Capitolo X

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IX XI
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Capitolo X.

Dominio Spagnolo. — Il Commune giura fedeltà all’imperatore Carlo V. — Si ristaura il castello. — Oblighi dei Trezzini verso il castellano. — Pestilenza. — Milizia forese. — I Cavenaghi feudatarii. — Francesco I duca di Modena varca l’Adda.


Morto Francesco II ultimo duca della famiglia, e passato il Milanese alla corona di Spagna, i Trezzini (26 di ottobre, 1536) delegarono il loro console Giovanni Antonio de’ Andreis e Giacomo de’ Miglioni, uno de’ quattro deputati, a prestare in loro nome a Carlo V il solenne giuramento di fedeltà1. [p. 99 modifica]

In una relazione (11 di luglio, 1547) dei maestri delle cesaree entrate dello Stato di Milano al governatore don Ferrante Gonzaga è cenno, fra le altre cose, di un rimborso di lire 628 al castellano di Trezzo per spese cibarie fatte a 14 soldati spediti da don Alvaro de Luna, preposto in quel tempo al castello di Milano, per un trattato o congiura scopertasi nel Bergamasco.

Non è meraviglia che il castello per la sua ampiezza e per li inevitabili guasti recati dal tempo richiedesse sovente lavori di ristauro e di abbellimento. Serbasi una descrizione (2 di aprile) de’ lavori che dovevano farsi nel 1550, scritta da un Cristoforo da Linate ingegnere della camera Cesarea per commissione di Francesco Rotta commissario generale sulle munizioni nello Stato. [p. 100 modifica]Un’altra senza indirizzo (del 3), di certo Giovanni Maria Olgiati, e insegna che allora eranvi nel castello più luoghi cui conveniva alzare il muro, perchè facili ad essere scalati, che in due parti il muro stesso era in ruina, e però voleva esser rifatto e in un terzo punto rafforzato perchè mal sicuro. Dovevasi pure rimettere il ponte levatojo proveduto di bolcioni. Alcune stanze fatte di nuovo erano tuttora inservibili come prive di pavimento e d’intonaco. Alla guardia vegliavano 18 soldati, il cui servizio di sentinella e di ronda parendo troppo gravoso, supplicavasi l’autorità a spedirvene di sopragiunta altri sei.

Le relazioni dei Trezzini verso i castellani continuarono come in antico. Condurre coi carri la loro parte di legna per la guardia in castello, e similmente, per la provigione di esso, una parte di biade; pagare al castellano annue lire 29 di onoranza, e dargli qualche misura di paglia; accorrere in persona, secondo i superiori avvisi, a custodire il porto; sostenere spese nelle occasioni di visite nel borgo per parte de’ governatori di Milano: ecco le benemerenze speciali verso lo Stato per le quali i Trezzini si lusingarono talvolta di potere esimersi dal pagare alcuno de’ carichi communi. Così avvenne, per es., nel 1561 (27 di marzo), perocchè allora per i titoli testè enumerati cercarono l’esenzione dallo sborso di soldi sette e mezzo per ogni stajo di sale, imposti come tassa per la cavalleria. Ma, come dicono le carte dell’epoca, [p. 101 modifica]quella tassa non pativa diminuzione, e però i fatti esposti dai borghigiani valsero loro soltanto una raccommandazione di riguardi presso il castellano. Tributo di sangue fu quello che anche Trezzo pagò alla famosa pestilenza del 1576. Passando san Carlo Borromeo ad amministrare la cresima alla campagna, avvenne che nel nostro borgo, nell’atto che la conferiva ad uno degli appestati, questi gli cadde morto ai piedi2. Quanto all’altra mortalità non meno funesta (1630) in cui il cardinale Federico Borromeo gareggiò di zelo e di carità con il defunto cugino, sapiamo che, avendo alcuni di Vimercate compro del lino a Saronno e colla merce portato a casa il contagio, questo si propagò subito in Monza, Cavenago, e in altre prossime terre, e poco dopo in Cassano e Trezzo dove i delegati di sanità erano molto negligenti.

