Un romanzo/XV
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XV.
Dopo poche settimane Giulia si accorse di avere già sfruttato le novità della campagna.
Novembre si avanzava freddo, uggioso, col suo corteggio di nebbie, di venti e di pioggia. I pioppi, vedovi di foglie, lasciavano nuda e deserta quella vecchia casa, dalle cui tegole consunte filtrava l’acqua lungo i muri, disegnando striscie umidiccie nel salottino ove Giulia s’era ritirata al primo comparire del cattivo tempo.
Dalle finestre l’occhio spaziava sui campi devastati e sui sentieri deserti; il passo pesante di un contadino e il muggito di qualche bue condotto al macello rompevano soli il silenzio di quelle vaste pianure lombarde, così fertili ma così monotone.
Olimpio non era mai in casa: la visita obbligatoria al podere, impartire ordini, sorvegliare i lavori della seminagione, questa o quella cosa, un affaruccio, un appuntamento, mille circostanze lo tenevano fuori. Alla sera com’è mai possibile andare a letto alle nove? E, d’altra parte, si può forse aspettare la mezzanotte a tu per tu colla propria moglie? Vicini non ce n’era; il medico era a tre miglia lontano; il curato aveva la gotta; conversazione in casa tornava inutile sognarla.
Finito il pranzo (vi immaginate, un pranzo a due dove l’amore è sbandito, e l’amicizia non ha mai potuto entrare?), per Giulia era un supplizio, per Olimpio una noja. Finito, dunque, questo genere di pranzo, Olimpio si dondolava un po’ sulla sedia, guardava fuori, sbadigliava (mettendo la mano sulla bocca, oh sì), poi, come spinto da una forza indomita, balzava in piedi esclamando:
— Ho bisogno di muovermi, di pigliare un po’ d’aria; esco per un’oretta.
L’oretta, invece di sessanta minuti, ne contava generalmente cento ottanta.
I due sposi si erano divisi di camera. Olimpio pretendeva di non poter dormire con un’altra persona, era diventato di sonno leggiero, il minimo rumore lo disturbava.
Dopo questa deliberazione, la solitudine di Giulia fu completa.
Lento lento, quasi insensibile, un rivolgimento profondo succedeva in quel povero cuore; le illusioni strozzate al loro nascere, l’amore sfregiato, il sentimento deriso, la voluttà resa impotente, tutte le fibre della passione e dell’affetto lacerate e divelte, avevano accumulato cenere e ghiaccio dove prima ardeva il fuoco della giovinezza.
Uno scoramento, un disgusto di tutto; sbolliti i santi entusiasmi, morta la fiducia, e con essa la speranza, Giulia languiva in una perpetua tristezza.
La reazione non era nel suo carattere. Dolce e timida creatura fuggiva i moti violenti; preferiva tacere e soffocare anzichè lamentarsi. Ella aveva un tesoro d’amore nel suo cuoricino — non fu compresa, non fu apprezzata, non fu amata — e si ripiegò su sè stessa, in silenzio, umilmente altera.
In quel rapido passaggio dalla spensieratezza giovanile ai dolori e ai disinganni, la bellezza di Giulia aveva subìto uno strano cambiamento. Sottile, piccina, le sue forme erano ancora infantili, erano graziose e sobrie; ma il pallore dominava sul suo volto adolescente, e i suoi grandi occhi ingenui nuotavano inconsapevoli in un’onda di languore.
Nelle interminabili sere di quel triste autunno ravvolta in una sciarpa bianca, come una statua nel suo velo, ella si appoggiava al davanzale della finestra, e muta, immobile, per ore ed ore, contemplava le stelle — confidenti discrete di tutti gli infelici.
E chi può dire fin dove spaziava il suo pensiero angosciato? Chi ardirebbe seguirla in quel turbine vorticoso di desiderii, di aspirazioni, di memorie, di rimpianti?...
In una di quelle sere più freddo e più acuto fischiava il vento nei rami dei pioppi. Giulia piangeva al davanzale della sua finestra, mentre la serva, accoccolata in un angolo della camera, dormicchiava sulla calza.
Giulia aveva pensato a sua madre, e una infinita malinconia le struggeva il cuore.
— Signora, disse la serva, a star sempre così esposta all’umido finirà per ammalarsi.
Giulia si mosse, ma in quel medesimo istante il suo sguardo cadendo sul bruno filare dei pioppi avvertì un’ombra che fuggiva.
L’apparizione era insolita e, in quel luogo deserto, anche paurosa. Gettò un grido, e nel ritirarsi rapidamente, côlta da sgomento, lasciò cadere il fazzoletto che teneva in mano tutto bagnato di lagrime.
— Che è stato? domandò la serva.
— Un uomo, dietro quel grosso pioppo...
— Sarà qualche contadino che avrà smarrito il sentiero.
— No, non è un contadino. Ha un lungo mantello nero, e l’aria, il portamento lo dicono di città.
— Fosse un ladro!
Giulia non rispose, ma il medesimo sospetto la agitava, e con quel dubbio le fu impossibile mettersi a letto. Chiamò il giardiniere ed un altro lavorante che dormiva in casa, invitandoli a fare un giro di perlustrazione nei dintorni.
I due uomini si armarono di zappe e di nodosi bastoni, un po’ increduli, per altro, sul conto del ladro.
La serva, che li accompagnò sulla porta col lume, disse loro:
— Cercate sotto la finestra il fazzoletto della padrona.
