Trezzo e il suo castello/XI
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Capitolo XI.
Or s’intrecciano ad un tempo alla storia del nostro castello ed alle vicende generali d’Italia nell’ultimo seiennio del dominio spagnuolo, i casi romanzeschi del famoso marchese Cesare Pagani. La cospicua sua famiglia vuolsi originaria della Valsolda, e un ramo d’essa stabilitosi in Milano nei secolo XIV consegui il marchesato, e fu quello appunto che nel 1635 dava i natali a Cesare. Il quale, laureato a 22 anni, percorse una brillante carriera ne’ publici impieghi, come colui che una mente perspicace e non commune dottrina accoppiava, oltre la nobiltà, ricchezze ed ambizione. Auditore del castello e della milizia forense, poi vicario di giustizia e avvocato generale del Fisco, nel 1686 fu creato senatore. Divenne inoltre residente in Milano dell’elettore palatino di Neubourg, e nel 1695 era nominato da Carlo II, con secreto rescritto, reggente del supremo consiglio d’Italia1. Fu più volte mandato alle corti di Parma e di Modena, e carteggiava con quelle di Madrid, di Vienna e, dell’alta Italia. La regina di Spagna l’aveva in gran conto, e gli scriveva confidenzialmente. Abbracciato il partito imperiale di casa d’Austria, astuto ed intrigante come era, si maneggiava in secreto a danno della Spagna, rendendosi così traditore e come suddito e come magistrato.
Ma cadute a vuoto queste pratiche di lui e d’altri, scoppiò quella guerra che porse poi tante felici occasioni al celebre principe Eugenio di Savoja di spiegare i suoi militari talenti. Filippo V, saputi li intrighi dei partigiani austriaci, e stretto dal timore di qualche moto popolare per l’avvicinarsi dell’esercito nemico, benchè nell’aprile del 1701 la Congregazione di Stato avesse spedito a Madrid due de’ suoi membri a fargli atto di vassallaggio, credette necessario di vincolare i Milanesi con un solenne giuramento di fedeltà, e punire ad un tempo quelli fra loro che gli erano ostili.
Ben presto però Vittorio Amedeo II duca di Savoja, scontento della sua alleanza coi Francesi (1703), massime perchè nell’esercito confederato non aveva altro commando che di nome, si gettò dalla parte imperiale. Allora Luigi XIV per vendetta ordinò al duca Vandome di far prigionieri i soldati piemontesi ausiliarj negli eserciti Franco-Ispani. Circa 4500 Savojardi perdettero così la libertà, e furono rinchiusi nei castelli di Brivio, Trezzo, Cassano, ed in più altri, dove non pochi, per duri trattamenti e malori, perdettero la vita. Il duca Vittorio alla sua volta imprigionò, oltre molti soldati di Francia che erano in Torino e nei dintorni, li ambasciatori francese e spagnuolo.
Aggiuntesi a far traboccare la bilancia in isvantaggio di Spagna le ripetute vittorie di Eugenio e Marlbouroug in Germania, li Imperiali ripresero animo, e il Pagani raddoppiò a Milano di attività ne’ suoi politici intrighi. Ciò per altro che lo compromise apertamente verso i Gallo-Ispani fu lo strano suo contegno in una seduta del senato, quando vi si posero in discussione li argumenti accampati da Filippo e Leopoldo a dimostrazione dei rispettivi diritti alla corona di Spagna. Qualche senatore lasciò trapelare opinioni non troppo contrarie all’Imperatore; il Pagani che sentiva tutta l’offesa della testè ricusatagli istallazione nella carica di Reggente del Consiglio d’Italia, dimentico di qualsiasi riguardo, sorse con veementi parole a sostenere la causa imperiale, dando luogo in quel grave consesso ad una scena non meno insolita che violenta. Era supponibile che Luigi XIV lasciasse impunito un senatore che, dopo ciò, osava altresì vantarsi d’aver reso muto il senato, impaurita la nobiltà, confuso il popolo? No certo; ed infatti egli spiccò tosto un ordine perchè il Pagani fosse tenuto fra quattro mura senza communicazione, con guardia a vista, fino a che si fosse fatta la pace, Volle il re che il carcere fosse lontano di Milano, e fuori anche di altra città, e però parve a proposito Pizzighettone. Arrestato adunque la notte del 13 di maggio, 1704, e tradutto in quella fortezza, fu rinchiuso in due piccole camere, murata la finestra prospiciente al di fuori, e con proibizione assoluta di scrivere. Taceremo per amore di brevità i curiosi particolari della sua prigionia per dir tosto che, rumoreggiando nel giugno dell’anno seguente la guerra nei dintorni, egli, temendo i rischi di un assedio, addutta per motivo la mal ferma salute, implorò dal governatore Vaudemont che lo traesse dall’inferno di Pizzighettone facendolo trasferire in luogo più spazioso e salubre. Fu esaudito, e condutto a Trezzo dall’ajutante del principe don Leonardo. Ma qui pure, come già aveva fatto coi primi suoi custodi, riuscì a corrompere il castellano, e poichè profundeva il denaro, di cui abondava, massime per non essersi sottoposti a sequestro i suoi beni, continuò come sempre a ordir trame, instando senza posa per la sua liberazione. Allorchè poi Eugenio si avvicinò colle sue truppe all’Adda, per timore che egli liberasse il marchese a cui lo legava una lunga amicizia, il Vaudemont fece ricondurre il Pagani nel primo luogo di reclusione. Ivi, preso da melancolia, cercò un sollievo nel poetare in cui era valente. Intanto Eugenio tentava di gettare un ponte a Svisio nel Bergamasco rimpetto a Trezzo; ma non essendogli riuscito per le sponde alte e scoscese, risolvette di forzare il gran ponte a Cassano, dove si diede quella battaglia (15 d’agosto) che pose termine alla campagna del 1705.
