La battaglia di Palermo Da Milazzo a Messina

18 giugno.

Partire non condotti dal Dittatore! Eppure egli ha sulle braccia la rivoluzione, la guerra, tutto, anche gli arruffapopoli, e deve star qui. Con lui lavora Francesco Crispi, un ometto che quando lo veggo mi fa pensare a Pier delle Vigne potente. Ma lontani da Garibaldi saremo ancora con lui. «Andate di buon animo, ci disse, andate figliuoli, che vi ho dato Türr. Se avrò bisogno

di voi, egli vi condurrà volando da me». Eppoi, messosi a parlare genovese con alcuni di noi liguri, parve pigliasse un piacere fanciullesco in quel dialetto che parlano Bixio e i Carabinieri.



21 giugno.

Medici è arrivato con un reggimento fatto e vestito.

Entrò da Porta Nuova sotto una pioggia di fiori. Quaranta ufficiali, coll’uniforme dell’esercito piemontese, formavano la vanguardia.

La mia brigata è partita per l’interno dell’isola, condotta da Türr. Noi della spedizione dispersi nell’onda dei sopravvenienti, porteremo con noi le memorie dei venticinque giorni vissuti come nella solitudine, faticando, combattendo e credendo. E tireremo innanzi visitando l’isola, facendo gente e pellegrinando, finchè ci arresti il nemico e si torni al sangue, o si finisca fondendoci tutti nelle sorti e nell’onore d’Italia.

Da Palermo a Missilmeri, 22 giugno.

Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.

Ho riveduto Porta Sant’Antonino, il Convento e quella muraglia che all’alba del 27 maggio, quando venimmo, balenava e tuonava come una nuvola tempestosa. I due grandi pioppi, a piè dei quali quel mattino vidi il primo napoletano morto, tremolavano sino all’ultima foglia con un sussurro allegro quasi consapevole. Passandovi sotto, pensai raccapricciando a quel morto, a quella povera montanara della Calabria o dell’Abruzzo che si farà sulla soglia della capanna, con una paura confusa della guerra che c’è pel mondo, dove forse crede ancora di avere il suo figliuolo soldato. E pensai

anche ai prìncipi di Casa Borbone, che sino ad ora non se n’è visto uno a cavar la spada.

Mi volgo indietro. Palermo è laggiù, laggiù come la vedevamo da Gibilrossa, dal Parco, dal Passo di Renna, ma ora libera nella sua gloria fra le sue rovine, di giorno e di notte tutta un festino. Partendo, ho inteso che già sono arrivati certi armeggioni a guastare. Ve ne erano forse fino dai primi giorni della capitolazione. Quella sera che ci raccolsero in fretta e in furia e ci tennero sotto l’armi delle ore, in via Maqueda, che cosa era stato? Mi disse Rovighi che si parlava d’una alzata di La Masa, per togliere a Garibaldi la Dittatura e assumerla lui gridato dal popolo. Era una calunnia: ma il fine?



Missilmeri, 22 giugno.

Questo popolo che ci ha fatta la luminara la notte del 25 maggio, quando eravamo pochi

e con poche speranze, adesso non ci riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non si può indovinarlo. Parlano, sorridono, sono gai; discorrono con noi, ma a gesti impercettibili se la intendono tra loro. Che abbiano dentro parecchie anime?

* * *

Ora si va pigliando davvero un bel fare da soldati. Il gruppo d’ufficiali che ho visto in piazza sarebbero l’onore del primo esercito del mondo. Tutti nel bello dai venti ai trent’anni, persone salde, faccie che vi si legge il coraggio semplice e franco; medici, ingegneri, avvocati, artisti. Ma se fossero tutti come Daniele Piccinini! Che addio deve essere stato quando si partì dal padre suo! Immagino il vecchio austero sulla porta della sua Pradalunga, intento a guardare il figlio che gli ha dato le spalle, e se ne viene giù verso Bergamo, con passo da Clefta. Non l’hanno guasto nè l’ozio nè i vizii costui: la storia della sua giovinezza l’ha in fronte; forse più che caccie e corse su in alpe non ebbe altri spassi. A Calatafimi fu visto coprire il Generale mettendoglisi dinanzi, perchè, come indossava camicia rossa, era fatto segno alle schioppettate. E in uno dei momenti che la battaglia parea volgere a male, egli tenne

alto l’animo dei suoi vicini, gridando parole potenti come d’arcangelo.



