Un romanzo/XXVI
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XXVI.
Pochi giorni dopo la contessa leggeva un romanzo — languidamente abbandonata nella sua sedia a bracciuoli — ma la sua mente distratta più che alle pagine che aveva sottocchio, pensava ad Olimpio.
Per la prima volta, le smanie dell’amore dilaniavano quel cuore insensibile e sotto l’arco de’ suoi occhi neri un solco profondo rivelava l’insonnia della passata notte.
L’uscio del gabinetto si schiuse e un servo in livrea annunciò:
— Il signor Roberto ***.
Ella voltò la testa vivamente:
— Dite che non ricevo.
Ma nel medesimo istante l’innamorato giovane che aveva seguito i passi del domestico si presentò sulla soglia.
Ella frenò a stento un moto di dispetto.
— Réa! — esclamò Roberto quando furono soli.
— Perchè mi chiamate col mio nome di battesimo? non mi piace.
Disse queste parole con accento duro, senza levare gli occhi dal libro.
Roberto tremò dal capo alle piante e cadendo in ginocchio:
— Vi avrei offeso senza volerlo? O non mi amate più?
Nessuna risposta.
— Parlate per carità! Dite, la mia assenza vi ha fatto dispiacere... avete pensato che potessi vivere senza di voi.... oh! ma non è vero; furono giorni d’inferno, giorni che non voglio rinnovare mai più a costo di accettare una catena ai vostri piedi! Réa, amor mio, vi chiedo scusa; infliggetemi qualunque castigo, ma lasciate che vi guardi, lasciatemi stringere la vostra mano, dite che siete ancora mia, che mi amate sempre, che mi perdonate!
— Avete un programma stampato di quello che io devo dire?
La voce della contessa era ironica e fredda. Roberto la guardava angosciato baciandole il lembo del vestito, e persuaso che quella collera fosse un dispetto amoroso soggiunse:
— Sapete quanto v’adoro! La mia vita è vostra — il mio cuore non ha palpiti che per voi — amo il mondo solo perchè il mondo vi contiene — non ho pensiero che non sia per voi — ve lo giuro!
Réa sfogliava il libro con una mano e reprimendo coll’altra uno sbadiglio, rispose:
— E chi vi chiede un esame di coscienza? Che importa a me dei vostri pensieri? Non conoscete le prime regole della conversazione — parlate esclusivamente di voi!... Raccontatemi almeno qualche novità, muojo di noja....
Roberto balzò in piedi pallido come uno spettro. Un barlume della verità gli aveva attraversato il cervello:
— Signora! — gridò — che giuoco è questo?
— Vi prego, parlate piano — ho le orecchie delicate.
— Ma vi burlate di me!
— Ciò dipende dall’espressione che volete dare alle mie parole.
— In nome di Dio spiegatevi — la mia testa si perde!
— Non fatemi scene; oggi siete un po’ esaltato. Fareste meglio a ritirarvi — discorreremo quando sarete più tranquillo.
E senza muoversi dalla sua poltrona la contessa gli tese la mano in atto di congedo.
— No! — proruppe Roberto con impeto — io non partirò di qui se non avete parlato.
La contessa lo guardò dall’alto al basso e rispose, spiccando le sillabe con affettazione:
— Vi sono dei mezzi termini che un uomo di spirito dovrebbe capire a volo, se voi non capite....
— Sono uno sciocco — grazie! Ma qualunque sia l’opinione che posso darvi del mio spirito, vi confesso che non mi ci raccapezzo. Qual’è la mia colpa ai vostri occhi? Forse perchè mi assentai tre giorni senza avvertirvi?
Réa scosse il capo negativamente — mentre un sorriso di compassione sdegnoso le correva tra labbro e labbro.
— Dunque?
— Ma chi vi ha detto che siete colpevole?
— E s’io non sono, chi lo è fra noi due?
La voce tremava nelle fauci del povero giovane; ella rispose tranquillamente.
— Io forse.
— Ah! dunque è vero?... e devo udirlo dalla vostra bocca? Réa, non mi amate più?
Ella tacque.
Roberto, fuori di sè, le si fece accanto così che il suo alito ardente le sfiorava il volto, e stringendole una mano con disperata violenza:
— Non lo credo — no, è impossibile. Volete tormentarmi. Mi amate, mi amate, dite che mi amate!
