Un romanzo/XIV
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XIV.
Cogli ultimi giorni d’ottobre Giulia lasciò Milano definitivamente.
Il suo bagaglio era modesto; aveva venduto le gioje, i merletti e i velluti; Olimpio le aveva detto che dopo due anni di vita campestre sarebbero tornati in città più ricchi di prima, e Giulia, che non aveva ancora perduto del tutto la fede in suo marito, si separò senza molto dolore da quegli oggetti tanto cari per una donna — sia pur dessa sciocca o spiritosa, elegante o plebea, l’amore per il lusso è un tasto sempre sensibile sul suo cuore — e Giulia era abituata al lusso.
Partirono.
La stagione era un po’ in ritardo; da mezzogiorno alle quattro il sole scottava, gli alberi e la campagna presentavano un lieto aspetto.
Giulia sorrideva — a sedici anni non è difficile. Prese possesso gajamente della sua nuova dimora e volle subito stringere conoscenza coi polli e coi tacchini.
Il cittadino che va in campagna si sente invasato dal bisogno d’aria e di moto. Ella osservava tutto, il fieno e le anitre, la stalla e il granajo. Attraversando i prati umidi sollevava con precauzione il suo vestito d’alpagas e posava diffidente sul terreno molle il suo stivaletto ricamato.
Sulle prime aveva dei ribrezzi estetici per il fango e per le pozzanghere; aveva delle paure infantili per le giovenche che scorazzavano sui sentieri.
Ma a poco a poco si abituò e vi prese gusto.
Quei sentieri si assomigliavano tutti. Lungo i ruscelli che li costeggiavano, i tronchi dei pioppi ritti e allineati somigliavano una lunga schiera di fantaccini in un giorno di rivista.
Io amo il pioppo, che si innalza superbo scuotendo al vento la vaporosa chioma; lo amo quando ondeggia mollemente in una calda giornata di luglio, e che il sole accarezzando le sue estreme foglie, le tinge di un verde pallido ed argentato; lo amo quando fischia sibillando in una cupa notte d’autunno agitando come un fantasma le sue braccia bizzarre sul suo tronco immobile.
I bianchi salici, sempre accasciati anche quando non piangono, immagine perpetua di un dolore incompreso, si curvavano umilmente davanti all’altera maestà dei pioppi e projettavano sulla strada ombre tremolanti ed incerte, fra cui guizzavano allegre cavallette dalle lunghe gambe acrobatiche, mosche dorate e coleotteri brillanti di smeraldo.
Sul margine dei ruscelli grandi farfalle azzurre aleggiavano sfiorando l’acqua, e sott’esse udivasi tratto tratto il tonfo di una rana che si buttava a nuoto.
Tra i sassi, tra la corteccia degli alberi, cui l’edera pietosa copriva le nudità vetuste, correvano le magre lucertole inseguendo i moscerini, e sulla punta flessibile dei fili d’erba tremolavano paurose libellule dai grandi occhi estatici.
Nessuna voce umana rompeva quel silenzio; ma le foglie avevano dei susurri eloquenti, l’acqua un mormorio tenero e melodioso come il ritornello d’una canzone d’amore.
Ogni ombra di cespuglio copriva un dolce mistero, e le cicale, dondolandosi abbracciate sui rami, cadendo a due a due nel calice dei fiori, dicevano chiaramente che la vita ferveva rigogliosa in quella solitudine.
Giulia raccolse dei fiorellini di malva, delle ghirlande d’edera, dei sassolini bianchi e tondi, delle ghiandine lucide, una intera collezione di cosuccie graziose, effimere e inservibili.
Olimpio, da parte sua, s’era già fatto un amico in paese.
Avverto che amico è un modo di dire; e paese anche.
La sostanza è questa. A un mezzo chilometro circa dall’abitato, sulla via maestra, c’era un’osteria rinomata fra i carrettieri e fra quanti nei dintorni avevano voglia di sedersi a loro agio sotto un pergolato massiccio o negli angoli di un immenso camino a cappa sporgente, con un buon litro di vinello nostrano e con una buona pipa.
Le donne non comprendono e non comprenderanno mai il piacere che prova un uomo, per educato e per cittadino che sia, a sdraiarsi su una dura panca d’osteria, a mettere tra i labbri un lungo tubo di ciliegio, e a sorbirsi placidamente un nettare molto inferiore a quello che voi stessa gli offrite, amabile lettrice, in una bottiglia incapucciata d’argento, e su una poltrona di velluto a molle.
«Perchè non starei a mio agio in una osteria?» diceva sir John Falstaff scuotendo in un accesso di risa sonore «il suo largo torace gonfio di vin di Spagna.»
Ci si trova tanto bene, senza etichetta, senza guanti, senza cravatta, magari; alla buona, là, in confidenza! E poi si gioca, passate le dieci, una partitella di quella adorabile mora, sulla quale, voi, madama, arricciate il vostro naso aristocratico.
Cinque! Otto! Tre! Tutti!
I polmoni si allargano, i cervelli si riscaldano, i volti sono rubicondi, e i cuori contenti.
