Vae Victis/Parte terza/XXV
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XXV.
Era calato il crepuscolo, e la nebbia sottile saliva strisciante su dai due fiumi, allorchè Luisa col capo avvolto in una sciarpa nera, uscì di casa per andare alla Maisonnette des Lilas. Si guardò intorno. Le strade erano deserte e quasi buie. Per arrivare alla casa di Madame Doré senza passare dal piazzale della chiesa dove a quest’ora si riunivano a crocchi i soldati tedeschi, Luisa decise di passare per la straduccia scura e stretta detta Ruelle de la Bise. Già stava per svoltarvi allorchè scorse in fondo al vicolo una figura curva e sbilenca; era un contadino fiammingo, che s’avvicinava lento e zoppicante. Borbottava tra sè e sè, ed aveva un aspetto così poco rassicurante sotto il cappellaccio di feltro calato sugli occhi, che per evitarlo Luisa preferì tornare indietro e attraversare la piazza.
I soldati che vi stavano raggruppati chiacchierando e fumando non badarono a lei ed ella s’affrettò, quasi correndo, verso la casa dell’amica.
Nel suo cuore era nata una nuova ineffabile speranza. Ella andava a prendere Mirella; l’avrebbe ricondotta a casa. Per la prima volta da quella terribile alba in poi, la fanciulletta si sarebbe ritrovata nell’ambiente noto alla sua infanzia, e — Luisa lo pensò con un sussulto — e nella stanza stessa in cui si era compiuto il suo martirio.
Ora, ritrovandosi d’improvviso in quell’ambiente in cui il trauma psichico le aveva tolto la favella, non poteva darsi — Luisa quasi non osava formulare nel suo pensiero la folle speranza — non poteva darsi che Mirella sarebbe d’un tratto guarita? Casi simili se ne erano pur dati. Luisa ricordava d’aver sentito dire — o forse l’aveva letto? — di persone dementi che ritrovavano subitamente la ragione, di persone mute che ritrovavano la favella sotto la scossa morale di qualche grande emozione.
Col cuore in tumulto ella affrettò il passo per le silenziose vie.
Frattanto, nella Ruelle de la Bise, l’uomo che Luisa aveva scorto proseguiva zoppicante per la sua strada. Uscendo dal vicolo egli volse a destra e si trovò di fronte alla casa del dottor Brandès.
Si fermò di botto e guardò su. Le finestre erano aperte, tutte aperte alla fresca aria vespertina. A quella vista un fiero palpito di gioia gli scosse il cuore. La casa era dunque abitata. Da chi? Da chi? Erano tornate le esule? Erano tornate sane e salve a Bomal? Claudio aveva pur scritto che erano partite dall’Inghilterra per tornarsene in patria.... Erano dunque qui — qui a due passi da lui?
Un brivido di gioia scosse Florian Audet.
Era stata questa speranza che gli aveva ispirato il coraggio di tentare un’impresa quasi impossibile — la fuga dall’ospedale di Liegi traverso il paese invaso. Era il pensiero di rivedere Chérie che lo aveva sorretto in quel viaggio temerario traverso tante miglia di terreno battuto dalle pattuglie tedesche. Quando per la prima volta in quell’ospedale, dove tutti parevano ancora incerti se trattarlo da ammalato o da prigioniero, gli era balenata l’idea della fuga, egli l’aveva scacciata da sè, dicendosi che era una follia del suo cervello indebolito. Ma sempre la visione di Chérie pareva invocarlo; ella gli era al fianco, fantasma incalzante, quando nel cuor della notte colle mani lacere e sanguinanti egli lavorò ad allentare e sciogliere le maglie del reticolato che sorgeva intorno all’infermeria; la bianca sua mano lo aveva guidato per monti e valli, la sua voce soave lo aveva confortato nelle lunghe giornate senza cibo, nelle lunghe notti di veglia; lo aveva incalzato a celarsi nei boschi, ad accovacciarsi nei fossati, a traversare a nuoto i fiumi, a scavalcare muraglie e roccie, a vincere perigli d’ogni sorta, ad affrontare mille morti per arrivare a lei.
Ed ora ella forse era là! Là in quella casa davanti a lui — a portata della sua voce, in vista de’ suoi occhi! Là, dietro quelle gaie finestre aperte!...
Florian ricordò come in quella sera fatale, non anco un anno fa — ah, come la Morte e la Devastazione erano passate sul mondo in quel frattempo! — egli era venuto a galoppo per queste vie tranquille ed aveva veduto, come ora, le finestre spalancate alla blanda aria serale. Come allora, gli parve di udire un coro di chiare voci che cantavano:
«Sur le pont
«D’Avignon
«On y danse
«On y danse....»
Dette una rapida occhiata in giro, poi alzando il capo, fischiò sommesso il ben noto motivo.
«Sur le pont
«D’Avignon
«On y danse
«Tout en rond....»
