[p. 155 modifica] [p. 156 modifica]lunga barba bianca, esercitava il pensiero, più spesso la memoria, astratto, assorto, come in chiesa un divoto nella preghiera.

Non lo disturbavano neppure i topi che facevano talvolta una gazzarra indiavolata sul terrazzo di sopra, il cui piano, per impedire che il soffitto del camerone rovinasse, s’era dovuto ricoprir di bandone. Il rimedio era giovato poco e per poco tempo; le lastre di bandone s’erano staccate e accartocciate al sole, con molta soddisfazione dei topi che, rincorrendosi, vi s’appiattavano; e il soffitto già s’era aggobbato, gocciava d’inverno per due o tre stillicidii, e le pareti serbavano, anche d’estate, due larghe chiose d’umido, grommose di muffa.

Don Cosmo non se ne dava pensiero: non entrava quasi mai nel camerone; Mauro non voleva che si riattasse: poco più gli restava da vivere e voleva che tutto lì rimanesse com’era; sapeva che, morto lui, nessuno si sarebbe preso più cura di custodire quel “santuario della libertà„; e il soffitto allora poteva anche crollare o essere riattato. Intanto, ogni anno, al sopravvenire dell’autunno, egli si recava sul terrazzo a rassettare e fissar le lastre di bandone con grosse pietre, e sul pavimento del camerone collocava concole e concoline sotto gli stillicidii. Le gocce vi piombavan sonore, ad una ad una; e quel tin-tan cadenzato pareva gli conciliasse il raccoglimento.

Dianella, entrando, ebbe subito come un urto dalla vista inattesa d’una belva imbalsamata che, nella penombra, pareva viva, là, nella parete di fronte, presso l’angolo, con la coda bassa e la testa volta da un lato, felinamente.

— Che paura! — esclamò, levando le mani verso il volto e sorridendo d’un riso nervoso. — Non me l’aspettavo.... Che è? [p. 157 modifica]

— Leopardo, — disse Mauro.

— Bello!

E Dianella abbassò una mano a carezzare quel pelame variegato; ma subito la ritrasse tutta impolverata, e notò che alla belva mancava uno degli occhi di vetro, il sinistro.

— Un altro, compagno a questo, — riprese Mauro — l’ho regalato al Museo dell’Istituto, a Girgenti. Non l’avete mai veduto? C’è una vetrina mia, nel Museo. Accanto al leopardo, una jena, bella grossa, e, sopra un’aquila imperiale. Su la vetrina sta scritto: Cacciati, imbalsamati e donati da Mauro Mortara. Gnorsì. Ma venite qua, prima. Voglio farvi vedere un’altra cosa.

La condusse davanti al vecchio divano sgangherato.

Appese alla parete, sopra il divano, eran quattro medaglie, due d’argento, due di bronzo, fisse in una targhetta di velluto rosso ragnato e scolorito. Sopra la targhetta era una lettera, chiusa in cornice, scritta di minutissimo carattere in un foglietto cilestrino, sbiadito.

— Ah, le medaglie! — esclamò Dianella.

— No, — disse Mauro, turbato, con gli occhi chiusi. — La lettera. Leggete la lettera.

Dianella s’accostò di più al divano e lesse prima la firma: — Gerlando Laurentano.

— Del Generale?

Mauro, ancora con gli occhi chiusi, accenno di sì col capo, gravemente.

E Dianella lesse:

Burmula, li 22 dicembre del 1852.

Amici,

Le notizie di Francia, il colpo di Stato di Luigi Napoleone recheranno certamente una grave e lunga sosta al momento per la nostra santa causa e [p. 158 modifica]ritarderanno, chi sa fino a quando, il nostro ritorno in Sicilia.

Vecchio come sono, non so nè posso più sopportare il peso di questa vita d’esilio.

Penso che non sarò più in grado di prestare il mio braccio alla Patria, quand’essa, meglio maturati gli eventi, ne avrà bisogno. Viene meno pertanto la ragione di trascinare così un’esistenza incresciosa a me, dannosa a’ miei figli.

Voi, più giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro

Gerlando Laurentano.


Dianella si volse a guardare il Mortara che, tutto ristretto in sè, con gli occhi ora strizzati, il volto contratto e una mano su la bocca, si sforzava di soffocare nel barbone abbatuffolato i singhiozzi irrompenti.