Con un superbo movimento di dignità offesa, la contessa si sciolse, si alzò, e allontanandosi dal suo ostinato amante:
— Poichè vi preme tanto saperlo — disse — ebbene, non vi amo più.
Come un fanciullo all’improvviso annunzio che sua madre è morta, Roberto scoppiò in pianto.
La contessa aveva posto la mano sulla molla dell’uscio.
— Arrestatevi! — gridò egli — non credo una parola di quanto avete detto; perchè non dovreste più amarmi? che vi ho fatto? Non si muta così in pochi giorni.... a meno che.... oh Dio — se ne amaste un altro!
— E perchè no? — fece la contessa con sfrontata audacia.
— Il suo nome! il suo nome! chiese Roberto ruggendo come un leone ferito.
— E il suo indirizzo non è vero?... siete ingenuo!
— Non ridete, signora, che per Iddio non è tempo di ridere!
— Dopo la commedia la tragedia — come v’aggrada. Ma cercate altri spettatori; io non mi sento portata a questo genere.
Così dicendo, aperse l’uscio senza gettare un solo sguardo su Roberto — a guardarlo si sarebbe spaventata; era livido!
Colle braccia strette sul petto, gli occhi cupi, rossi ancora per le lagrime sparse, egli la vide allontanarsi.
— Tutto è dunque finito? domandò con accento straziante.
— Tutto — rispose la contessa dall’altra camera.
L’uscio si chiuse e Roberto cadde sul pavimento mandando un gemito che pareva d’agonia.
Uscì da quella casa coll’animo spezzato.
Morto l’amore era per lui finita la felicità. All’amore aveva sacrificato il suo avvenire d’artista, i suoi studii, la sua ambizione di gloria — e nulla poteva oramai compensarlo perchè egli aveva tutto immolato su quell’altare.
Una febbre ardente lo fece delirare smanioso nel suo letto e sorto in piedi coll’alba, quantunque le gambe non lo reggessero, uscì nell’intento di scoprire il suo fortunato rivale.
Ricominciò a questo scopo le lunghe fazioni sulla porta della contessa, spiando ogni persona che entrava, ogni servo che usciva; aspettando il coupé azzurro e deliberato a seguirlo in una vettura da nolo. Ma per due giorni consecutivi il coupé non apparve. Allora lo prese il timore ch’ella fosse ammalata — e con quel timore gli rinacque una pazza speranza di essere amato ancora.
Una lotta angosciosa si impegnò nel suo cuore fra le illusioni svanite e le illusioni nascenti.
Volle persuadersi di avere interpretato male le parole di Réa — di aver dato troppa importanza a un capriccio di donna, a un’emicrania o ad uno stiramento di nervi.
Dopo aver vegliato tutto il giorno come una sentinella ritornò alla sera, e non potendo resistere allo strazio dell’incertezza entrò dal portinajo.
— La signora contessa?
— Non riceve.
— È ammalata?
— No.
— Ha lasciato qualche ordine per me?
— Nessuno.
— Va a teatro questa sera?
— Non lo so.
Roberto si aggrappava all’invetriata del portinajo come un naufrago a un pezzo di legno.
— Aspetta gente?
— Oh, signore — disse l’altro impazientito — questa è una portinaria, non è un confessionale.
L’infelice pittore tornò a passeggiare sull’acciottolato della strada — la speranza era svanita e i dubbii s’erano fatti più cocenti.
Verso le dieci un brougham chiuso si fermò davanti alla porta.
La bella figura di Olimpio comparve un istante sotto il riverbero del fanale — levò di tasca il portafoglio e pagò il cocchiere — il brougham ripartì donde era venuto — e Olimpio aveva fatto due passi appena sotto l’atrio, quando Roberto gli si pose davanti arrestandolo con una mano sul petto.
— Dove vai? gli disse a voce bassa ma minacciosa, voce terribile nel suo impeto represso e nello sguardo che la accompagnava.
Olimpio indietreggiò.
— Dove vai? ripetè con maggior forza Roberto.
E Olimpio a sangue freddo.
— Non ti riconosco il diritto di interrogarmi — meno poi di arrestarmi per via in un modo, lasciamelo dire, abbastanza sospetto.
— Tu vai dalla contessa!
