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vecchie. Peccato! Belle femmine! Portarono il colera, vi dicevo: un’epidemia terribile! Figuratevi che a Burmula, paesettuccio, in una sola giornata, ottocento morti. Come le mosche si moriva. Ma la morte a un disgraziato che paura può fare? Io mangiavo, come niente, petronciani e pomodori: lo facevo apposta. Avevo imparato una canzonetta maltese e la cantavo giorno e notte, a cavalcioni d’una finestra. Perchè ero innamorato...

— Ah sì? Là? — domandò Dianella, sorpresa.

— Non là, — rispose Mauro. — Avevo lasciato qua, a Valsanìa, una villanella con cui facevo all’amore: Serafina... Si maritò con un altro, dopo un anno appena. E io cantavo... Volete sentire la canzonetta? Me la ricordo ancora.

Socchiuse gli occhi, buttò indietro il capo e si mise a canticchiare in falsetto, pronunciando a suo modo le parole di quella canzonetta popolare:

Ahi me kalbi, kentu giani...

Dianella lo guardava, ammirata, con un intenerimento e una dolcezza accorata, che spirava anche dal mesto ritmo di quell’arietta d’un tempo e d’un paese lontano, la quale affiorava su le labbra di quel vecchio, fievole eco della remota, avventurosa gioventù. Non sospettava minimamente sotto la ruvida scorza del Mortara la tenerezza di tali ricordi.

— Com’è bella! — disse. — Ricantatela!

Mauro, commosso, fece cenno di no, con un dito.

— Non posso; non ho voce. Sapete che vogliono dire le prime parole? Ahimè, il cuore come mi duole. Il senso delle altre non lo ricordo più. Piaceva tanto al Generale, questa canzonetta. Me la faceva can-