— Non la rileggevo più da anni, — mormorò quando potè parlare.

Tentennò a lungo la testa, poi prese a dire:

— Mi fece questo tradimento. Scrisse la lettera e si vestì di tutto punto, come dovesse andare a una festa da ballo. Ero in cucina; mi chiamò. “Questa lettera a Mariano Gioeni, a La Valletta„. C’erano a La Valletta gli altri esiliati siciliani, ch’erano stati tutti qua, in questa camera, prima del Quarantotto, al tempo della cospirazione. Mi pare di vederli ancora: don Giovanni Ricci-Gramitto, il poeta; don Mariano Gioeni e suo fratello don Francesco; don Francesco De Luca; don Gerlando Bianchini; don Vincenzo Barresi: tutti qua; e io sotto a far la guardia. Basta! Portai la lettera.... Come avrei potuto supporre? Quando ritornai a Burmula, lo trovai morto. [p. 159 modifica]

— S’era ucciso? — domandò, intimidita, Dianella.

— Col veleno, — rispose Mauro. — Non aveva fatto neanche in tempo a tirare sul letto l’altra gamba. Come era bello! Conoscete don Ippolito? Più bello. Diritto, con un pajo d’occhi che fulminavano: un San Giorgio! Anche da vecchio, innamorava le donne.

Richiuse gli occhi e a bassa voce recitò la chiusa della lettera, che sapeva a memoria:

Voi, più giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro Gerlando Laurentano. Vedete? E vissi io, come lui volle. E qua, sotto la lettera, che mi feci restituire da don Mariano Gioeni, ho voluto appendere, come in risposta, le mie medaglie. Ma prima di guadagnarmele! Sedete, qua; non vi stancate....

Dianella sedette sul vecchio divano. In quel punto, donna Sara Alàimo, sentendo parlare nel camerone e vedendo insolitamente l’uscio socchiuso, sporse il capo incuffiato a guardare.

— Che volete voi qua? — saltò su Mauro Mortara, come avrebbe fatto, se vivo, quel leopardo. — Non c’è nulla per voi!

— Puh! — fece donna Sara, ritraendo subito il capo. — E chi vi tocca?

Mauro corse a sprangar l’uscio.

— La strozzerei! Non la posso soffrire, non la posso vedere, questa spïaccia dei preti! S’arrischia anche a ficcare il naso qua dentro ora? Non l’aveva mai fatto! La tengono qua i preti, sapete? approfittandosi di quel babbeo di don Cosmo. I Sanfedisti, i Sanfedisti....

— Ma ci sono ancora davvero codesti Sanfedisti? — domandò Dianella con un benevolo sorriso. [p. 160 modifica]

— Oh Marasantissima, lasciatevi servire! — tornò ad esclamare il Mortara. — Se ci sono! Forse ora si fanno chiamare d’un’altra maniera; ma sono sempre quelli. Setta infernale, sparsa per tutto il mondo! Spie dappertutto: ne trovai una finanche in Turchia, figuratevi! a Costantinopoli.

— Siete stato fin là? — domandò Dianella.

— Fin là? Ma più lontano ancora!— rispose Mauro con un sorriso di soddisfazione. — Dove non sono stato e che cosa non ho fatto io? Contiamo; ma non bastano le dita delle mani: pecorajo, contadino, servitore, mozzo di nave, scaricatore di bordo, stivatore, fochista, cuoco, bagnino, cacciatore di bestie feroci, poi volontario garibaldino, attendente di Bixio; poi, dopo la Rivoluzione, capo-carcerario: trecento galeotti ho tenuto in un pugno a Santo Vito, che volevano scappare; e alla fine, qua, campagnuolo di nuovo. La mia vita? Non parrebbe vera, se qualcuno la volesse raccontare.

Stette un pezzo a lisciarsi la barba, mentre gli occhi verdastri gli ridevano lucidi, al fremito interno dei ricordi.

— Tagliate un tronco d’albero, — disse, — e buttatelo a mare, lontano dalla spiaggia. Dove andrà a finire? Ero come un tronco d’albero, nato e cresciuto qua, a Valsanìa. Venne la bufera e mi schiantò. Prima partì il Generale coi compagni; io partii due giorni dopo, di notte, sopra un bastimento a vela, com’usava a quei tempi: una barcaccia di quelle che chiamano tartane. Ora rido. Sapeste però che spavento, quella notte, sul mare!

