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tare sempre. Eh, avevo buon voce, allora... Voi guardate il leopardo? Ora vi racconto.
E seguitò a raccontarle come, dopo la morte del Generale, rimasto solo a Burmula, non volendo ritornare in Sicilia dove s’era già compromesso, si fosse recato a La Valletta. Qua, gli esiliati siciliani avrebbero voluto ajutarlo; ma egli, sapendo in che misere condizioni si trovassero, aveva rifiutato ogni soccorso e s’era messo a lavorare nel porto, come mozzo, come scaricatore, come stivatore. Mancavano le braccia, decimata la popolazione dal colera. Poi s’era imbarcato su un piroscafo inglese da fochista. Per più di sei mesi era stato sepolto lì, nel saldo ventre strepitoso della nave, ad arrostirsi al fuoco alimentato notte e giorno, senza mai sapere dove s’andasse. I macchinisti inglesi lo guardavano e ridevano – chi sa perchè – e un giorno, per forza, avevano voluto presentarlo, così tutto affumicato com’era, al capitano – pezzo d’omone sanguigno, con una barbaccia fulva che gli arrivava fin quasi ai ginocchi – e il capitano gli aveva più volte battuto la spalla, lodandolo forse per lo zelo. Egli, difatti, in tutti quei mesi, non s’era dato un momento di requie, neanche per prendere un boccone; aveva perduto l’appetito: beveva soltanto, per temprar l’arsura del corpo che, là sotto, smaniava il respiro, un po’ d’aria! Unico svago, quando si approdava in qualche porto, un vecchio libro di cucina, tutto squinternato, sul quale aveva imparato a compitare con l’ajuto del cuoco di bordo, anch’esso italiano, da lungo tempo spatriato a Malta.
Svago e tesoro, per lui, quel libro! Perchè, un giorno, il cuoco, ammalatosi gravemente, era stato sbarcato a Smirne e, in mancanza d’altri, alla prova di quest’altro fuoco era stato messo lui, erede del