Un dramma nell'Oceano Pacifico/25. La banda di Bill
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Capitolo Ventesimoquinto.
La banda di Bill.
Durante la notte, nel villaggio del re bianco regnò una straordinaria animazione; i guerrieri, che accampavano sulla piazza, non chiusero un occhio. Si udivano chiacchierare, gridare, suonare le loro conche marine, andare e venire come se fossero impazienti di partire per le coste settentrionali dell’isola, dove contavano di fare chi sa mai quale banchetto mostruoso.
Di quando in quando giungevano dai villaggi più lontani altre bande di guerrieri, i quali facevano la loro entrata nella capitale con un baccano indiavolato. Si capiva che l’entusiasmo era al colmo, e che tutti volevano prender parte alla spedizione, essendo la guerra quasi un divertimento pei popoli selvaggi, anzi una festa.
All’alba Collin, il capitano e i marinai erano in piedi, pronti a partire. Quando comparvero sulla piazza, furono accolti con grida entusiastiche.
Quasi trecento guerrieri, armati di mazze, di lancie, di scuri di pietra, di archi, erano schierati dinanzi alla capanna coi loro capi alla testa.
— Partiamo, — disse il capitano abbracciando Anna. — Non temere, figlia mia, che torneremo tutti sani e salvi. Il nostro numero è tale da costringere i forzati alla resa, senza bruciare molta polvere.
— Sii prudente, padre mio, — disse la giovanetta commossa. — Non ho che te sulla terra, e se tu venissi ucciso, non so cosa accadrebbe di me, abbandonata su quest’isola, fra degli antropofagi.
— Ci saremo noi, miss, — rispose Collin. — Coi nostri petti faremo scudo al padre vostro.
— Non vi sarà bisogno, tenente, — disse il capitano. — I forzati non opporranno molta resistenza.
— Koturè! — gridò Collin.
Il selvaggio si fece innanzi.
— Lascio questa donna sotto la tua protezione, — gli disse il re. — Bada che è più preziosa del mio trono, e ti avverto che se ella avrà da lagnarsi di te o dei tuoi, faccio tuonare il cannone sul vostro villaggio e lo distruggo da cima a fondo.
— Per toccarla bisognerà che mi uccidano, — rispose il selvaggio. — Questa donna è tabù (cioè: sacra, inviolabile).
— Sta bene; partiamo! —
Il capitano abbracciò un’ultima volta Anna, e la schiera lasciò il villaggio, accompagnata per qualche tratto dalla rimanente popolazione.
Paowang col fratello, e dodici dei più valenti guerrieri, aprivano la marcia; dietro veniva il piccolo drappello degli uomini bianchi, poi tutti gli altri disposti su una doppia fila. Il cannoncino, portato a braccia da quattro uomini che si scambiavano ogni tratto, veniva ultimo.
La spedizione discese il versante opposto della montagna, aprendosi il passo a colpi di scure, attraverso i fitti boschi; discese in una valle stretta, ombreggiata da un numero infinito di banani che si piegavano sotto il peso dei loro giganteschi grappoli, e interrotta qua e là da piantagioni di canne di zucchero.
Paowang si orizzontò col vulcano, il cui cratere vomitava sempre fiamme, fumo e pezzi di rocce ardenti, quindi condusse la truppa attraverso alle piantagioni per rimontare una collina.
— Sono vicini al vulcano i miei nemici? — chiese Collin, raggiungendo la guida.
— A poca distanza — rispose l’isolano.
— Allora non accampano sulla spiaggia.
— Il mare è lontano dalla caverna che essi abitano.
— E perchè si sono così allontanati?
— Perchè quella costa è quasi priva di alberi. Devono essersi allontanati per trovare un grosso tronco da scavare.
— Comprendo — rispose Collin. — Meglio per noi e peggio per loro. Bada però, Paowang, che se ci scoprono fuggiranno nei boschi.
— Ci avvicineremo con prudenza, capo. Quando ci vedranno saranno ormai circondati.
— È isolata la loro caverna?
— Si trova ai piedi di una collinetta.
— È boscosa l’altura?
— Solamente il versante opposto.
Alle otto del mattino, dopo una marcia di tre ore, salendo e scendendo colline e attraversando vallate e burroni, Paowang si arrestò ai piedi del vulcano.
— Ci siamo? — chiese Collin.
— Fra breve — rispose l’isolano. — Che il grosso della truppa rimanga qui, e noi coi vostri amici bianchi raggiungiamo la vetta di quella collina.