— La prima volta?

— Chi c’era mai stato! Nero, tutto nero, cielo e mare. Solo la vela, stesa, biancheggiava. Le stelle, fitte fitte, alte, parevano polvere. Il mare si rompeva [p. 161 modifica]urtando contro i fianchi della tartana, e l’albero cigolava. Poi spuntò la luna, e il bestione si abbonacciò. I marinai, a prua, fumavano la pipa e chiacchieravano tra loro; io, buttato là, tra le balle e il cordame incatramato, vedevo il fuoco delle loro pipe; piangevo, con gli occhi spalancati, senz’accorgermene. Le lagrime mi cadevano su le mani. Ero come una creatura di cinque anni; e ne avevo trentatrè! Addio, Sicilia; addio, Valsanìa; Girgenti che si vede da lontano, lassù, alta; addio, campane di San Gerlando, di cui nel silenzio della campagna m’arrivava il ronzìo; addio, alberi che conoscevo a uno a uno... Voi non vi potete immaginare, come da lontano vi s’avvistino le cose care che lasciate e vi afferrino e vi strappino l’anima! Io vedevo certi luoghi, qua, di Valsanìa, proprio come se vi fossi; meglio, anzi; notavo certe cose, che prima non avevo mai notato; come tremavano i fili d’erba alla brezza grecalina, un sasso caduto dal murello, un albero un po’ storto a pendìo, che si sarebbe potuto raddrizzare, e di cui potevo contare le foglie, a una a una... Basta! All’alba, giunsi a Malta. Prima si tocca l’isola di Gozzo... Malta, capite? tutta come un golfo, abbraccia il mare. Qua e là, tante insenature. In una di queste è Burmula, dove il Generale aveva preso stanza. Grossi porti, selve di navi; e gente d’ogni razza, d’ogni nazione: Arabi, Turchi, Beduini, Marocchini; e poi Inglesi, Francesi, Spagnuoli. Cento lingue. Nel Cinquanta, ci scoppiò il colera, portato dagli Ebrei di Susa che avevano con loro belle femmine, belle! ma, sapete? ragazzette fresche, di sedici e diciott’anni come voi...

— Oh, ne ho di più io! — sorrise Dianella.

— Di più? Non pare. Si dipingevano. Senza bisogno, — seguitò Mauro, — come se fossero state [p. 162 modifica]vecchie. Peccato! Belle femmine! Portarono il colera, vi dicevo: un’epidemia terribile! Figuratevi che a Burmula, paesettuccio, in una sola giornata, ottocento morti. Come le mosche si moriva. Ma la morte a un disgraziato che paura può fare? Io mangiavo, come niente, petronciani e pomodori: lo facevo apposta. Avevo imparato una canzonetta maltese e la cantavo giorno e notte, a cavalcioni d’una finestra. Perchè ero innamorato...

— Ah sì? Là? — domandò Dianella, sorpresa.

— Non là, — rispose Mauro. — Avevo lasciato qua, a Valsanìa, una villanella con cui facevo all’amore: Serafina... Si maritò con un altro, dopo un anno appena. E io cantavo... Volete sentire la canzonetta? Me la ricordo ancora.

Socchiuse gli occhi, buttò indietro il capo e si mise a canticchiare in falsetto, pronunciando a suo modo le parole di quella canzonetta popolare:

Ahi me kalbi, kentu giani...

Dianella lo guardava, ammirata, con un intenerimento e una dolcezza accorata, che spirava anche dal mesto ritmo di quell’arietta d’un tempo e d’un paese lontano, la quale affiorava su le labbra di quel vecchio, fievole eco della remota, avventurosa gioventù. Non sospettava minimamente sotto la ruvida scorza del Mortara la tenerezza di tali ricordi.

— Com’è bella! — disse. — Ricantatela!

Mauro, commosso, fece cenno di no, con un dito.

— Non posso; non ho voce. Sapete che vogliono dire le prime parole? Ahimè, il cuore come mi duole. Il senso delle altre non lo ricordo più. Piaceva tanto al Generale, questa canzonetta. Me la faceva can[p. 163 modifica]tare sempre. Eh, avevo buon voce, allora... Voi guardate il leopardo? Ora vi racconto.