Le terre briantine destinate ad accogliere le milizie miste di Lombardi e Spagnuoli, erano a que' giorni i luoghi fortificati, e massime Cassano, Trezzo, Brivio, Lecco e Cantù; anzi a Trezzo e a Lecco risedevano due castellani spagnuoli. Oltre questa guarnigione di milizia regolare, Trezzo, come tutti li altri communi, forniva il suo contingente alla milizia forense istituita contemporaneamente alla urbana nel 1637. Vi erano obligati tutti i terrieri dai 18 ai 50 anni. L’arruolamento si [p. 102 modifica]eseguiva prima coll’inscrivere i volontarj, poi coll’estrazione a sorte fra li abili per opera dei rispettivi consigli communali e elei consoli. I sindaci ge nerali delle provincie ripartivano fra queste il contingente complessivo fissato nel numero di 8000 uomini per tutto lo Stato. Si divideva in compagnie di 100 a 150 uomini, ed ebbe fin dal principio bandiere proprie. Andava armata d’archibugi e partigiane e solo riceveva paga quando usciva dal commune. Di mezzo a varie trasformazioni a cui andò suggetta, senza però essere mai del tutto abolita, cotesta milizia continuò fino al 1848 sotto il nome di uomini di commune e di guardie campestri.

Le prime notizie scoperte nell’archivio centrale di Milano, riguardanti il nostro borgo come proprietà feudale risalgono anch’esse alla metà del secolo XVII. Trovandosi a quest’epoca la regia camera sommamente necessitosa di denari, il magistrato delle entrate straordinarie e dei beni patrimoniali dello Stato fece pubblicare cedole generali per infeudare tutti i luoghi e terre dello stesso, eccettuate le sole città, coi titoli di conte, marchese e barone e anche senza titoli, ove così piacesse agli acquirenti, o venderli liberamente ai prezzi ed ai patti da convenirsi cogli oblatori, tuttochè fossero forastieri e femine. Di conformità a questa disposizione (4 di aprile, 1647) fu publicata l’asta di Trezzo, riservato però alla R. Maestà il castello ed il diritto di presidio. Il borgo passò il 30 di quel mese con tutti i rispettivi diritti di dazio, eccettuati [p. 103 modifica]soli quelli del bollino e della macina forense, in feudo alla nobile Ippolita Fossana Cavenago colla successione ne’ suoi figli legitimi maschi e legitimati per matrimonio, e con ordine di primogenitura per il prezzo di L. 4000, ogni cento fuochi, e di L. 100 di capitale per ogni 3 di annua rendita. Di questi giorni Trezzo col suo territorio noverava 150 fuochi ossia capi di famiglia. I successori della Ippolita Cavenago furono il suo primogenito, il conte Ferrante, giureconsulto collegiate morto nel 1698, e i conti Cesare e Francesco, all’ultimo de’ quali sottentrò il fratello Ambrogio Gioachimo.

Volgendo il 1658 li Spagnuoli guerreggiavano contro la Francia, per la protezione che questa accordava ai ribelli del Portogallo e della Catalogna. Come il duca di Mantova si fu dichiarato neutrale, Francesco I di Modena si avviò per il Cremonese con intenzione di tentare il passo dell’Adda, e prender poi la via di Valenza per unirsi agli eserciti che scendevano di Francia. Considerando che la Republica Veneta continuava in pace col re di Spagna, e perciò era da presumere che non avrebbe dato il passo ai Francesi per assalire la parte superiore dell’Adda verso Cassano, i commandanti spagnuoli avevano guarnito il fiume fino a Cassano, e a Trezzo con sola milizia dei paese, più per evitare disordini, che per timore di assalti. Dopo tre giorni d’inutili sforzi, i Francesi con 500 fanti e 300 cavalli, attraversato il Cremasco e la Geradadda, s’appostarono rimpetto [p. 104 modifica]a Cassano, e munita la riva dell’Adda di moschetteria, vi spinsero quattro uomini a nuoto.

