Tre croci/Capitolo XIII
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XIII.
La mattina, Giulio si disse: «No; non mi lascerò illudere. Ho capito, ormai, che le cose bisogna guardarle in un modo come ancora non sapevo! Se io accettassi di vivere, giacchè non mi sento per ora nessun male che mi possa togliere la vita, sarebbe lo stesso io trovassi gusto a farmi martoriare. Ma questo non può essere, per quanto io soffra molto meno. Non può essere mi manchi la forza di fare a me quello che non farei agli altri. Forse, sbaglierò; ma è necessario io faccia la prova della morte. Stanotte, mi pareva già di non aver più a che fare con la mia solita vita, alla quale ho creduto fino ad ora; e non rimpiangevo niente. Non avevo mai sognato così, bene!».
Ma la calma della sera innanzi s’era già rivelata per una enfiagione di cose malaticce. Ed egli continuò a pensare, con piacere: «Qualcuno crederà che io mi uccida buttandomi dalla finestra; un altro che io vada ad annegarmi. No: così non mi ucciderò».
Ed escì di casa. La mattina era umida e fresca. Si fermò a vedere una sciancata; che, aiutandosi con il bastone e appoggiandosi anche con una mano alla sporgenza della balaustrata, cercava di salire le scale della Chiesa di San Martino. Egli non aveva mai visto un’altra ostinazione così vogliosa e nello stesso tempo un’altra impazienza forse così piena di gioia. Egli sentiva che quella donnàcchera poteva significare una cosa, che cercò in vano. E la sua disperazione crebbe. Il giorno dopo, la legge avrebbe fatto mettere i sigilli alla libreria; ed egli aveva dinanzi a sè soltanto poche ore, per prendere qualche risoluzione che potesse essere definitiva.
Svoltando per una strada, s’imbattè con il Nisard; che gli andò incontro mentre il suo viso doventava rapidamente compunto. Egli disse:
— Ma che disgrazia! Come mi dispiace!
Giulio lo guardò con il viso scomposto, quasi irriconoscibile per i sentimenti che ora gli si vedevano. Poi aggiunse:
— Una cosa inevitabile! Vuole accompagnarmi un poco? Ero diretto alla libreria; ma se lei non si vergogna a venire con me, specie per la gente, andremo un poco insieme.
Il Nisard troncò subito la sua titubanza e tornò a dietro con lui. Presero, come se l’uno volesse far piacere all’altro, per Via delle Terme, dove potevano incontrare meno conoscenti.
Le case alte e strette insieme dànno un senso d’angustia monotona; con i vicoli di Fontebranda come tanti baratri che lasciano vedere, lontana, una collina verde e intramezzata di cipressi neri. In Piazza di San Domenico si fermarono; sicuri che lì non li avrebbe uditi nessuno. C’è un giardinetto mezzo devastato con un abete in mezzo; su cui s’arrampicavano un branco di monelli. La Chiesa è d’un rosso tutto eguale; con le finestre tappate a mattoni e la torre crettata da cima a fondo. Dentro uno spiazzo, tra due mura sporgenti accanto alla torre, su per un arco chiuso che arriva fino al tetto, una striscia d’erba sempre più larga in basso; che va a unirsi con quella del prato.
A Giulio pareva di respirare con una boccata sola tutta l’aria della piazza; ed era come un ragazzo che si trova dinanzi a cose che non può capire, ma vi si attacca lo stesso. Sentiva che poteva parlare con quanta sincerità voleva; una sincerità immensa. Egli, nondimeno, voleva evitare che il Nisard lo mettesse al punto di parlare di sè stesso; e insisteva perchè mai cadesse il discorso anche su le cambiali false. Il Nisard si meravigliava di questa noncuranza tranquilla; attribuendola, a torto, a poca scrupolosità; quasi a un cinismo che gli pareva spaventevole, e che egli non osava discutere. Perciò, senza volere, assecondava il desiderio del libraio; e, visto che pressapoco poteva parlargli come tutte le altre volte, lo portò a guardare Siena; dal muricciolo della Fortezza. Gli disse:
— Venga a vedere come, a quest’ora, i colori sono più belli che la sera. Io me ne sono convinto venendo qui la mattina e il giorno.
Viene subito alla vista un gran rigonfio di case; e, dentro, la Cattedrale. In Fontebranda, le case invece si biforcano, lasciando in mezzo uno spazio vuoto. Stanno come attaccate e schiacciate sotto la Cattedrale; a strapiombo su gli orti e su la campagna. Poi si abbassano sempre di più fino a sparire, sotto una balza; e allora si vedono soltanto i loro tetti. Quelle più grosse reggono le altre; e non è possibile capire dove siano le vie; perchè le case paiono separate l’una dall’altra da spacchi e da tagli quasi bizzarri, alla rinfusa; a crocicchi rasenti, contrari, di tutte le lunghezze e di tutte le specie. E i tetti, in quelle picce e in quegli arrembamenti, in quelle spezzature di ogni forma, sono sempre più rari di mano in mano che le case si spargono per le chine. La compagna era d’un’ampiezza, che non finiva mai; e Siena, in quel silenzio, quasi taciturno ma soave, sembrava tutta raccolta in se stessa e inaccostabile. Mentre le cime più lontane, fino alle Cornate di Gerfalco si sbandavano e riempivano l’orizzonte sperduto.
Giulio guardò con avidità: non mai, come allora, aveva amato la sua Siena; e ne fu orgoglioso. Il Nisard gli spiava nel viso l’effetto, e lo riportò via subito perchè gli sembrava che fosse troppo forte. Giulio disse:
— Ci sarei stato per sempre!
— Lei è senese, e scommetto che qui non c’era mai venuto.