Missilmeri, 22 giugno.

Il generale Türr gli si è riaperta la ferita, e ha dato sangue dalla bocca. Da quando entrammo in Palermo, quest’uomo ha fatto tanto che si e ridotto un’ombra. La brigata è afflitta, perchè si teme che egli debba lasciarci. Lo vidi un istante, smunto, pesto negli occhi, le labbra pallide, il petto che pare schiacciato. Ma che sia davvero quel sottotenente degli Ungheresi passati nel mio villaggio l’anno quarantanove, dopo la battaglia di Novara? Li ricordo come li vedessi ora. Erano forse cento bei giovani, che portavano una gran bandiera tricolore; le loro persone alte s’avanzavano mezzo nascoste nel polverìo della strada al sole di marzo, e quando imboccarono il ponte gridarono: Elien Elien! alla gente corsa ad incontrarli.

Quel sottotenente in mezzo a quei soldati mi pareva tanto allegro, e tuttavia mi si stringeva il cuore sentendo dir da mio padre: Sono Ungheresi, gente che l’Austria fa patire!



Villafrati, 24 giugno.

Passavano baldi su certi stalloni neri, carboni accesi gli occhi, le criniere che davano sui petti. Tenevano alte le teste guardandoci appena, avevano gli schioppi a tracolla, pistole e pugnali a cintola, nastri essi ai cappelli e all’arnese delle cavalcature. Il capo che camminava innanzi non mi tornava nuovo. I Villafratesi che discorrevano con noi li guardavano incerti tra il salutarli e non badarli; ma mi accorsi che qualcuno ammiccò, qualche altro scambiò con essi quei certi cenni, raggrinzamenti della fronte, d’una guancia, del mento, diavolerie, che a costoro bastano per un discorso.

— Chi sono quei sette? chiesi ad un signore.

— Patriotti, signorino, non avete visto? Hanno i tre colori.

Un altro lo guardò bieco: un lampo.

Intanto quei sette giunti in capo al borgo misero i cavalli a trotto serrato.

Ma dal quartiere del Generale uscì fuori un tenente spronando dietro di loro, e presto lo vedemmo tornare con quei sette disinvolti, beffardi, accigliati. Il tenente gli aveva presi colla pistola alle tempie del capoccia, pronto se non avessero obbedito...

Ci affollammo in quella casa dov’era già un gran brusio, e potemmo udire la voce del generale Türr corrucciato pronunciare il nome di Santo Mele.

— Santo Mele? dissi io, ma costui è quel birbante che avevamo prigioniero al Passo di Renna, e che gli riuscì a fuggire. Berrebbe il sangue, ladro, assassino!

A quest’antifona il signore che aveva detto

bene di quei sette sparì senza neanche dirmi: Bacio la mano.

Udimmo bisbigliare: Consiglio di guerra subitaneo; e comparve il maggiore Spangaro, un uomo d’età seria, già brizzolato capelli e barba, ufficiale nella difesa di Venezia. Presiederà il Consiglio.



Villafrati, 26 giugno.

Ho visto partire in gran fretta il battaglione Bassini. A Prizzi, che deve essere un villaggio poco lontano, vi è gente che si è messa a far sangue e roba, come se non vi fosse più nessuno a comandare. Il padre Carmelo sapeva quel che diceva quando ci parlammo al Parco. Quaggiù vi sono beni grandi, ma goduti da pochi e male. Pane, pane! Non ho mai sentito mendicarlo con un linguaggio come questo della poveraglia di qui.

Bassini si è messo in marcia, ma non dell’umore suo di quando odora il pericolo, Questo brontolone gaio, senza gingilli, di corteccia grossa, ha un cuore che parla dalla faccia burbera e bonaria. Agita la testa rasa, grigia, nocchiosa come una mazza d’armi da picchiare sul nemico. Avrà forse un mezzo secolo ormai, eppure è più giovane di noi, e a Calatafimi tenne la sua compagnia come a una festa. I suoi ufficiali, tutti signori di Lombardia, gli stanno sotto come un padre. Se in Prizzi gli occorrerà di dover parlare di legge, ha nel battaglione i dottori a dozzine; se vorrà fare un’arringa, i letterati gli stanno attorno; ma egli breve e tagliente parlerà colla spada. Chi laggiù ha le mani lorde badi ai fatti suoi.



