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— Avete sentito nominare Orazio Antinori? — domandò a questo punto il Mortara.
— L’esploratore? Sì, — disse Dianella.
— Venne là, ai bagni, un giorno, — seguitò Mauro, — con un altro italiano. Li sentii parlare e m’accostai. L’Antinori assoldava cacciatori per la caccia delle fiere, nel deserto di Libia. Gli piacqui, mi prese con sè. Noi andavamo; gli mandavamo le fiere uccise; egli le imbalsamava e poi le spediva ai musei, a Londra, a Vienna... Quando ritornavo dalle cacce, siccome lui mi voleva bene sapendomi fidato, lo ajutavo a preparar le droghe, e intanto, zitto zitto, gli rubavo l’arte. Così imparai a imbalsamare; e quando lui andò via, seguitai per conto mio la caccia e la spedizione. Vi voglio raccontare una certa avventura. Un giorno, eravamo sperduti, io e lui, morti di fame e di sete. A un certo punto avvistammo alcum alberi di fico e li prendemmo d’assalto, figuratevi! Ma i fichi migliori erano in alto e non potevamo prenderli. Allora io, contadino, che feci? m’allontanai e ritornai poco dopo, munito d’una canna bella lunga; la spaccai un po’ in cima e con essa mi misi a cogliere i fichi alti più maturi, con la lagrima di latte: un miele, vi dico! L’Antinori mi guardava e si rodeva dentro. Alla fine non potè più reggere e mi gridò: «Che fai? La smetti? Vuoi farmi ammazzare dai Turchi?» Capii l’antifona. Zitto, stesi il braccio e gli porsi la canna. Andai a prenderne un’altra, e tutti e due seguitammo a rubar fichi tranquillamente. Ah, l’Antinori... mi voleva bene, e m’ajutò tanto, anche da lontano. Stetti lì più di sei anni. Poi sentii che Garibaldi era sbarcato a Marsala, volai subito in Sicilia. Sbarco a Messina; raggiungo i volontarii a Milazzo. Don Stefano Auriti mi morì tra le braccia.