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Chérie era rimasta sola col suo bambino che le dormiva fra le braccia.
Ella aveva sentito uscire Luisa; l’aveva udita chiudere la porta esterna; per un istante anche il suono dei suoi passi che s’allontanavano leggeri e frettolosi le era giunto all’orecchio, tanto era silenziosa e deserta la via.
Ed ora Chérie era sola; sola coi suoi pensieri.
Ecco. Luisa andava a prendere Mirella. Tra poco sarebbero ritornate insieme. Bisognava venire ad una decisione. Che cosa doveva fare Chérie? Come poteva incontrarsi con Mirella? Andarle incontro col bambino tra le braccia? Ah, mai, mai!
No, bisognava nascondersi, nascondersi col bambino perchè Mirella non lo vedesse. Certo, come diceva Luisa, la povera Mirella non avrebbe detto nulla — nulla, cioè, che orecchio umano potesse percepire. Ma l’anima di Mirella che cosa avrebbe detto? Chi poteva sapere ciò che Mirella vedeva o non vedeva? Come essere certi che non fosse capace di vedere, di ricordare, di odiare, forse, come Luisa odiava? Ah, Chérie sentì che tale odio — l’odio silenzioso di quella piccola anima di mistero — sarebbe anche più terribile, più impossibile a sopportare che non l’esecrazione palese di Luisa.
Già, era possibile anche questo strazio. Mirella, la piccola Mirella, vedendo quegli occhi strani, chiarissimi, spalancati nel viso del bambino — forse ricorderebbe.... Ricorderebbe l’uomo che l’aveva martirizzata, che l’aveva torturata e legata alla ringhiera, legata col piccolo viso folle rivolto all’uscio.... già, proprio a quest’uscio dalla tenda rossa....
Sì, potrebbe essere così. Il ricordo e l’orrore tornerebbero alla mente smarrita di Mirella ogni volta che scorgeva quei grandi occhi chiari del bambino.... Chérie abbassò lo sguardo per vederli; in questo momento erano dolcemente socchiusi, mentre la testolina s’annidava assonnata sul petto materno.
Chérie si chinò sopra la sua creatura, baciò i biondi capelli e gli occhi assonnati e la piccola bocca dolce. E che importava a lei se tutti l’odiavano? Essa lo amava, lo amava coll’amore di tutte le mamme, lo amava d’un amore fatto più grande dalla sofferenza, dalla disperazione, dalla vergogna.
«Piccolo mio,» susurrò, «perchè non ci hanno lasciati morire tutt’e due in quel mattino di maggio, quando tu non eri ancora entrato nella vita ed io ero già così vicina alla morte? Perchè non ci hanno lasciati sparire, dileguare nell’eterna pace, te ed io insieme, lontani da queste tristezze e da queste pene?»
Ma il bambino dormiva sorridendo agli angeli.
E poichè era tardi, ed era l’ora di metterlo nella culla, ella si levò e con passo leggiero e colla guancia appoggiata al piccolo capo biondo, se lo portò nella stanza vicina, allontanando col gomito, nel passare, la tenda rossa che pendeva sull’uscio.
«Ninna-nanna,» mormorò mettendolo nella culla.
E mentre così faceva si trovò d’improvviso a rammentare, senza una ragione, la sera del suo compleanno; le veniva in mente — chissà perchè? — la danza con Jeannette, Cricri, Cecilia....
Questo ricordo correva come un filo luminoso e sconnesso tra mezzo ai suoi foschi pensieri. Come mai le ritornava alla mente in quest’ora? Perchè mai riviveva così d’un tratto quella breve ora felice che aveva preceduto la catastrofe immane, lo scoppio della procella che l’aveva travolta e ruinata?
Le fanciullesche parole di quella vecchia canzonetta, ecco, le tornavano alla mente.
«Sur le pont
«D’Avignon
«On y danse
«Tout en rond.»
Chérie sostò; un brivido la percorse. C’era una ragione per quel ricordo. Qualcuno nella strada fischiettava quella melodia.
Gli occhi le si riempirono di lagrime per i ricordi che quel puerile motivo le rievocava in cuore.
«Sur le pont
«D’Avignon
«On y danse
«On y danse
«Sur le pont
«D’Avignon
«On y danse
«Tout en rond.»
Piano e pur chiara la melodia persisteva. Non cessava. Non si allontanava. Persisteva con sommessa insistenza.
Chérie accomodò la coperta e i guanciali della culla, si chinò a baciare il piccino; poi andò alla finestra. Dovette rizzarsi in punta de’ piedi per guardar fuori, poichè quella stanza aveva una finestrina ogivale, alta e tonda come quella della cabina d’una nave.
Appena ella guardò fuori il fischiare cessò. Laggiù nella via una figura si mosse staccandosi dall’ombra del muro.
Il cuore di Chérie dette un balzo — poi si fermò.
Florian!