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libro e della dottrina culinaria di quello. S’era dato con tutto l’impegno a questo nuovo ufficio e in breve aveva saputo contentar così bene il capitano, che questi poi, vedendolo lì lì per ammalarsi come quell’altro cuoco, spontaneamente lo aveva allogato quale sguattero in una famiglia inglese, ricchissima, domiciliata a Costantinopoli.
Ma la malattia contratta a bordo non lo aveva lasciato lungo tempo a quel posto, per un tristo accidente capitatogli uno di quei giorni. Un droghieruccio d’Alcamo, stabilito da molti anni là a Costantinopoli, dal quale egli si recava qualche volta per sentir parlare il dialetto nativo, aveva voluto avvelenarlo. Sì! Invece d’una pozione d’olio di mandorle dolci, gli aveva dato forse olio di mandorle amare. Spia dei preti, dei Sanfedisti, anche quello! Sbaglio involontario? Ma che! Ricordava bene che una volta colui aveva osato rimproverarlo acerbamente per l’avventura del francescano appeso, ch’egli, così per ridere, gli aveva narrata. Ah, ma rimessosi per miracolo, dopo circa tre mesi, dall’avvelenamento, gli aveva fatto pagar caro il delitto. Con un pugno (e Mauro mostrò sorridendo il pugno) lo aveva steso là, nella bottega. Aveva al dito un grosso anello di ferro, come un chiodo ritorto, comperato a Smirne, e con esso – senza volerlo, veh! – gli aveva sfracellato la tempia.
Ripresosi dal pauroso sbalordimento nel vederselo cascare giù tutto in un fascio sotto gli occhi, insanguinato, s’era dato alla fuga e poche ore dopo era partito con una nave che si recava a un piccolo porto dell’Asia Minore. Non ricordava più il nome del paesello di mare in cui era disceso: era d’estate e aveva trovato subito da allogarsi come bagnino.