Villafrati, 26 giugno.

E non ci è stato verso di trovar uno che abbia voluto dire la verità! Il testimonio che abbia

detto più male di Santo Mele, dinanzi al Consiglio di guerra, fu Santo Mele.

«Io brigante? Eccellenza! Ho combattuto contro i borbonici, ho dato fuoco alle case dei realisti, ho ammazzato birri e spie, dai primi d’aprile servo la rivoluzione: ecco le mie carte!».

E ne buttò là un fascio, bollate dai Municipi dov’è passato, tutte che ne dicono gloria come fosse Garibaldi. Ma il Consiglio non lo mandò libero. Costui puzza troppo di sangue, e a Palermo, dove sarà condotto, qualcuno gli farà empire il cranio di piombo.



Villafrati, 27 giugno.

È arrivato il colonnello Eber, d’aria tra soldato e poeta. Si sa che è Ungherese, e che il 26 maggio venuto da Palermo a Gibilrossa per veder Garibaldi, volle essere dei nostri

a tornar a Palermo, quel bello e terribile mattino del 27. — Viaggiatore di gran lena, egli ha corso l’Asia per ogni verso, scrivendo pel Times. Ora eccolo nostro comandante, perchè Türr se ne va malato rifinito.



Rocca Palomba, 28 giugno.

Che veglia deliziosa a piè del Maniero di Morgana! Stanchi della camminata d’otto ore, i soldati dormivano, pei campi, in un silenzio che mi parea d’esser solo.

Queste campagne come hanno fatto a diventar deserte?

Si va delle ore senza vedere una casa. Contadini? Non ve ne sono. I coltivatori stanno nei villaggi, grandi come da noi le città; vi stanno in certe tane gli uni sugli altri, con l’asino e le altre bestie men degne. Che tanfo e che colpe! All’alba movono pei campi lontani,

vi arrivano, si mettono all’opera che quasi è l’ora di tornare; povera gente, che vita!

Rocca Palomba è come tutti gli altri borghi, ma a vederla da lungi adagiata su questo fianco del monte, mezzo nascosta nei boschi di mandorli, con quella strada che si curva dolce per farvi arrivare la gente senza fatica, promette di più. Trovammo gli abitanti in festa. Avevano mandato ad incontrarci un nugolo di cavalieri, che vennero innanzi drappellando bandiere, levando grida, salute fratelli! Parevano gente del medioevo rimasta viva proprio per aspettarci. Quei signori ci fecero gli onori del paese, con modi non da persone accostumate a vivere così solitarie. Ma certe gentilezze s’hanno nel sangue. Però sempre quella storia! Se un borgo ci accoglie bene, quello che viene dopo ci tiene il broncio, poi l’altro appresso torna a farci festa. Qui c’erano i preti e il Municipio alle porte; la banda suonava l’inno; sulle alture ardevano fuochi di gioia, i signori

si contendevano gli ufficiali; i soldati ebbero pane, cacio, vino, carezze, il paese in capo, se l’avessero voluto.

Io poi càpito sempre in casa di preti. Questo ch’è qui mi ha voluto far toccare il vangelo. Ma io, aperto il volume, lessi due versetti e glieli voltai tradotti lì lì. Allora il prete mi si buttò al collo, e fece correre tutta la famiglia a conoscere il gran cristiano che aveva in casa. Desinai con loro. Vi erano delle donne, delle fanciulle, dei bambini, dei vecchi e dei giovani, una tribù. Pareva il dì del Natale. Mi lasciarono venir in camera a malincuore; in questa camera allegra dove è un letto che pare di gigli. E tu coi tuoi peccati, oseresti andare fra quelle lenzuola?

Bassini ci ha raggiunti, mortificato lui, gli ufficiali e i soldati. Furono accolti a Prizzi come prìncipi. Luminare, cene, balli e le belle donne che gridavano ancora da lungi «benedetti! beddi!».