E seguitò a raccontarle come, dopo la morte del Generale, rimasto solo a Burmula, non volendo ritornare in Sicilia dove s’era già compromesso, si fosse recato a La Valletta. Qua, gli esiliati siciliani avrebbero voluto ajutarlo; ma egli, sapendo in che misere condizioni si trovassero, aveva rifiutato ogni soccorso e s’era messo a lavorare nel porto, come mozzo, come scaricatore, come stivatore. Mancavano le braccia, decimata la popolazione dal colera. Poi s’era imbarcato su un piroscafo inglese da fochista. Per più di sei mesi era stato sepolto lì, nel saldo ventre strepitoso della nave, ad arrostirsi al fuoco alimentato notte e giorno, senza mai sapere dove s’andasse. I macchinisti inglesi lo guardavano e ridevano – chi sa perchè – e un giorno, per forza, avevano voluto presentarlo, così tutto affumicato com’era, al capitano – pezzo d’omone sanguigno, con una barbaccia fulva che gli arrivava fin quasi ai ginocchi – e il capitano gli aveva più volte battuto la spalla, lodandolo forse per lo zelo. Egli, difatti, in tutti quei mesi, non s’era dato un momento di requie, neanche per prendere un boccone; aveva perduto l’appetito: beveva soltanto, per temprar l’arsura del corpo che, là sotto, smaniava il respiro, un po’ d’aria! Unico svago, quando si approdava in qualche porto, un vecchio libro di cucina, tutto squinternato, sul quale aveva imparato a compitare con l’ajuto del cuoco di bordo, anch’esso italiano, da lungo tempo spatriato a Malta.

Svago e tesoro, per lui, quel libro! Perchè, un giorno, il cuoco, ammalatosi gravemente, era stato sbarcato a Smirne e, in mancanza d’altri, alla prova di quest’altro fuoco era stato messo lui, erede del [p. 164 modifica]libro e della dottrina culinaria di quello. S’era dato con tutto l’impegno a questo nuovo ufficio e in breve aveva saputo contentar così bene il capitano, che questi poi, vedendolo lì lì per ammalarsi come quell’altro cuoco, spontaneamente lo aveva allogato quale sguattero in una famiglia inglese, ricchissima, domiciliata a Costantinopoli.

Ma la malattia contratta a bordo non lo aveva lasciato lungo tempo a quel posto, per un tristo accidente capitatogli uno di quei giorni. Un droghieruccio d’Alcamo, stabilito da molti anni là a Costantinopoli, dal quale egli si recava qualche volta per sentir parlare il dialetto nativo, aveva voluto avvelenarlo. Sì! Invece d’una pozione d’olio di mandorle dolci, gli aveva dato forse olio di mandorle amare. Spia dei preti, dei Sanfedisti, anche quello! Sbaglio involontario? Ma che! Ricordava bene che una volta colui aveva osato rimproverarlo acerbamente per l’avventura del francescano appeso, ch’egli, così per ridere, gli aveva narrata. Ah, ma rimessosi per miracolo, dopo circa tre mesi, dall’avvelenamento, gli aveva fatto pagar caro il delitto. Con un pugno (e Mauro mostrò sorridendo il pugno) lo aveva steso là, nella bottega. Aveva al dito un grosso anello di ferro, come un chiodo ritorto, comperato a Smirne, e con esso – senza volerlo, veh! – gli aveva sfracellato la tempia.

Ripresosi dal pauroso sbalordimento nel vederselo cascare giù tutto in un fascio sotto gli occhi, insanguinato, s’era dato alla fuga e poche ore dopo era partito con una nave che si recava a un piccolo porto dell’Asia Minore. Non ricordava più il nome del paesello di mare in cui era disceso: era d’estate e aveva trovato subito da allogarsi come bagnino. [p. 165 modifica]

— Avete sentito nominare Orazio Antinori? — domandò a questo punto il Mortara.

— L’esploratore? Sì, — disse Dianella.