Mezz’ora dopo ritornarono senza aver trovato nessuna traccia del ladro e — caso singolare — nemmeno del fazzoletto.
— Dunque era proprio un ladro! esclamò la serva.
— Un ladro di fazzoletti?... fece il giardiniere stringendosi nelle spalle e crollando il capo.
Giulia non sapeva che pensare. Per alcuni giorni si parlò moltissimo dell’avventura, si fecero indagini, si domandarono informazioni, ma il mistero restò un mistero.
Alla fine nessuno vi pensò più. Giulia tenne chiusa la finestra, ed essendo cominciato dicembre fece portare la sua poltroncina accanto al fuoco, ricominciando sulle bragie la contemplazione che non poteva più fare sulle stelle.
Era una vita senza gioje, ma era una vita tranquilla; Giulia l’accettò senza mormorare, ed Olimpio pensò che non valeva la pena di occuparsi d’una donna che si sapeva adattare con tanto garbo all’oblìo.
Per acchetare i rimorsi, se mai ne avesse, teneva in pronto un discorsetto di questo genere:
— Mia moglie è fredda, non ha passione, non ha slancio; siamo agli antipodi l’uno dell’altra; è buona, è docile, ma è senza spirito affatto; non possiamo comprenderci assolutamente. Io le lascio piena libertà di fare quello che vuole, non le contrasto nulla, non la rimprovero mai — essa è felice, senza dubbio — ma io mi sacrifico. Questa vita insulsa non è fatta per me; ho bisogno di moto, di emozioni; per conservarle la dote mi sono ridotto a fare il contadino... Ah! è un po’ troppo — i miei doveri non arrivano fin là. Sono soverchiamente compiacente — Ed ella non capisce nulla! — non si commuove mai: sorride e ricama il suo canovaccio. È una donna insensibile, e credo di non sbagliare nel supporle una intelligenza limitatissima.
Forte di questi bei ragionamenti chiamava Max — il suo cane — e s’avviava all’osteria della luna.
Eravi colà un tenero cuore che palpitava per lui — un cuore ingenuo che balzava quando il suo passo sicuro faceva risuonare l’ammattonato, quando la sua voce limpida e piena rispondeva sotto la volta della povera cucina, quando la sua bionda figura aristocratica si disegnava sulle pareti annerite.
Maria, la figlia dell’oste, aveva — come tutte le ragazze hanno — uno spasimante. Si chiamava Rocco, lavorava in campagna e a tempo avanzato faceva il tessitore; la fanciulla lo guardava di buon occhio, si susurravano prossime le nozze — ma Olimpio comparve sull’orizzonte di quei placidi amori e Imene spaurito soffiò la face.
Maria non aveva una bellezza speciale; era una contadina delle solite, colla solita rigogliosa gioventù e il solito germe d’Eva — era ignorante, era goffa se volete, ma era donna!
Amava Rocco un tantino, per consuetudine, per non avere di meglio, e poi perchè infine qualcuno bisognava amare; se no l’avrebbero canzonata e i monelli del paese non avrebbero mancato di seminare il cruschello davanti alla sua porta. Sì, ella amava Rocco; dormiva i suoi sonni tranquilli, rideva, scherzava colle compagne; nascondeva il fazzoletto al vecchio scaccino e dava dei buffetti sul naso alla sua gatta — tuttavia amava.
Che era dunque quel demone che da molte notti danzava intorno ai suoi sonni agitati? perchè impallidivano le sue guancie? perchè sospirava, e perchè le amiche, le celie, i sollazzi le venivano a noja?
Onde di fuoco le scorrevano le vene e subiti rossori le imporporavano la fronte. Perchè quelle smanie, perchè quei tremiti, o Maria?...
Rocco, una volta caro, le riusciva molesto, e il povero ragazzo dava del capo nel muro per capirne qualche cosa; la solitudine, prima tanto detestata, erale adesso diventata amica, e per lunghe ore si chiudeva nella sua cameretta. Il padre la credeva intenta alle faccende domestiche e al suo corredo di sposa — ma chi avesse guardato pel buco della toppa sarebbe stato molto sorpreso di vederla appoggiata alla sponda del letto, col capo fra le mani, meditabonda — e lagrime cocenti staccarsi dalle sue palpebre e caderle in grembo, quasi a sua insaputa.
L’amore, il terribile amore ardeva nel suo seno e come vittima colpita a morte le era scritto in volto il suo destino.
Ella, inesperta, lo ignorava. Il suo cuore era già tutto in fiamme quando il pudore femminile le diede il primo allarme — e fu la prima lagrima che la fece accorta.
Nella gioja l’amore è sempre fiacco e snervato; il dolore lo fa potente. Non si conosce mai bene l’estensione d’un affetto finchè non ce lo svela il disinganno.
Ella non aveva pensato chi fosse colui che prendeva tanta parte de’ suoi pensieri; le appariva come una visione splendida, come un raggio in un nebuloso avvenire, ombra più che realtà, angelo più che uomo.
Un giorno la sua amica intima — quella che aveva già osservato Olimpio nascostamente dietro le fessure dell’uscio — venne a dirle, con tutta la premura che hanno le donne di raccontare una novità, che quel bel signore biondo aveva moglie e....
Che importava il resto a Maria?
Il colpo era dato, acuto, profondissimo. A quella stretta di cuore la misera fanciulla vide l’abisso in cui era caduta, sentì che amava perdutamente, che le era impossibile dopo sì vertiginosa altezza tornare all’umiltà delle nozze progettate.