L’anno appresso Eugenio di Savoja cambiò faccia alle cose. Giunta la novella del trionfo degli Imperiali anche a Pizzighettone, il 26 di ottobre la fortezza capitolò, e i pochi Francesi del presidio si ritirarono con armi e bagagli a Cremona. Dopo due anni e mezzo di prigionia restituivasi alla libertà il Pagani, che, condutto in gran treno al campo, fu accolto dal duca di Savoja con istraordinarie dimostrazioni d’onore. A Lodi era ospitato dal vescovo Ortensio, e applaudito dalla popolazione. L’ultimo del mese entrò in Milano accompagnato da molti nobili e mercanti a cavallo, a cui s’aggiunsero diversi ministri e cavallieri che mossero ad incontrarlo fuori della città. A Porta Romana la civica milizia lo salutava con replicati colpi di moschetteria. All’entusiastica accoglienza dei concittadini sottentrarono le congratulazioni de’ sovrani, duchi e duchesse, dei ministri e generali austriaci. Vittorio Amedeo, scrivendogli, si firmava il suo migliore amico. Ma il vecchio senatore, più che siffatte dimostrazioni, ambiva onori e ricompense. Ridomandò quindi la carica di Reggente del Consiglio d’Italia e l’ottenne; non così però li arretrati dalla morte del Casati suo antecessore che ammontavano ad ingente somma. Parendo a Carlo III eccessiva cotale pretesa, s’appigliò al mezzo termine di assegnargli 2000 scudi annui fino al conseguimento d’altro posto. L’ambizioso continuò quindi ad inviar suppliche al re per una più onorifica promozione, mostrando sempre desiderio di ottenerla in patria. Che avvenne? invece di gran cancelliere, fu eletto presidente del consiglio di S. Chiara in Napoli, carica sublime e lucrosa di cui senza dubio si sarebbe appagato, se la politica del governo a cui era noto il suo spirito d’intrigo non avesse cercato per quella via d’allontanarlo da Milano. Come prevedevasi, egli rinunciò, perocchè all’età sua eragli affatto impossibile il cangiare clima e abitudini per assumere un officio sì gravoso. Due mesi dopo (3 di novembre, 1707), il Pagani moriva senza figli, estinguendosi con lui la famiglia2.
Sullo scorcio del 1705 anche Trezzo era stato preso da un corpo di 300 Austro-Sardi, che s’avviò poi alla volta di Lecco, facendo sosta nel nostro borgo il principe Eugenio. Poco dopo s’arrendeva anche il castello.
Villamor incaricava (15 di febrajo, 1712) il magistrato ordinario di Milano, perchè immediatamente facesse racconciare una camera per l’abitazione del tenente colonnello don Martino Moreno commandante del nostro castello. Causa di ciò era Tessersi destinata quella dove solevano abitare prima i castellani a dimora dei principi di Castiglione e Chalamar, inviati quivi di recente come prigionieri, e non esservi altra stanza conveniente al commandante, trovandosi rinchiuso nel castello anche il duca di Bisacha.
Le condizioni topografiche del forte nel 1722 ci sono indicate con ricchezza di particolari in un atto di visita fattovi dal barone Perlin aj atante generale del re di Spagna3, subdelegato del governatore di Milano don Gerolamo Colloredo, e dall’altro delegato governativo Bastieri, con intervento di notajo e di altre cospicue persone4.