I quali (14 di luglio) presero una piccola barca ivi custodita da alcuni soldati del Castello di Trezzo, e adoperata a spedire al governatore di Milano, conte di Fuensaldagna, li avvisi dei confidenti sopra le mosse dei nemici. Fu questo il principio del passaggio dell’Adda, compiuto poi felicemente dai Francesi a Cassano, massime per l’ardire del marchese di Giury e gli opportuni indirizzi del colonnello conte Anguissola3.

Ma dai gravi interessi di guerra ci è qui forza scendere alla narrazione di gare e contese puerili.

II 6 di novembre del 1678 mentre celebravasi la festa della B. V. del Rosario, insorse una controversia tra il castellano don Alonzo Perez, e il feudatario Ferrante Cavenago. Asseriva il primo, che erasi lesa la giurisdizione regia, perchè dietro ordine dell’autorità ecclesiastica erano stati affissi contro di lui e di sua moglie de’ cedoloni con cui si interdiceva a costei l’ingresso in chiesa, vita sua naturai durante, come rea d’aver violati i precetti della sacra Congregazione dei Riti, trasportando la sua sedia col genuflessorio e col tapeto dentro l’inferriata innanzi all’altar maggiore della Prepositurale. Ma siccome la stessa Congregazione aveva dichiarato, il diritto di porre in tal luogo la sedia essere di esclusiva competenza dei feudatario, così il Senato [p. 105 modifica]milanese, interpellato dal castellano, opinò che si trattasse invece della lesione di un privilegio feudale nella persona del conte Cavenago. Doveva quindi, sempre secondo il Senato, aver vigore l’interdetto ecclesiastico pronunciato contro il Perez e sua moglie, e non era punto fondata in diritto la questione di precedenza promossa in base a quel fatto dal castellano tra lui e il feudatario. Il Senato medesimo poi conchiuse il suo voto (2 di maggio, 1679), diretto al conte di Melgar governatore, sottoponendo alla costui saviezza il caso, e invitandolo, per sedare il popolo, a ridurre ambe le parti alla concordia, o, se volevano trattare formalmente la questione di precedenza, a far valere i loro diritti dinanzi al Senato stesso4.

Così la caratteristica alterigia e vanità spagnola si rivelava dappertutto sotto consimili forme5.


Note

  1. È notabile che, sebbene l’atto di procura sia in latino, l’insertavi formola di giuramento a cui dovevano attenersi i due mandatarj è in italiano. Eccone il testo. «Che dal giorno de hogi inante li predicti consule, commune, università et particulari persone sarano perpetuamente fideli al sacratissimo Carlo imperatore de’ Romani suo signore et soi successori nel sacro romano impero et al illustrissimo et excellentissimo signor Antonio de Leyra suo locumtenente et capitano generale, et che mai scientemente nè in consiglio, nè in fatto prestarano adjuto ch’el predicto sacratissimo imperatore o soy successore o in persona o nel stato o nel honore patiscano danno alchuno o injuria; et se saperano o intenderano alchune de le predicte cose essere tratate, quanto più presto potrano, la manifestarano ad sua Maestà o ad soy agenti nel Stato de Milano, et essendoli detta alchuna cosa in secreto, non la manifestarano senza licenza de soa Maestà, et essendo richiesti prestar Consilio, lo darano fedelmente, ne manifestarano cosa che possa portare danno o iniuria a soa Maestà o soy successori et al predicto illustrissimo signor locumtenente ut supra o ad soy officiali o al dominio suo, et finalmente farano tute quelle cose che sono tenuti fare li fedeli subditi verso soa Cesarea Majestà suo signore et soi locumtenenti.»
  2. V. Biografia di S. Carlo Borromeo, publicata dal sacerdote Aristide Sala, pag. 71.
  3. Vedi Brusoni, Storia d’Italia, lib. XXVI, sotto l’anno 1658.
  4. Vedi le consulte del Senato al governatore del 4 di febrajo, e 2 di maggio 1679.
  5. L’esposto fatto ci richiama ad altro analogo già avvenuto nella basilica di s. Ambrogio in Milano per opera del duca di Terranova, appena morto san Carlo Borromeo. Veggasi la Continuazione della Storia di Milano del conte Pietro Verri, di Egidio de Magri. Capo XXXV, a pag. 269 e seguenti. Milano, tip. Lampato, 1841.