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voce limpida e piena rispondeva sotto la volta della povera cucina, quando la sua bionda figura aristocratica si disegnava sulle pareti annerite.

Maria, la figlia dell’oste, aveva — come tutte le ragazze hanno — uno spasimante. Si chiamava Rocco, lavorava in campagna e a tempo avanzato faceva il tessitore; la fanciulla lo guardava di buon occhio, si sburravano prossime le nozze — ma Olimpio comparve sull’orizzonte di quei placidi amori e Imene spaurito soffiò la face.

Maria non aveva una bellezza speciale; era una contadina delle solite, colla solita rigogliosa gioventù e il solito germe d’Eva — era ignorante, era goffa se volete, ma era donna!

Amava Rocco un tantino, per consuetudine, per non avere di meglio, e poi perchè infine qualcuno bisognava amare; se no l’avrebbero canzonata e i monelli del paese non avrebbero mancato di seminare il cruschello davanti alla sua porta. Sì, ella amava Rocco; dormiva i suoi sonni tranquilli, rideva, scherzava colle compagne; nascondeva il fazzoletto al vecchio scaccino e dava dei buffetti sul naso alla sua gatta — tuttavia amava.

Che era dunque quel demone che da molte notti danzava intorno ai suoi sonni agitati? perchè impallidivano le sue guancie? perchè sospirava, e perchè le amiche, le celie, i sollazzi le venivano a noja?