— E perchè no? — rispose Olimpio colle medesime parole ch’ella aveva adoperate alcuni giorni prima, colla medesima impertinenza sarcastica.
— Olimpio, io t’ho sempre amato come un fratello — ma che faresti tu a un fratello che ti tradisce? Ella era la mia vita, tu lo sapevi, ella la consolazione de’ miei tristi giorni, ella il mio unico amore, e tu Caino me l’hai rapita! Oh vile, tre volte vile assassino!
Olimpio senza parlare tentò svincolarsi.
— Non fuggirai così per la fede d’iddio! Seguimi; potrei ucciderti come un miserabile — ma voglio metterti in mano un’arme e la giustizia divina giudicherà fra noi due.
— Sei pazzo! borbottò Olimpio.
— Seguimi, o non rispondo di me!
Gli occhi di Roberto gettavano fiamme; insensibilmente aveva trascinato il suo rivale fuori della porta, si trovavano nella via solitaria, debolmente rischiarata da pochi fanali.
— È un duello che cerchi?
— È la tua vita.
— Scusate se è poco! esclamò Olimpio tentando scherzare. Lasciami almeno andare pe’ fatti miei — domani poi avremo tutto l’agio di sbudellarci a vicenda.
— No, la mia vendetta non soffre indugi — e poi non mi fido di un vigliacco.
— Frena le tue parole, pazzo.
— Ah, che non v’è parola abbastanza ignominiosa per il mio disprezzo! S’io la conoscessi vorrei gettartela in volto come uno schiaffo e ti direi ladro, se i ladri non fossero migliori di te!
— Dove sono queste armi? gridò Olimpio il cui sangue cominciava a scaldarsi.
Un viottolo disabitato si apriva sulla via. Roberto ve lo trasse e cavando di tasca una di quelle rivoltelle a quattro colpi che molti uomini sogliono portare alla sera, disse:
— Ho un’arme sola, ma basterà.
— I testimonii?
— Dio.
— Comodo testimonio! ghignò Olimpio.
— Scegli! ripetè Roberto gettando in terra una moneta.
Fu un istante tremendo.
La luce lontana dei fanali pioveva sulla biondissima testa d’Olimpio che, senza cappello, pallido, colle ciglia corrugate sugli occhi profondi, le labbra strette non dava segno di sgomento.
Roberto tutto mutato in viso e agitatissimo mandava lampi dagli occhi.
— La testa per me — disse Olimpio e si chinò a raccogliere la moneta che luccicava fra i sassi.
Il vento della notte sollevava la sua lunga chioma cacciandogli sulla fronte un riccio ribelle; egli lo allontanò colla mano fissando acutamente le pupille.
La moneta mostravasi dalla parte della data. Non un muscolo del suo volto tremò; ma dalle labbra congiunte sprizzava sangue.
— Quanti passi? — domandò con voce sicura.
— Dieci — rispose Roberto sul cui volto gocciava un freddo sudore.
La distanza venne misurata scrupolosamente; si misero in posizione. Olimpio incrociò le braccia, Roberto tentò col dito il grilletto.
— Siamo pronti?
— Pronti.
Era pur bello Olimpio nella sua calma! e Roberto che lo aveva tanto amato, rifece col pensiero i primi anni della loro amicizia — l’affetto cieco e fidente, le libere espansioni, le dolci ore insieme trascorse. Ripensò alla sua vita solitaria divisa fra l’amico e il lavoro. Il suo cuore già piegava intenerito, già l’arme omicida gli tremava nella destra; ma l’imagine di Réa superba e schernitrice gli passò davanti, e l’orribile tradimento ridestando tutto il suo odio gli infuse una disperata energia.
Aperse le labbra per pronunciare non so quali parole, ma il colpo partì — Olimpio girando su sè stesso cadde supino.
La palla gli aveva attraversato il cuore.
Il passo misurato di due carabinieri ruppe lo spaventoso silenzio.
Roberto coi capelli irti si inginocchiò presso il cadavere dell’amico. Un largo rivo di sangue gli usciva dalla bocca e con un rantolo indistinto esalò l’ultimo sospiro.
— La morte ha cancellato la colpa! — mormorò Roberto baciandolo in fronte. — Dio ci usi misericordia!
Si alzò; tese il braccio armato del revolver e appuntandoselo alle tempie fece fuoco.