Alia, 29 giugno.

Da Rocca Palomba ad Alia una marcia breve, attraverso una ricchezza che va dal piano sino in cima ai colli, dorati ancora da messi che si curvavano, quasi a riverire la nostra rosseggiante colonna.



30 giugno, 4 ore antim.

Si parte. Ah! questa volta la marcia sarà lunga, e pare che il cielo si vorrà fare di fuoco. I soldati vanno e vengono per le vie sudicie, cittadini se ne veggono pochi, scamiciati, indifferenti, alle finestre. Passano due preti salutando; se ne andranno in chiesa. Ecco la tromba. Chi l’avrà trovata questa bella diana dei bersaglieri piemontesi? Certo un musico d’animo allegro e ardito: c’è un pensiero così sano! Forse è del colonnello Lamarmora. Scuote di dosso il

sonno e la pigrizia, fa correre pei nervi un gran bisogno di fare. La intesero gli Austriaci tante volte, la intesero i Russi in Crimea, noi l’abbiamo portata qui nell’isola vecchia di Vittorio Amedeo, dove già i monelli la cantano come cosa loro.



Valle lunga, 30 giugno pom.

Ci hanno raggiunti parecchi amici da Palermo, e dicono che vi arriva gente da’ porti di Liguria e di Toscana ogni giorno. Vi furono quasi dei guai per certa fretta messa ai Palermitani di darsi al Piemonte; ma il Dittatore tiene a segno tutti.

Scrivo in una cameretta dove mi par d’essere un grillo in gabbia. Ma se mi affaccio, veggo tutta la via grande, e una allegria di soldati rossi, e gli ufficiali che fumano e bevono seduti innanzi al casino di compagnia. Come si fa presto a pigliar l’aria di questi signori,

che forse stanno lì tutto l’anno a tirar giù dal cielo il tempo e la noia, a ridere e a giuocare! E mentre che la terra frutta, essi fanno idillii e tragedie per donne. Ho inteso di bellissime storie verseggiate dal popolo che qui è tutto poeti; storie d’amore e di sangue versato per gelosie tremende.



Santa Caterina, l° luglio.

Eber sa condurre una colonna senza affaticarla. Divide la marcia in due: nelle ore di sera si va, si accampa dopo un bel tratto, si riprende la via prima dell’alba e si arriva dove si deve nel bello della mattinata, quando il sole non s’è ancora avventato. Così la notte scorsa ci riposammo nei campi della Cascina Postale, con un tempo dolce, con un sereno che mi parea di vedere mille volte più lungi nelle profondità del cielo.

Stamane mentre il sole spuntava camminavamo

già da un par d’ore. Le compagnie cantavano canzoni popolari lombarde e toscane; i siciliani gareggiavano con un loro canto d’aria che cercava il core.

La palombella bianca
Si mangia la racina.

Ma a tratti quella melodia scoppiava in versi di odio al Borbone, di spregio alla regina Sofia.

Alla testa della colonna i Genovesi cantavano l’inno alato di Mameli. A un tratto ruppero il canto, e lo cessavano tutti man mano che arrivavano a un certo punto della via. Quando, v’arrivai anch’io capii. Da quell’apparita si vedeva laggiù, laggiù, nero sterminato, crescente all’occhio e alla fantasia, l’Etna, che coll’ombra sua si protendeva su mezza l’isola e sul mare.

* * *


Il povero maggiore Bassini l’hanno pigliato pel giustiziere. Egli dovrà partire di nuovo per un villaggio chiamato Resotano, dove alcuni tristi fanno tremare la gente.

Caltanisetta, 2 luglio.

Si calunniano tra loro borghi e città come godessero gli uni del mal degli altri. A sentire, qui dovevano essere schioppettate. Invece trovammo tutto un parato di bandiere e di verde. Ci toccò passare sotto un arco trionfale noi, le autorità, la Guardia Nazionale venuta ad incontrarci. I giovinetti volevano ad ogni costo lo schioppo dai nostri soldati, tanto per alleggerirli l’ultimo tratto: ma i soldati rifiutarono la cortesia. Forse qualcuno si ricordò di quando eravamo pei campi nei primi giorni dopo lo sbarco, che si dormiva collo schioppo tra le braccia e le gambe incrociate, e alcuni se lo legavano al corpo, dalla paura di svegliarsi disarmati. Sicuro! Allora v’erano dei contadini

che per avere un’arma si arrischiavano nei bivacchi a rubarla.



