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tarderanno, chi sa fino a quando, il nostro ritorno in Sicilia.

Vecchio come sono, non so nè posso più sopportare il peso di questa vita d’esilio.

Penso che non sarò più in grado di prestare il mio braccio alla Patria, quand’essa, meglio maturati gli eventi, ne avrà bisogno. Viene meno pertanto la ragione di trascinare così un’esistenza incresciosa a me, dannosa a’ miei figli.

Voi, più giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro

Gerlando Laurentano.


Dianella si volse a guardare il Mortara che, tutto ristretto in sè, con gli occhi ora strizzati, il volto contratto e una mano su la bocca, si sforzava di soffocare nel barbone abbatuffolato i singhiozzi irrompenti.

— Non la rileggevo più da anni, — mormorò quando potè parlare.

Tentennò a lungo la testa, poi prese a dire:

— Mi fece questo tradimento. Scrisse la lettera e si vestì di tutto punto, come dovesse andare a una festa da ballo. Ero in cucina; mi chiamò. “Questa lettera a Mariano Gioeni, a La Valletta„. C’erano a La Valletta gli altri esiliati siciliani, ch’erano stati tutti qua, in questa camera, prima del Quarantotto, al tempo della cospirazione. Mi pare di vederli ancora: don Giovanni Ricci-Gramitto, il poeta; don Mariano Gioeni e suo fratello don Francesco; don Francesco De Luca; don Gerlando Bianchini; don Vincenzo Barresi: tutti qua; e io sotto a far la guardia. Basta! Portai la lettera.... Come avrei potuto supporre? Quando ritornai a Burmula, lo trovai morto.