Vae Victis/Parte terza/XXVII
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XXVII.
Gli squilli di tromba che ingiungevano agli abitanti di Bomal di rientrare nelle loro case echeggiavano già, mentre ancora Luisa si affrettava traverso le vie del paese, ormai deserte e buie. Teneva stretta nella sua la fredda manina di Mirella, e le parlava a voce bassa, concitata, come se la fanciulletta potesse comprenderla.
«Vedrai, vedrai, Mirella, ora quando entri in casa tua, ti ricorderai di tutto. Appena avrai varcato quella soglia, ecco, vedrò sorgere nei tuoi occhi il ricordo, come un’aurora improvvisa. Allora li volgerai a me, trasognata forse, come chi si sveglia da un lungo sonno, come chi ritorna da un lungo viaggio. E schiuderai le labbra alla parola.»
«Ah! Quale sarà la tua prima parola, Mirella? Forse quella più dolce di tutte, quella parola che tu sola mi puoi dire?... E colla parola ritroverai le altre due soavi cose perdute: il sorriso e il pianto. Come reggerà il mio cuore, Mirella, quando ti vedrò sorridermi colle lagrime negli occhi?....»
«La tua piccola anima, Mirella, ch’era volata via, volata via come una rondinella spaventata dalle infamie degli uomini, stasera tornerà quaggiù. Mirella, Mirella, io so, io sento che questa sera riudrò la tua voce.»
E Luisa affrettava il passo traendo con sè la bimba silenziosa.
(In quell’ora, sopra i lontani monti delle Ardenne, sorse la grande fulgida luna di maggio).
Arrivando davanti alla casa Luisa si accorse con sorpresa che il cancello del cortile era aperto. Chi mai poteva essere entrato o uscito durante la sua assenza? Alzò gli occhi alle finestre: erano aperte, ma buie. Il senso di timore, quasi di panico che non le era mai lontano dal cuore dacchè era ritornata nel Belgio, la riafferrò come una mano di ghiaccio.
Era forse accaduto qualche cosa? Perchè Chérie non aveva acceso i lumi?
E chi mai aveva lasciato aperto il cancello?
Ma subito il pensiero di Mirella, la folle speranza della sua guarigione — divenuta improvvisamente quasi una delirante certezza — le rifiammeggiò nel cuore, ed ogni altra cosa fu scordata. Era sola nel mondo, sola con Mirella.....
Tenendo gli occhi fissi su quel piccolo viso immoto, essa guidò i passi della bambina oltre il cancello, e dentro al cortile, e traverso l’erbosa spianata percorsa le mille volte dai piedini saltellanti della bimba ne’ suoi giocondi anni infantili.
Ma sul calmo volto di Mirella non un fremito passò; non una favilla si accese negli occhi sognanti; e con un singulto Luisa strinse più forte quella piccola mano inerte traendola rapidamente verso il portone di casa.
Anche questo era socchiuso come se qualcuno l’avesse lasciato così, nella fretta, immemore degli ordini severi che volevano dopo il tramonto tutte le porte chiuse.
Per un istante Luisa pensò di chiamare Chérie, e interrogarla. Ma subito il bisogno di sentirsi sola con Mirella, sola con quella piccola anima al momento del suo risveglio, la trattenne. Entrò con Mirella nel vestibolo, chiuse la porta, e con gesto rapido accese i lumi.
«Mirella!... Mirella!...» mormorò ansiosa. «Guarda, cara... non ricordi? Non ricordi?»
Le quiete pupille della bimba vagarono dagli arazzi appesi alla pareti, alla panoplia d’armi incrociate sopra l’arco del vestibolo; dall’antico oriolo a pendolo, ai paesaggi invernali del Van der Welde nelle loro cornici nere. Ma non un raggio di rimembranza illuminò il suo viso immobile, puro e bello come un fiore chiuso.
Col cuore in tumulto Luisa la cinse col braccio e ne guidò i passi leggeri e incerti lungo il corridoio e su per le scale.
L’uscio del salotto era aperto. Luisa con mossa rapida illuminò la stanza.
Mirella, sulla soglia, trasalì; e quel lieve sussulto mandò un fremito immenso nel cuore di Luisa. Sostò, senza respiro, ad osservarla.
Certo, certo, la bimba doveva riconoscere questa stanza: là, a destra, il grande camino fiammingo, col vecchio sedile di quercia — qui il breve tratto di scala colla balaustrata di ferro battuto, che conduce alle camere superiori — e là, di faccia, la porta drappeggiata di rosso....
Portata improvvisamente davanti alla scena stessa del suo martirio, ecco — il velo dell’oblio le sarebbe caduto dall’anima. Luisa lo sentiva, Luisa lo sapeva. E attendeva trepida il sussulto, il grido col quale sua figlia si sarebbe rivolta a lei, cadendole tra le braccia.
Nulla. Non avvenne nulla.
Per un fuggevole attimo un fluttuar vago, un bagliore pallido come di paura aveva tremato su quel piccolo volto calmo. Sì, la fanciulla aveva trasalito sul limitare della stanza — si era fermata d’improvviso cogli occhi fissi sulla tenda che drappeggiava in lunghe pieghe rosse la porta della camera di Chérie. Ma subito quel fuggitivo raggio d’emozione era svanito, come un piccolo lume che il vento spegne.
Poi — nulla più. Colle mani inerti, le braccia pendenti lungo il corpo, i ceruli occhi senza sguardo, ella rimase immota nel consueto atteggiamento d’abbandono — bianca, eterea, irreale, una creatura di serenità e di sogno.
E più che mai pareva un serafino stanco, che avesse smarrita la via di ritorno al cielo.
Nell’anima materna la torcia fiammeggiante della speranza cadde e si spense.
E il mondo per lei fu desolato e nero.