3 luglio.

Che quella festosa accoglienza di ieri fosse una lustra? Oggi la città è silenziosa; pare che noi non ci siamo più; la gente attende alle cose sue come dicesse: Ho fatto il dover mio e basta.

* * *


Quei di Bassini sono tornati, rotti dalla marcia di quattro giorni, per vie da lasciarvi le polpe. Narrano che capitati a Resotano intorno alla mezzanotte, vi trovarono il popolo in armi risoluti a non lasciarli entrare. Bassini, uomo da dar dentro a baionetta calata, procedè cogli accorgimenti, e potè mettere le mani addosso a undici scellerati, rei di mille prepotenze e di sangue. Uno riuscì a fuggire, ma un siciliano come un demonio, lo cacciò, lo arrivò e l’uccise.

5 luglio.

Fatti i conti, dei siciliani che ci seguirono da Palermo in qua, un mezzo centinaio se ne sono già andati, alcuni portando via anche le armi. Sono contadini che si accendono come paglia e presto si stancano. Il Consiglio di guerra li condanna a morte; si appiccano le sentenze come lenzuola alle cantonate, ma si lascia che i condannati se ne vadano alla loro ventura, purchè lontano. I buoni sono quelli delle città e i Palermitani, giovani colti, amorosi, pieni di rispetto. Malveduti sono alcuni ufficiali che paiono chierici. Quando le compagnie vanno agli esercizii, le accompagnano portando le spade come torcetti poi si tirano in disparte e par loro d’essere sciupati nel dover assistere a quelle bassezze dell’imparare come si maneggia un’arma, come si muova ordinati. Se fossero stati l’anno scorso in Piemonte! Giovani

dei migliori di tutta Italia si lasciavano strapazzare da quei caporaloni grigi che parlavano di Goito, di Novara, della Crimea, e insegnando lanciavano insolenze peggio delle guanciate. Pur d’imparare, sopportavano tutto quei giovani. Ricordo d’un Conte veneto che caricava su d’una carretta lo strame, della scuderia. Passò il caporal Ragni con la gamella in mano.

— Bestie tutte come voi nel vostro paese? Chi v’ha insegnato a maneggiare il bidente?

Il Conte rispose sorridendo non so che, in italiano.

— Ah! siete un volontario? Allora che cosa è questa?,

— Una gamella.

— La patria! urlò beffardo il caporale, battendo le nocche su quell’arnese di latta. Il Conte sorrise ancora. E il caporale:

— Stasera farete il sacco, e passerete a ridere in prigione..

— Sissignore.



Caltanisetta, 7 luglio.

Feste da fate. I viali del giardino parevano di fuoco; il verde degli alberi e delle spalliere luccicava di splendori metallici; le donne di Caltanisetta coi mariti, coi fratelli, con noi, parevano una famiglia innumerevole che si rallegrasse là dentro di qualche lieta avventura. Rinfreschi, vini e dolciumi, tanto da satollare per una settimana tutti i poveri della città.



Castrogiovanni, 10 luglio.

Ma perchè ci hanno fatti camminare traverso i monti, per sentieri che è miracolo se nessuno vi lasciò la vita? Vero è che abbiam veduta la pingue campagna, una coppa d’oro.

Quei bovi che pascolavano per le praterie, fiutavano nell’aria il nostro passaggio, e la fila interminabile di rosso dava loro negli occhi spaventati. Un toro inseguì due dei nostri sbrancati e vaganti forse in cerca d’acqua. Li vedemmo correre su per un’erta, colla formidabile testa del furioso animale due passi dalle reni. Un d’essi potè arrampicarsi a un albero, l’altro tirava sempre a correre su d’una ripa dove il toro lo avrebbe arrivato. Senonchè un boaro, galoppando curvo che la sua testa era tutta nella criniera del cavallo, giunse coll’asta calata e vibrò nel fianco alla bestia come un lanciere. Il toro fuggì muggendo, lanciando zolle, flagellando l’aria colla coda rabbiosamente.