— È vero: soltanto da ragazzo, ma allora non capivo.
— Ci tornerà, ora, da sè?
— Chi lo sa? Oggi siamo vivi e domani già morti! E poi, io!. Mi ricordo di quand’ero giovine. Bastava che restassi una mezz’ora solo e non avessi niente da fare, perchè mi venisse una specie di sospetto che mi faceva paura. Io non ero nè meno sicuro di vivere. Il sospetto che avevo non glie lo so spiegare; ma cercherò di farglielo capire. Lei sognando, qualche volta, ha certamente avuto nello stesso istante una sensazione vaga, non si sa se con piacere o con dolore, che le impediva di credere al suo sogno; e avrebbe voluto che fosse stata la realtà, invece. Ma quella sensazione staccava il suo sogno, lo teneva discosto, senza riescire però a fare di lei stesso e del sogno una cosa sola. Ebbene la realtà, — la chiamano realtà — che m’era intorno, mi faceva lo stesso effetto. Io non sapevo se quel che vedevo era un sogno più vasto, continuo, a cui mi ero abituato; e del quale soltanto poche volte avevo coscienza. Per farla capire meglio, s’immagini che il presente stesso era per me il senso d’una realtà convenzionale.
Ma al Nisard questo parlare non piaceva; e, arricciando il naso, si discostò dal libraio senza dirgli niente. Quegli seguitò:
— Io, questi pochi minuti che sono stato con lei in Fortezza, ho capito come vivevo per tanti anni di seguito. E non vorrei ricominciare da capo. Pare che la nostra memoria sparisca e poi si faccia anche più viva di quel che non ci aspettiamo noi.
Il Nisard storceva la bocca; e, ridacchiando, disse:
— Capisco! Capisco!
Ma egli avrebbe voluto dirgli: «Ero venuto con lei per la curiosità che ho di sapere tutta la storia delle cambiali; e invece, lei mi fa di queste divagazioni fuori di luogo; che sembrano sciocchezze d’una mente alterata!». E, per non trovarsi più a disagio, disse che doveva, lasciarlo, per tornare a San Domenico; a vedere una tavola di Matteo di Giovanni, ch’egli studiava. Andò in chiesa ridendo e proponendosi di raccontare tutto, perchè ridesse anche qualche altro. E, dicendosi troppo credulo e troppo debole ad aver pensato ch’egli doveva consolare un pazzo di quel genere, entrò nella cappella, dov’era attaccata quella tavola; e lo dimenticò subito.
Ma Giulio era restato come ebbro; e aveva una specie di gaudio amaro. Dentro di lui sentiva muoversi come una quantità di cose parassite e malvagie; che volevano prendere il sopravvento. I suoi stati di coscienza si erano solidificati l’uno vicino all’altro, ma irriducibilmente; ed egli tentava invano di metterli d’accordo e di spiegarli con un solo mezzo. Non si sentiva più libero e comprendeva che la coscienza quotidiana si era inspirata non ai suoi sentimenti, sempre mobili, ma a certe invariabilità; alle quali, forse, quei sentimenti si erano sempre attaccati. Ora anche il desiderio di morire era invariabile. Non gli parve necessario rivedere quelli della sua famiglia; perchè credeva che dovesse restare più solo che fosse possibile; come un dovere. Egli, in quel momento, non poteva avere più nessun affetto per loro; e, quando fu alla libreria, ne aprì la porta come se andasse a conoscere la realtà del suo sentimento.
Nella libreria, con gli sportelli chiusi, c’era buio ed egli accese il gasse. Il rumore del gasse, prendendo fuoco, lo fece tremare di spavento. Girò gli occhi attorno e gli venne voglia di avventarsi a quelle pareti. Loro lo avevano fatto mentire e poi perdere; loro le più forti.
Ad un tratto, sentì bussare: Niccolò, lo chiamava. Doveva rispondere? Non allora. Egli era troppo da più di lui, perchè gli permettesse di chiamarlo ancora. Lasciò che egli smettesse di battere le nocche; e, dal cassetto della scrivania, prese una corda forte, con la quale era stato legato un pacco di libri. Egli, allora, non credette più che si sarebbe ammazzato! Perciò salì sopra uno sgabello e provò, ficcandoci il manico del martello dentro, se un gancio alla trave veniva via. Era proprio sicuro che non si sarebbe ammazzato! Ci legò la fune, a nodo scorsoio. Poi, ridiscese dallo sgabello e si mise a guardarla da tutte le parti; sentendo la voglia di sorridere. La guardava scherzando; ma pensò di toglierla perchè aveva paura che le avrebbe dato retta, mettendoci il collo dentro. Egli delirando le parlava, perchè non lo tentasse. Ma non osava più toccarla. Egli disse: «La lascerò qui per sempre. Perchè si veda a che punto mi sono ridotto.» Era ormai come un pazzo; e appuntellò la porta per paura che venisse un branco di gente a buttarla giù. Non dovevano tardare molto. Li sentiva venire, da tutte le parti. Non c’era più modo di resistere: i puntelli saltavano via. Su la cassapanca, tutti quegli oggetti falsamente antichi gli dissero: «Tu sei uguale a noi! È inutile che tu cerchi d’evitarci!». Egli rispose a voce alta: «Aspettate, faccio una firma». E vide la sua firma falsa saltellare sul pavimento. Si chinò per chiapparla; entrò con la testa sotto gli scaffali: la firma c’era ma egli non la vedeva più. «Guardate: in mano non ce l’ho!»
Allora, spense la luce. E, al buio, senza rendersi conto che si ammazzava, mise la testa dentro il laccio. Sentendosi stringere, avrebbe voluto gridare; ma non gli riescì.