Fecero sdraiare le truppe fra le macchie raccomandando a tutti il più profondo silenzio; poi il capitano, Collin e Paowang salirono l’altura cacciandosi fra i cespugli e gli alberi. In meno di venti minuti raggiunsero la cima e di là girarono lo sguardo sul paese circostante.
All’est, a una distanza di un miglio e mezzo, si vedeva l’Oceano le cui ondate si frangevano con fragore contro la spiaggia; in faccia a loro s’alzava il vulcano avvolto fra nuvoloni di fumo e di scintille, che di quando in quando il vento lacerava lasciando vedere l’immensa colonna di fuoco che erompeva dal cratere, e all’ovest sorgeva una piccola altura addossata a un colle, priva di vegetazione da un lato, ma coperta dall’altro da fitte macchie e da gruppi di alberi di cocco e di fichi.
— Si vedono? — chiesero ansiosamente Collin e il capitano.
— Sì, — rispose l’isolano, dopo alcuni istanti di acuta osservazione. — Eccoli laggiù.
— Dove?... dove?...
— Ai piedi dell’altura.
Il capitano e Collin guardarono nella direzione indicata, ed infatti scorsero sette uomini, sette marinai, a giudicarli alle vesti che indossavano, intenti a lavorare un tronco d’albero di dimensioni gigantesche, per trasformarlo senza dubbio in un canotto.
— Sono essi! — esclamò il capitano. — Ecco là Mac Bjorn che dirige il lavoro; quello corpulento è Mac Doil, il terzo è O’Donnel, il quarto Brown, il quinto, quello che manovra la scure, è Dikens, il sesto è Kingston e l’altro è Welker.
— Ma dov’è l’ottavo, l’infame Bill? — chiese Collin coi denti stretti.
— Eccolo là, sdraiato ai piedi di quel banano — rispose il capitano. — Il miserabile è ancora vivo, malgrado le sue due ferite.
Collin aprì il cespuglio che li nascondeva e guardò. Infatti, sdraiato all’ombra di un banano, vide l’ottavo forzato che riconobbe subito.
— Bill! — esclamò con inesprimibile accento d’odio. — A noi due, furfante!
— E la caverna? — chiese il capitano.
— Non vedete quell’apertura? — rispose il tenente. — Guardate là, presso quel cespuglio.
— La vedo.
— Come disporremo i nostri uomini?
— Paowang con cento uomini s’imboscherà fra quei cespugli che si estendono verso l’est; suo fratello, con altrettanti, si celerà in mezzo a quel bosco di fichi che si stende verso l’ovest, e noi prenderemo posto dinanzi, fra quelle macchie. Se i forzati saliranno la collina, ci riuscirà facile ad allargare le tre bande e accerchiarla.
— Vado a dare gli ordini necessari — disse Collin. — Aspettatemi qui: poi scenderemo attraverso a questo bosco e prenderemo posto dinanzi alla collina.
Il tenente e Paowang discesero l’altura, e il capitano rimase in osservazione.
Mezz’ora dopo, Collin era di ritorno accompagnato dai marinai che portavano il cannoncino e da una cinquantina di guerrieri, scelti fra i più valorosi.
— Sono partiti gli altri? — gli chiese il capitano.
— Fra pochi minuti saranno anche a posto — rispose il tenente. — Scendiamo, capitano.
Tenendosi al coperto dai cespugli attraversarono l’altura, e passando fra i boschi raggiunsero il piano calandosi in mezzo a due immensi fichi banani, che da sè soli formavano una piccola foresta.
Asthor postò il cannoncino dinanzi all’altura puntandolo verso la caverna, e Collin distese i suoi guerrieri a destra e a sinistra, appiattandoli dietro ai numerosi tronchi dei fichi colossali.
Avevano appena terminato quei preparativi di combattimento, quando si videro i forzati interrompere bruscamente il loro lavoro, guardare all’intorno con visibile sospetto, quindi fuggire precipitosamente verso la caverna preceduti da Bill che zoppicava.
— Fulmini e lampi! — esclamò Asthor, che stava caricando il pezzo. — Ci hanno scoperti!...
— Meglio così — rispose Collin. — Ora non possono più scapparci.
Così dicendo, sparò un colpo di fucile in direzione della grotta.
A quel segnale urla feroci s’alzarono nei boschi che circondavano l’altura, e si videro apparire i selvaggi i quali agitavano furiosamente le loro armi, impazienti di venire alle mani.
— Intimiamo la resa — disse il capitano.
— Quelle canaglie non si arrenderanno — rispose il pilota.
— Guarda! Guarda! — esclamarono Fulton e Mariland.