* * *


Io pensava che quando eravamo a Gibilrossa, ora un mese e mezzo, furori messi i partiti d’assaltare Palermo o di ritirarsi qui su quest’amba, per ordinarvi la rivoluzione, farsi

forti e ripigliare la guerra. Quasi tutti i capitani propendevano per questo, ma Garibaldi no. Volle Palermo. Forse indovinava che ritirati quassù avremmo avuto tempo a languire un po’ ogni giorno, finchè la rivoluzione si sarebbe spenta, e noi con essa.

* * *


Scrivo a piè d’un castello che un tempo dominava la città. Ora è carcere dove fu chiuso un sergente della compagnia di Agesilao Milano, che n’uscì cavato dalla rivoluzione, ma canuto, curvo, spentosi senza la forza nemmeno di potersi rallegrare del suo paese. Così mi hanno narrato ed io noto. E noto che veggo il lago Pergusa a un cinque miglia da qui. Pare un pezzo di cielo caduto in mezzo a praterie fiorite. Circa lacus lucique sunt plurimi et laetissimi flores omni tempore anni: dice Cicerone

parlando d’Enna, l’antica città ch’oggi è Castrogiovanni. Lo lessi, saran sei anni, nelle Verrine. Chi m’avrebbe detto allora: Vedrai quei luoghi?

* * *


In faccia a Castrogiovanni, Calascibetta sicura, cupa, sul monte che par tutto basalti, rotto d’anfratti, fulminato.

Nella valle il fondaco della Misericordia, lugubre nome che fa luccicare lame di pugnali agitate nella notte da masnadieri.

Veggo laggiù la nostra artiglieria, i carri, le sentinelle e un brusìo di soldati rossi. Non vi deve essere un alito. Quassù invece una brezzolina che sfiora la guancia soave.

* * *


Notizie di Bixio. Conduce la sua brigata per l’isola sulla nostra destra. Ha riveduto il Parco

la Piana de’ Greci, Corleone; prosegue alla volta di Girgenti. Là i compagni nostri vedranno le ruine dei templi che piacquero a Byron, nella squallida landa sotto cui dorme un gran popolo. Il mandriano guarda indifferente quelle file di colonne silenziose, e il navigante si inchina ad esse da lontano.


Leonforte, 11 luglio.

Il capitano Faustino Tanara solo, ritto su d’un poggiolo, guardava co’ suoi piccoli occhi l’orizzonte largo; pareva un aquilotto che stesse cercando una direzione per provarsi a volare. Sulla sua faccia ride l’anima franca e ardita, ma non v’è mai allegrezza piena. Eppure la certezza d’essere amato da tutti dovrebbe fargli gettare sprazzi di luce dal core. Che dolce natura! Il più meschino soldato gli è carissimo,

persin Mangiaracina, un siciliano di non so che borgo dell’Etna, testone che pare un maglio in una parrucca fatta di pelle d’orso, e ha gli occhi sotto certe grotte, da dove guardano come due malandrini appostati. Un dì vidi Tanara in collera, stanco di Mangiaracina che butta le gambe come un ippopotamo e fa rompere il passo alla compagnia. Gli prese l’orecchio e pizzicando gli disse: «Ma tu perchè ci sei venuto con noi; e l’Italia che se ne deve fare della carnaccia tua?». Mangiaracina gli si empirono gli occhi di lacrime, e guardando il suo Capitano come fosse stata la Madonna, umile e dolce rispose: «Cabedano, ci aggio ’no core anch’io». Tanara gli strinse la mano.

Egli ha trent’anni. In battaglia si trasforma. La sua persona nervosa guizza, scatta, squarcia come saetta nelle nubi. Allora tutti lo ammirano; si teme di vederlo l’ultima volta: dopo si rincantuccia malinconico; non gli si può cavare una parola.

San Filippo d’Argiro, 12 luglio.

Partimmo da Leonforte col fresco delle due dopo la mezzanotte e camminammo lenti sino alla levata del sole. Allora ognuno diede una scossa come fanno gli uccelli, e volò coll’anima per gli orizzonti dell’isola. Le solite vedute. Boschi di mandorli come da noi i castagneti; terreni che dovrebbero gettar oro; qua e là gruppi di contadini che ci guardavano accidiosi e pensando chi sa che cosa di noi.

