi, le strappò le mani dal viso. «No! Non è vero!» urlò. «Non è vero! Dimmi che non è vero!»
E frattanto sentiva con odio nella sua stretta quei polsi delicati e pieghevoli, vedeva con furore quella frale creatura accasciata davanti a lui in tutta la sua debolezza, in tutta la sua femminea acquiescente fragilità. Avrebbe voluto sentirla d’acciaio e d’adamante, per poterla spezzare e frantumare — per poterla stritolare e distruggere.
Prona a terra ai suoi piedi ella singhiozzava e piangeva. Florian per non colpirla, per non ucciderla serrava i pugni così stretti che le unghie gli si conficcavano nelle palme.
Guardava quel capo chino, i capelli vaporosi, la nuca bianca, le fragili spalle sussultanti.... Ah, Dio! Il nemico l’aveva avuta! Il nemico l’aveva tenuta e forzata e posseduta!
Questa creatura che gli era parsa quasi troppo sacra per il suo amore, questa eterea vergine liliale di cui egli non aveva mai osato baciare la fronte, i capelli, le labbra — aveva saziata la bestiale voglia dell’invasore!... Immondi soldati ubriachi avevano soddisfatto su di lei le loro lubriche brame — ed eccola lì, spezzata, contaminata, perduta!...
Con un grido di creatura ferita egli levò al cielo i pugni serrati; il sangue gli scorreva sui polsi dalle palme lacerate, e le lagrime — le lagrime roventi che corrodono l’anima d’un uomo — gli scorrevano sul volto scarno e straziato.
Eccola lì, la creatura rovinata e infranta! Eccola lì, prona davanti a lui; simbolo della sua patria — della sua patria rovinata e devastata.
Perdute, perdute entrambe!... Spezzate, contaminate, impure.
Ah, invano egli verserebbe per loro tutto il suo sangue e tutte le sue lagrime. Nulla, nulla più varrebbe a salvarle, nulla più varrebbe a rialzarle nella loro primiera gloria e purità!
Perduta l’anima della donna, straziata l’anima della patria!...
Iddio! dov’è la Tua giustizia? — Dov’è la Tua pietà?
Scese su loro il grigio crepuscolo e velò d’ombra il viso della donna che doveva terminare la tragica confessione.
L’uomo non parlò più. Accasciato su di una seggiola, colla fronte nelle mani, gli pareva di essere morto — morto in un universo morto.
Tutte le fiamme della sua ira, tutti i furori della sua disperazione erano spenti. La sua anima era ridotta in cenere. Non rimaneva più nulla. Nulla per cui si dovesse vivere, combattere o pregare.
La donna gli stava ai piedi, singhiozzante. Ma egli non udiva ciò ch’ella diceva. Una parola soltanto — una parola continuamente ripetuta gli martellava il cervello come batte il maglio sul ferro rovente. «Il bambino... il bambino...» Era la parola che ricorreva costantemente sulle labbra di Chérie: «il bambino.»
«Se non fosse per il bambino, vedi — vorrei morire,» piangeva essa e s’abbatteva colla fronte a terra. «Ma come faccio a lasciare il bambino? Un bambino così piccolo, così abbandonato! Nessuno lo guarda, nessuno gli dice mai una buona parola — mai! Anche Luisa diventa crudele, diventa come una furia quando vede il bambino. Mio Dio! Mio Dio! Come passeremo nella vita lui ed io, tra l’odio, il disprezzo, il dileggio di tutti? Di me importa poco, ma che ne sarà del bambino?...»
Alzò a lui il viso stravolto e lagrimoso. «Ah, forse aveva ragione Luisa! Avrei dovuto fare come lei — strapparmelo dal seno prima che nascesse....»
Un brivido profondo scosse Florian.
«Ma non potevo, no, non potevo! Vi era qualche cosa in me di più forte della mia vergogna, di più forte del mio dolore!... Era come se una voce — la voce stessa di Dio — mi gridasse: «La maternità è sacra. Tu non ucciderai!»
Florian abbassò lo sguardo su quella figura prona. Era questa la piccola Chérie, la sua fidanzata? Questa la Chérie dal sorriso luminoso, dalle guance a fossette, la creatura eterea tra fiore, farfalla e bimba ch’egli aveva conosciuta e amata? Un gemito gli uscì dalle labbra. Ma ella non l’udì, non se ne curò. Il dolore dell’uomo non giungeva al cuore di lei fatto spietato dalla imperiosa, inesorabile passione materna.
«Ah! lo vorrebbero morto — sì! Io lo so che lo vorrebbero morto. E se potessimo fuggir via dalla vita, lui ed io insieme, ne sarei contenta. Ma come — come farlo morire? Quando apre gli occhi e mi guarda, quando colle piccole mani mi tocca la faccia, come posso io pensare a fargli del male? Posso io forse colle mie mani stringere quella tenera gola e soffocare l’alito dolce della sua bocca?...»
Alzava a Florian gli occhi inondati di lagrime, ma non vedeva Florian. Non vedeva che il suo strazio materno, non vedeva che la sua creatura, sangue del suo sangue.
Disperata si torceva le mani. «E perchè, perchè, non deve vivere lui? Vivere ed essere felice come tutti gli altri bambini? Che cosa ha fatto, povero innocente, per essere odiato, disprezzato, maledetto?»
«Basta!» gridò Florian, «basta di lui —».
Ma ella non l’ascoltava, non l’udiva. Neppure udiva la sfrontata fanfara tedesca che passava sotto le finestre, lanciando al cielo vespertino l’insolenza trionfante della «Wacht am Rhein.»