Quattro anni dopo (26 di giugno, 1726) si spedì a S. M. un ragguaglio sullo stato attuale di tutte le piazze bisognose di fortificazioni, massime per il timore d’una invasione da parte del re di Sardegna. Da una tabella dell’artiglieria e delle munizioni da guerra serbate nelle piazze si raccoglie che nel nostro castello nell’ottobre di quell’anno trovavansi 1 mezza colubrina, 3 sagri5, 1 falconetto6, 2 cavrie7, 2 argani, 105 palle da quarto8, 130 da sagro, 141 da falconetto, 1016 da smerile9, 205 da moschetto, 11 da focile, 23 pani di piombo, 156 bauli di polvere, 3638 pietre da focile, 13 moschetti a cavalletto, 51 moschetti milanesi, 40 archibugi con serpa10, 6 focili con acciarino, 398 granate di ferro, 98 granate con spina di ottone11, ecc. Perciò S. M. ordinava il 4 di dicembre d’inviarle un prospetto delle somme necessarie per mettere in difesa tutte quelle fortezze, provedendole degli opportuni attrezzi da guerra.
Una conferma della grande gelosia con cui era custodito il castello si desume anche da una licenza accordata l’anno appresso di portare di giorno, in tempo di pace, il viatico agli infermi nella fortezza con seguito di popolo, usando però speciali cautele se di notte.
Note
- ↑ Carica che dovea occupare solo dopo la morte del precedente investito Danese Casati allora quiescente.
- ↑ Vedi la Storia di Milano, di Francesco Cusani, tom. II, cap. II e III. — Milano, presso la libreria Pirotta, 1863.
- ↑ In luogo del delegato capo-commissario indisposto Giovanni Cristorfo Klaimpavor.
- ↑ Ecco i dati più rilevanti offertici dall’atto stesso in data del 24 di dicembre conservato presso l’archivio centrale di Milano. — Nella piazza d’armi, subito dentro della porta a destra, vi era la Cappella del Crocifisso, — indi l’abitazione dell’oste ripartita in quattro locali, compresovi il forno, — quattro stanze ed una cucina godute dal capitano commandante degli invalidi, — altre otto stanze per il castellano, — una stalla capace di 25 cavalli, ed un’altra da 4. Oltre ciò eranvi più di 50 camere. — Uno scalone, un portico ed una corte. — Una galleria per i cannoni (contenente allora cinque cannoni e diverse spingarde), parecchie case matte per la cavalleria, e l’infanteria. Da un posteriore inventario officiale del 30 di aprile, 1756, eravi la prigione detta la gobbetta, la ghiacciaia e nel mezzo della piazza d’armi il cisternone. Da un così detto ponte morto sino alla fronte riguardante il Castel vecchio vi era la galleria, e in capo alla salita che metteva a quella il quartiere detto del Barnabò. Infine da una perizia dell’ingegnere Ricchini del 28 di luglio del 1786, si desume che vi erano ancora diverse prigioni, sebbene abbandonate. Una di queste si chiamava la canepa, ed un’altra era cavata per intero nel sasso. Una terza soprannominata la commune era un camerone a terreno detto poi delle vedove, lungo braccia 22, largo 15, ed alto 10. Una quarta detta del Barnabò lunga braccia 15, larga 12 ed alta 10. Il gran portico in testa alla piazza d’armi era lungo braccia 72, largo 15 ed alto 10. Oltre a ciò un locale detto la cantinazza tutto in vôlta, lungo braccia 96; largo 16, ed alto 6. Finalmente una torre grande quadrata a quattro piani, di cui i primi tre perfettamente eguali nelle dimensioni, cioè a dire ciascuno di braccia 10 per 10 in superficie, e di 6 in altezza; il quarto piano sorreggeva il tetto.
- ↑ Sagro, artiglieria della portata da libre 8 a 10 di palla.
- ↑ Falconetto, artiglieria che traeva dalle 2 a 3 libre di palla.
- ↑ Capra, strumento usato nell’artiglieria per innalzare pesi, come incavalcare e scavalcare cannoni dalle loro casse.
- ↑ Intendi quarto cannone. È da sapersi che nell’artiglieria italiana, dal XVI al XVIII secolo, chiamavasi cannone una bocca da fuoco della portata da lib. 50 a 60 di ferro colato. Perciò dicendosi mezzo cannone e quarto cannone, s’intendava un pezzo che gittasse rispettivamente metà, od un quarto del peso della palla del cannone, ossia di libre 25 a 30, o di libre 12 a 15.
- ↑ Cioè smeriglio, artiglieria minuta che gittava palle di piombo con entro dado di ferro, o solamente palla di ferro di piccolo calibro.
- ↑ Cioè a miccia.
- ↑ Spina d’ottone detta anche tempo ed ora spoletta. È un arnese di metallo o di legno con foro nel mezzo riempiuto di polverino battuto, invitato e cacciato a colpi di mazzuolo nell’occhio e bocchino della granata, per communicare il fuoco alla polvere della carica interna.