— Venne là, ai bagni, un giorno, — seguitò Mauro, — con un altro italiano. Li sentii parlare e m’accostai. L’Antinori assoldava cacciatori per la caccia delle fiere, nel deserto di Libia. Gli piacqui, mi prese con sè. Noi andavamo; gli mandavamo le fiere uccise; egli le imbalsamava e poi le spediva ai musei, a Londra, a Vienna... Quando ritornavo dalle cacce, siccome lui mi voleva bene sapendomi fidato, lo ajutavo a preparar le droghe, e intanto, zitto zitto, gli rubavo l’arte. Così imparai a imbalsamare; e quando lui andò via, seguitai per conto mio la caccia e la spedizione. Vi voglio raccontare una certa avventura. Un giorno, eravamo sperduti, io e lui, morti di fame e di sete. A un certo punto avvistammo alcum alberi di fico e li prendemmo d’assalto, figuratevi! Ma i fichi migliori erano in alto e non potevamo prenderli. Allora io, contadino, che feci? m’allontanai e ritornai poco dopo, munito d’una canna bella lunga; la spaccai un po’ in cima e con essa mi misi a cogliere i fichi alti più maturi, con la lagrima di latte: un miele, vi dico! L’Antinori mi guardava e si rodeva dentro. Alla fine non potè più reggere e mi gridò: «Che fai? La smetti? Vuoi farmi ammazzare dai Turchi?» Capii l’antifona. Zitto, stesi il braccio e gli porsi la canna. Andai a prenderne un’altra, e tutti e due seguitammo a rubar fichi tranquillamente. Ah, l’Antinori... mi voleva bene, e m’ajutò tanto, anche da lontano. Stetti lì più di sei anni. Poi sentii che Garibaldi era sbarcato a Marsala, volai subito in Sicilia. Sbarco a Messina; raggiungo i volontarii a Milazzo. Don Stefano Auriti mi morì tra le braccia. [p. 166 modifica]Non poteva più parlare, mi raccomandava con gli occhi il figlio, don Roberto, il suo leonetto di dodici anni... Ci battemmo! A Reggio aprii il fuoco io, sapete? la prima fucilata fu la mia! Poi Bixio mi prese per attendente... Che giornata, quella del Volturno! Ma ora, dopo aver visto tante cose, dopo averne passate tante, sono soddisfatto, che volete! L’Italia è grande! L’Italia è alla testa delle nazioni! Detta legge nel mondo! E posso dire che anch’io, così da povero ignorante e meschino come sono, ho fatto qualche cosa, senza tante chiacchiere. Posso andare dal re e dirgli: «Maestà, alla sedia su cui voi sedete, se non una gamba o una traversa, un piccolo pernio, qualche cavicchio, l’ho messo anch’io. La mia parte te l’ho fatta, figlio mio!» E sono contento. Cammino qua per Valsanìa, vedo i fili del telegrafo, sento ronzare il palo, come se ci fosse dentro un nido di calabroni, e il petto mi s’allarga; dico: — Frutto della Rivoluzione! — Vado più là, vedo la ferrovia, il treno che si caccia sottoterra, nel traforo sotto Valsanìa, che mi pare un sogno; e dico: — Frutto della Rivoluzione! — Vado sotto il pino, guardo il mare, vedo laggiù a ponente Porto Empedocle, che al tempo della mia partenza per Malta non aveva altro che la Torre, il Rastiglio, il Molo Vecchio e quattro casucce, e ora è diventato quasi una città; vedo le due lunghe scogliere del nuovo porto, che mi pajono due braccia tese a tutte le navi di tutti i paesi civili del mondo, come per dire: “Venite! venite! l’Italia è risorta, l’Italia abbraccia tutti, dà a tutti la ricchezza del suo zolfo, la ricchezza dei suoi giardini!„ Frutto della Rivoluzione, anche questo, penso, e – vedete? – mi metto a piangere come un bambino, dalla gioja...

Cavò, così dicendo, dall’apertura della ruvida ca[p. 167 modifica]micia d’albagio un grosso fazzoletto di cotone turchino, e si asciugò gli occhi, che gli s’erano veramente riempiti di lagrime.

Dianella sentì anche lei inumidirsi gli occhi. Quel vecchio che incuteva tanta paura, che aveva ucciso un uomo come niente e ne aveva fatto morire un altro per l’ombra d’un sospetto maniaco; che andava così armato, in procinto sempre di versare altro sangue, pronto com’era all’ira e irsuto e ombroso; quel vecchio, ecco, piangeva come un fanciullo per l’opera compiuta, ch’egli vedeva senza mende e gloriosa; piangeva esaltandosi nella sua gesta e nella grandezza della patria, per cui aveva tanto sofferto e combattuto, senza chieder mai nulla, generoso e feroce, fedele come un cane e coraggioso come un leone. Nè i suoi colombi, nè la pace dei campi, nè il governo della vigna, nè il canto delle allodole, riuscivano a rasserenargli lo spirito dopo tanto tempo: quel camerone era come la sua chiesa; e usciva di là com’ebbro, e s’aggirava per la campagna sotto i mandorli e gli olivi, parlando tra sè di battaglie e di congiure, guardando biecamente il mare dalla parte di Tunisi, donde immaginava un improvviso assalto dei Francesi...