No, Chérie non udiva nulla, non si curava di nulla fuorchè della creatura sua — sua, e del nemico!
E Florian — soldato — si sentì ribollire il sangue.
«Ed è questo» — gridò sdegnato — «questo che tu trovi a dirmi, quando ritorno a te scampato dagli artigli della morte? Questo, questo tutto il tuo pensiero mentre la nostra patria sanguina, straziata dagli immondi bruti che vi hanno violate entrambe? Ah, maledizione su loro — maledizione eterna su loro e sulla creatura —»
«No!» con uno strillo ell’era balzata in piedi e gli copriva la bocca colle mani. «No! no! Non maledirlo!... Non maledirlo anche tu quel bambino — che nessuno mai ha benedetto!»
«In nome del Belgio,» tuonò forsennato Florian, «in nome delle donne del Belgio violentate e straziate, in nome dei loro figli torturati, dei loro uomini trucidati — io maledico la creatura a cui tu hai dato la vita. In nome dei nostri cuori lacerati, in nome delle nostre città incendiate, dei nostri focolari distrutti, dei nostri altari abbattuti e profanati — lo maledico, lo maledico! Nei nomi sacrosanti di Louvain, di Lierre, di Mortsel, di Waehlen, di Herselt —»
I nomi sacri al martirio e alle fiamme gli sgorgavano dalle labbra accrescendo la furia del suo cuore. La donna gemeva, coprendosi gli orecchi per non udire, per non udire quei nomi tragici e famigliari — il rosario di fuoco e di strazio del Belgio.
Stringendosi il capo fra le mani, ella piangeva: «Che Iddio non ti ascolti! Che Iddio non ti ascolti!»
Ma egli alzava la voce fremente nell’atroce litania: «E Malines, e Fleron, e Notre Dame, e Rosbeck, e Muysen —»
D’improvviso ristette. Un suono — un suono gli aveva colpito l’orecchio. Che cos’era?
Era un breve grido — il breve, fievole grido d’un neonato.
L’uomo ristette immobile, come impietrito. Gli occhi iniettati di sangue parevano uscirgli dall’orbita tanto si fissavano ardenti sulla porta drappeggiata di rosso, donde era venuta quella voce.
Chérie, cieca di terrore, gli si gettò ai piedi gemendo, abbracciandogli i ginocchi. «Pietà! Abbi pietà! Uccidimi — ma non far male a lui!»
E sempre Florian restava immobile, come impietrito, cogli occhi fissi sulla porta donde era uscito quel suono. Le disperate parole di lei, il suo pianto di terrore, non giungevano al suo orecchio. Egli non udiva che un suono, non udiva che quel grido querulo — il pianto del bambino. Vincendo i lamenti della donna, vincendo il frastuono dell’inno nemico che ancora frangeva l’aria, vincendo il tuono delle armi e il fragore della guerra, ecco saliva dalla terra questo acuto grido di vita — il pianto dell’umanità.
E questo pianto gli entrò nel cuore come una spada. Gli pareva che in esso fosse tutta la desolazione e il dolore del mondo. Pareva dire tutta la tristezza, tutta l’inutilità irrimediabile d’ogni cosa.
Sdegno, ira e furore gli caddero dall’animo come cose morte. E il bisogno di vendetta e la bramosia d’uccidere — tutto si spense in lui, lasciandogli il cuore silenzioso e vuoto.
La disperata donna che si aggrappava a lui vide i fieri occhi velarsi, vide la feroce bocca tremare. Nel lungo silenzio che seguì ella comprese che più nulla aveva da temere. E più nulla da sperare.
L’uomo si scosse alfine. «Povera Chérie!» disse. «Povera, povera Chérie!»
La sollevò da terra; prese tra le due mani quel viso pallido e disfatto; e lungamente la guardò negli occhi: «Povera Chérie! Che ne sarà di te?»
Chérie non rispose. Fissava su lui quegli occhi di pianto, senza pensiero, senza comprensione, senza speranza.
«Dimmi addio, Chérie, dimmi addio. E che i nostri Santi ti proteggano.»
«Ah, dove vai? Dove vai?» singhiozzò lei. «Perchè mi lasci?... Mio Dio!... Che cosa vuoi fare?»
«Molto c’è da fare per me.» la voce di Florian era grave e ferma. «Molto c’è da fare.» E volse lo sguardo verso la finestra aperta, donde giungeva ancora da lungi lo squillo della fanfara tedesca.
Allora ella comprese che davanti a lei non stava più colui ch’ella aveva conosciuto: Florian, il compagno della sua giovinezza, l’amico, l’innamorato, era sparito. Qui non vi era che il soldato — remoto da lei, estraneo a lei — il soldato, solo, faccia a faccia col suo grande dovere.
Con uno schianto ella sentì ch’egli le sfuggiva, che lo perdeva per sempre; e la donna rinacque in lei, la donna creatura d’amore, creatura di spasimo e di passione.
«Ah, non lasciarmi, non lasciarmi, Florian, amor mio! Mio diletto, non lasciarmi! Che cosa farò al mondo senza di te? Se m’abbandoni che cosa più mi resta?»
Quasi a risponderle, il debole grido della creatura si levò di nuovo.
L’uomo non pronunciò parola. Grave, solenne, alzò la mano e additò quella porta.
Chérie chinò il capo e si nascose il volto nelle mani.
Giù nella via ripassava la fanfara.
«Deutschland, Deutschland über Alles
«Über Alles in der Welt....»
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Chérie era sola.
Il suo bambino piangeva ancora....
Allora, mansueta, ella si levò e andò a lui.
Ed umilmente riprese il suo posto — il posto della donna — accanto alla culla.