San Filippo è una cittadetta gaia, e ci si dice che di qua al mare sia la più bella parte dell’isola. Arrivammo che una processione rientrava in chiesa da non so che giro fatto per chieder pioggia.

Corre voce che una colonna di regi usciti da Siracusa ci attendono verso Catania, Dev’essere vero perchè si partirà fra poche ore. Una battaglia là dove pugnarono gli Ateniesi di Nida; o a’ piedi dell’Etna dove si svolsero tanti drammi delle guerre servili? E Garibaldi non è con noi! Ma se nel forte del combattere arrivasse da Girgenti Bixio, come un uragano?


Adernò, 14 luglio. Pomeriggio.

Ho fatto tutta la marcia con Telesforo Catoni che sin da Marsala desideravo d’aver amico. Egli era della compagnia Cairoli e studiava

leggi a Pavia. Ha nella persona qualche cosa che attrista; non si sa perchè, ma si sente certa compassione di lui. Una capigliatura nera lussureggiante; un par d’occhi che saettano, grandi, eloquenti; una testa che potrebbe essere piantata su d’un atleta; e invece una esilità di membra, un torso tenue che a un soffio dovrebbe piegare. Eppure non è stato addietro un passo, mai. Sta quasi sempre solo; adora Foscolo e il carme dei Sepolcri che sa a memoria, e se ne pasce come d’un cibo leonino. Camminando meco recitava i versi di Maratona, che detti da lui, nella notte, in mezzo alla colonna che marciava, mi parvero i più belli, i più forti da Dante in qua. Cantoni ha molto del foscoliano, e chi ponesse il suo ritratto per frontespizio nell’Ortis, ognuno direbbe che certo il povero Jacopo fu così. Ha diciannove anni,

è Mantovano come Nuvolari, come Gatti, come Boldrini, tutta gente bizzarra e valente, che hanno un po’ del Sordello.


Paternò, 14 luglio.

Da Adernò a Paternò, una camminata in faccia all’Etna, che da Santa Caterina non si è più perso di vista. Per la falda che par si rigonfi infinita, trionfano boschi di verde cupo, dai quali si libera e si lancia il gran monte, brullo fino alla cima, bianco di neve, alto che il fumo del cratere vi galla sopra accidioso, come se non potesse salir di più. Dorme il gigante che conta gli anni dalle sue furie e dai popoli che ha disfatti. Sono tanti e che storie! Eppure spesseggiano nelle macchie i villaggi, lasciando indovinare da lungi la gente felice che deve abitarli.

Catania, 15 luglio.

Credeva d’entrare in una città di Ciclopi, ma appena oltre la porta minacciosa per i massi di cui e formata, ecco la via lunga fino al mare, ampia, lavata, fresca come vi dovesse passare la processione del Corpus Domini. Eravamo un drappello che precedemmo la brigata e i primi fiori gli avemmo noi. In piazza dell’Elefante una sentinella chiamò la guardia, dieci o dodici giovinotti balzarono a schierarsi, presentarono l’armi facendo le faccie fiere. Sono gente del paese intorno, raccolta da Nicola Fabrizi.

* * *


Entrò la brigata. Eber cavalcava alla testa, le compagnie camminavano franche, con gli schioppi che uno non passava l’altro, con una

cadenza di passo da vecchi soldati; davano piacere a vederle.

Staremo qua riposando alcuni giorni. I borbonici di Siracusa e d’Agosta non si sono mossi; ma bisognerà vegliare perchè siamo in mezzo ad essi e a quei di Messina.



17 luglio.

Ho bell’e visto; questi per noi sono gli ozi di Capua, Catania ha dei profumi che addormentano. Siede come Venere nella conchiglia, spossata dal godimento d’un cielo, d’una campagna, d’un mare, che sembrano fondersi insieme in una sola vita per farle delizia. Si sente una soavità d’aura anacreontica, su, vino e rose! Lampeggiano gli occhi delle donne uscenti dai templi come Dee, colle vesti bianche, i manti neri di seta fluttuanti dalle trecce per le spalle. E noi guardiamo, noi beviamo l’incanto ammirando.