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— S’era ucciso? — domandò, intimidita, Dianella.
— Col veleno, — rispose Mauro. — Non aveva fatto neanche in tempo a tirare sul letto l’altra gamba. Come era bello! Conoscete don Ippolito? Più bello. Diritto, con un pajo d’occhi che fulminavano: un San Giorgio! Anche da vecchio, innamorava le donne.
Richiuse gli occhi e a bassa voce recitò la chiusa della lettera, che sapeva a memoria:
— Voi, più giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro Gerlando Laurentano. Vedete? E vissi io, come lui volle. E qua, sotto la lettera, che mi feci restituire da don Mariano Gioeni, ho voluto appendere, come in risposta, le mie medaglie. Ma prima di guadagnarmele! Sedete, qua; non vi stancate....
Dianella sedette sul vecchio divano. In quel punto, donna Sara Alàimo, sentendo parlare nel camerone e vedendo insolitamente l’uscio socchiuso, sporse il capo incuffiato a guardare.
— Che volete voi qua? — saltò su Mauro Mortara, come avrebbe fatto, se vivo, quel leopardo. — Non c’è nulla per voi!
— Puh! — fece donna Sara, ritraendo subito il capo. — E chi vi tocca?
Mauro corse a sprangar l’uscio.
— La strozzerei! Non la posso soffrire, non la posso vedere, questa spïaccia dei preti! S’arrischia anche a ficcare il naso qua dentro ora? Non l’aveva mai fatto! La tengono qua i preti, sapete? approfittandosi di quel babbeo di don Cosmo. I Sanfedisti, i Sanfedisti....
— Ma ci sono ancora davvero codesti Sanfedisti? — domandò Dianella con un benevolo sorriso.