Un po’ di vino corre sul tavolo tarlato. Urrà!! Viva l’allegria.
L’oste della Luna era un ometto rubizzo (avete mai visto un oste allampanato?) con una bocca più larga di quella della sua insegna, e un par di guancie tonde e paffute, ch’era un piacere a guardarle.
— Hai spillato la botte nuova? — disse Olimpio presentandosi sulla soglia, di cui la sua alta statura e il cappello accuminato occupavano tutto il vano.
— Eh! eh! — fece l’oste con un certo suo risolino particolare — a spillare il vin nuovo c’è sempre tempo. Eh! eh! il vino nuovo mette i dolori di pancia.
Avverto i lettori sensibili ch’egli aveva un fusto di magentino collo spunto, e naturalmente finchè il magentino non fosse smaltito l’altro doveva restare acerbo.
Pare che Olimpio fosse al fatto di questa circostanza, perchè rispose:
— Siamo noi femminuccie o vecchi rimbambiti, da preoccuparci di tali inezie? E poi c’è il proverbio: per San Martino è vecchio il vino. Dammi dunque il tuo migliore e serba l’altro per gli avventori della domenica.
L’oste trottò chetamente in cantina.
Intanto, dietro le fessure dell’uscio che metteva in corte, una testa curiosa di fanciulla spingeva nella camera due pupille indagatrici; dietro a lei, un’altra fanciulla, tirandola per la gonna, mormorava:
— Lo hai veduto?
— Aspetta un po’.
— Fa presto!
— Il suo tempo ci vuole. To’, mi piace; è un bel giovane. Ed io aveva l’opinione che i signori di città fossero tutti gialli come cetrioli!... in fede mia costui è bello, molto più bello del tuo spasimante Rocco...
— Taci, dunque, finiscila! — esclamò con accento leggermente stizzoso l’altra fanciulla, che era — ve lo dico senza preamboli — la figlia dell’oste.
— Sei stata tu a chiamarmi per farmi vedere il forestiero, e adesso non vuoi che lo guardi! Non vo’ mica mangiarlo, veh!
— Che bei baffi biondi! — disse l’altra, tentando a sua volta di spingere lo sguardo tra le fessure dell’uscio.
— E che occhi!
— Mi fanno un effetto...
— Osserva che cappello singolare.
— Vedi che mano piccola...
— Oh! la mano poi, non conta niente.
— Al contrario. I signori si vantano di una mano piccola e bianca; non siamo che noi contadini...
L’osservazione malinconica della figlia dell’oste venne interrotta dalla sua amica:
— Dio! che brillante sul dito — sembra una stella. In verità, questo forestiero mi ha l’aria di un principe; lo conosci tu?
— È già venuto qualche volta da noi, ma io non gli ho mai parlato. Credo sia un signore di Milano che ha comperato fondi quaggiù.
Una bara carica di grano entrava cigolando dal portone dell’osteria. L’oste, che saliva in quel punto col mezzo litro d’Olimpio, la vide, e chiamando la figlia:
— Porta il vino a quel signore; io do una mano ai cavalli.
La ragazza diventò rossa come una melagrana. Istintivamente lisciò con una mano i capelli, coll’altra prese il fiasco, e s’avviò senza dir parola.
L’amica, che aveva già squadrato Olimpio dalla testa fino ai piedi, si affrettò a correre in paese per divulgarne i dettagli nel piccolo crocchio pettegolo delle sue compagne.
Dicono che le donne si accorgono subito dell’impressione favorevole che producono i loro vezzi; eh! ma andate là che gli uomini non si ingannano.
Olimpio guardava sorridendo quella fanciulla, che si avanzava timida, vergognosa, castamente schietta nel suo pudico rossore — si compiaceva del suo imbarazzo e decise di prolungarlo.
— Qua, bella ragazza, versami da bere!
Egli teneva fissi su lei i grandi occhi magnetici — ella versò il vino fuori del bicchiere.
— Che diavolo! non hai il polso fermo. Siediti, ti rimetterai; bevi con me.
— Io non bevo, signore.
Per mettere fuori queste parole, aveva dovuto fare un gran sforzo; si sentiva venir meno, e non capiva perchè.
— Come ti chiami?
— Maria.
— Mal...! tutte le donne portano dunque questo nome? — mormorò Olimpio corrugando la fronte. — Non mi piace. Ti chiamerò Marietta; è più grazioso.
— Come vuole il signore.
— E quanti anni hai, bella Marietta.
— Diciotto a Pasqua di rose.
— Sei molto giovane.
Marietta abbassò il capo.
— E sei molto bella!
Questo complimento, Olimpio, lo bisbigliò quasi nell’orecchio della fanciulla — tanto vicino, che l’estrema punta de’ suoi baffi biondi le accarezzò la guancia.
— Maria! — chiamò di fuori la voce dell’oste.
Ella scomparve.
Olimpio terminò di bere tranquillamente il suo mezzo litro; si alzò con indolenza, pagò, e uscì zufolando: La donna è mobile...
Celata dietro le griglie della sua cameretta, la figlia dell’oste lo seguì con un lungo sguardo.