Un forzato era uscito dalla caverna tenendo in mano un fucile e cercava di rendersi conto di ciò che stava per accadere. Senza dubbio, non sapendo ancora chi erano gli assalitori, doveva essere sorpreso di aver udito, fra quei selvaggi clamori, un colpo di fucile che annunciava la presenza di uomini bianchi.
— Chi vive? — gridò. — Amici o nemici?
— Sono io, mastro Brown! — esclamò Hill, uscendo dal bosco. — Mi riconosci?...
Il forzato nel vedere il capitano della Nuova Georgia che credeva ormai morto o molto lontano, retrocesse bruscamente e lo guardò con due occhi che parevano quelli d’un pazzo.
— I morti ritornano! — balbettò.
— Sì, ma per appiccarvi tutti!...
— E cosa volete? — chiese il miserabile, pallido come un morto.
— Appiccarvi tutti!... — risposero i naufraghi, uscendo dalle macchie.
— Prima vi bisogna il nostro permesso — gridò una voce beffarda.
Mac Bjorn, l’antipatico luogotenente di Bill, era comparso sul limitare della caverna e guardava sogghignando, con una insolente bravata, gli ultimi superstiti dell’incendio e dell’assalto spaventevole delle tigri.
— Mille folgori! — riprese egli. — Bisogna dire che avete la pelle dura, capitano, per trovarvi qui ancora in ottima salute; ma vi accerto che è dura anche la nostra e che la cravatta di canapa che dovrebbe appiccarci non è ancora stata filata. Orsù, in ritirata, Brown, e bada alle palle!... —
Il pilota e Fulton, furiosi per l’insolenza e l’ironia di quel furfante, fecero fuoco, ma il forzato con un balzo si rifugiò nella caverna, seguíto subito da Brown.
— Vi prenderemo, state certi! — gridò Collin. — Orsù, a posto di combattimento!... —
Tre o quattro colpi di fucile partirono dalla caverna, ma il tenente ed il capitano avevano avuto tempo di ripararsi dietro ai tronchi dei fichi banani. I selvaggi udendo quelle fucilate, emisero spaventevoli vociferazioni e risposero con una nube di frecce, ma senza alcun risultato, essendo i forzati solidamente trincerati e nascosti dietro a enormi pezzi di roccia, che avevano fatto rotolare dinanzi al loro fortino.
— Bah! Non sarà coi vostri stuzzicadenti che li farete sloggiare, — disse il pilota. — Ci vuole della mitraglia per quei furfanti, ma ci siamo noi, e fra poco li faremo cantare, ma non di piacere. —
Puntò il cannoncino e lanciò la prima scarica le cui palle scrosciarono contro le roccie. Nella caverna si udirono urla di furore e una voce, quella di Brown, che gridava:
— Son morto!...
— Quello ha cantato, — disse il pilota. — Un furfante di meno che ci darà da fare.
— Fuoco! — comandò Collin.
Le carabine cominciarono a fischiare mescendo le loro acute detonazioni a quelle sonore del piccolo pezzo, ai sibili delle frecce e alle vociferazioni dei selvaggi.
I forzati però, solidamente trincerati, non si sgomentavano e opponevano una fiera resistenza, rispondendo colpo per colpo e abbattendo con matematica precisione i selvaggi che osavano lasciare la macchia per lanciare le loro zagaglie contro l’apertura.
Di quando in quando, attraverso al fumo che usciva dalla nera galleria, appariva qualche testa, che subito tornava a nascondersi, e si udiva la voce sarcastica di Mac Bjorn gridare:
— Fuoco su quei dannati americani! Mirate giusto e picchiate sodo!... —
Invano Asthor lanciava la mitraglia del suo pezzo proprio dentro la caverna sgretolando le rocce; invano il capitano, Collin e i tre marinai scaricavano senza posa le loro carabine e i selvaggi scagliavano lance e freccie; i forzati resistevano con disperata energia e non accennavano ad arrendersi e, quello che è peggio, non cadevano, riparati come erano.
Già dodici o quindici isolani giacevano senza vita fra i cespugli, stecchiti dal piombo di quei ribaldi, quando il capitano tuonò:
— Finalmente sono nostri!...
— Si arrendono? — chiese Collin.
— No, ma li costringeremo.
— In qual modo?
— Affumicandoli.
— Asthor, lascia il cannone; prendi dieci uomini e va’ a incendiare i cespugli, che stanno dinanzi alla caverna.
— Pronto! Capitano — rispose il pilota.
— Bada alle palle!
— Non mi coglieranno; ho già scelta una via sicura.