Un romor di sonaglioli e il rotolìo d’una vettura vennero a un tratto a scuotere Dianella da queste considerazioni e Mauro dal pianto.

— Vostro padre? — domandò questi, infoscandosi d’un subito e ricacciandosi nell’apertura della camicia il fazzoletto.

Dianella si levò, costernata, e corse alla finestra a guardare attraverso le stecche delle persiane. Restò. Dalla vettura, che s’era fermata davanti a la [p. 168 modifica]villa, scendevano il padre, di ritorno, e Aurelio Costa – lui! – in tenuta da campagna.

— Andate, andate, — le disse Mauro, quasi spingendola. — Chiudo e me ne scappo!

Dianella uscì sul corridojo e vide in fondo a esso il Costa e il padre, diretti alla camera di questo, nella quale si chiusero. Allora Mauro Mortara, come una bestia sorpresa nel giaccio, sgattajolò ranco ranco, senza dirle nulla.

Ella rimase perplessa, profondamente turbata, non sapendo che pensare di quell’improvviso insolito ritorno del padre. Evidentemente, tanto questo ritorno quanto la venuta d’Aurelio Costa si connettevano con le notizie dei tumulti d’Aragona. Qualcosa di molto grave doveva essere accaduto. Era fuggito Aurelio? No: Dianella non volle nemmeno supporlo. Forse il padre stesso aveva mandato a chiamarlo. Con quale animo?

Fu tentata di recarsi nella sua camera, attigua a quella del padre, se le riuscisse di cogliere qualche parola attraverso la parete, ma ricordò lo sguardo del padre, quella mattina, e se n’astenne; rimase tuttavia come tenuta tra due, nella sala d’ingresso.

— Suo papà, — le annunziò donna Sara Alàimo, sporgendo il capo dall’uscio della cucina.

Dianella le accennò di sì col capo.

— Con l’ingegnere, — aggiunse donna Sara, sottovoce.

Dianella le accennò di nuovo col capo che sapeva, e uscì sul pianerottolo della scala esterna. La vettura era lì ancora, in attesa, a piè della scala. Dunque il padre doveva ripartire subito? Forse era venuto per prendere qualche carta.

— Andrete a Porto Empedocle adesso? — domandò al cocchiere. [p. 169 modifica]

— Eccellenza, sì — rispose questi.

Ed ecco il padre e il Costa frettolosi. Flaminio Salvo non s’aspettava di trovar la figlia sul pianerottolo della scala, e, vedendola, si tirò un po’ indietro, senza fermarsi, le fece un sorriso e la salutò con la mano. Aurelio Costa, che gli veniva dietro, rimase un istante confuso, accennò di togliersi il berretto da viaggio ma il Salvo gli gridò:

— Andiamo, andiamo...

Dianella, pallida, col fiato rattenuto, li vide montare su la vettura, partire senza volgere il capo, e li seguì con gli occhi finchè non scomparvero tra gli alberi del viale.

Com’era cangiato Aurelio! Sconvolto... Pareva malato, invecchiato, con la barba non rifatta... Dianella pensò al giudizio che ne aveva dato Nicoletta Capolino. Avrebbe voluto vederlo più altero di fronte al padre; avrebbe voluto che, non ostante il richiamo imperioso di questo, egli si fosse fermato lì sul pianerottolo, almeno per salutarla. Invece subito aveva obbedito...

Forse il momento... Chi sa che era accaduto alle zolfare!


In agguato.


Flaminio Salvo ritornò tardi, la sera, d’umor gajo, come ogni qual volta prendeva una grave decisione.

A cena, si scusò con don Cosmo della sfuriata della mattina; disse che n’aveva fino alla gola, delle innumerevoli seccature che gli erano diluviate da quelle zolfare d’Aragona, e che aveva deciso di chiuderle.