Trattato di archeologia (Gentile)/Arte italica/X
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X. — Osservazioni generali
intorno allo stile italico.
Se i monumenti della Certosa, insieme con quelli di Marzabotto, sono indubbiamente etruschi, essi rivelano però una civiltà meno ricca e meno sviluppata di quella dell’Etruria propria, o, a dire più esattamente, una civiltà che non potè conseguire lo sviluppo suo pieno come nell’Etruria al di là dell’Appennino, per esser stata arrestata o tronca a mezzo dall’invasione e dal dominio gallico; questo fatto, e insieme con esso certi altri elementi, quali i vasi dipinti e i caratteri del loro stile, sono argomento a determinare che i monumenti etrusco-felsinei possono avanzarsi fino al V e al principio del IV secolo av. C. Questi monumenti, e specialmente le stele e i bronzi, sono le testimonianze dell’antichissima arte etrusca, o meglio dicasi arte italica, in quanto che gli Etruschi meglio che sviluppare un’indole propria, forse presero ad esercitare un’industria ed un’arte già in svolgimento presso i popoli italici, in mezzo ai quali poi si stabilirono; arte ch’essi più tardi portarono a matura perfezione, ma non per isvolgimento di proprie ed intime forze, bensì per effetto di straniere influenze, e più propriamente di influenze greche.
I più antichi gradi di sviluppo di quest’industria italica, da cui l’arte poi nasce, si possono seguire con lo studio degli oggetti delle terremare per l’età del bronzo; con quello dei primi strati delle necropoli umbro-felsinee, laziali ed euganee, nelle tombe di Poggio Renzo, Sarteano e Villanova, e con lo studio delle arcaiche Cornetane per la più antica età del ferro; infine con quello della Certosa e di Marzabotto per l’età che deve dirsi propriamente storica; onde è in questi punti che il nesso fra l’età preistorica e la storica classica può essere cercato e studiato. Nè a questo punto s’arrestano i documenti dell’antichissima storia della regione felsinea, giacchè ai monumenti della civiltà etrusca seguono le tombe dei Galli Boi, che in quella regione posero loro stanza, ed infine, come conclusione dei rivolgimenti etnici e storici di questa parte d’Italia nell’evo antico, sopra si stendono le reliquie della dominazione romana.
In quegli antichi monumenti, che finora siamo venuti descrivendo, si possono studiare i rudimenti dell’arte, cioè i principi del disegno e i primi inizi dello stile. Parlando delle terremare, s’è detto che i vasi portano i primi indizi di disegno con linee graffite o impresse; poi più volte si è ricordata la ornamentazione geometrica degli oggetti delle arcaiche necropoli, in cui quei primitivi segni grafici si compongono in un sistema decorativo regolare, con combinazioni di linee, di punti, di circoli, di meandri, di croci gammate, di spirali, ossia di elementi geometrici, a cui si frammescolano figure di uccelli acquatici e di serpentelli. Questi elementi ornamentali non sono propri soltanto dei fittili e dei bronzi italici; essi corrispondono all’ornamentazione di vasi antichissimi greci trovati a Melos, Thera, Camiros, Atene, Micene, i quali si ascrivono ad un primitivo periodo greco, anteriore a quello dell’industria che già sente l’influenza dell’arte orientale (ved. vol. I, pag. 13); e si riscontrano anche in oggetti del centro d’Europa, trovati nella Stiria, nella Carinzia, nella Boemia, e più a settentrione fino nella Scandinavia. Ora questa conformità, ed anzi comunione di sistema di elementi geometrici decorativi è lo sviluppo d’un principio originario comune a vari popoli di una medesima stirpe; è il primo germe del disegno già posseduto dalle stirpi indo-europee od arie.
I popoli presso i quali quelle analogie e conformità s’incontrano sono geograficamente disgiunti, ma etnograficamente affini ed uniti; come essi hanno in comune gli elementi costitutivi della lingua, delle istituzioni sociali, così hanno pure in comune gli elementi e gli intuiti dell’arte, o almeno il sentimento artistico. Gli studi intorno alla civiltà ariana a cui appartiene il gruppo italo-greco, nel tempo che, per immigrazione, dall’Oriente diramaronsi nell’Europa, portano a stabilire che già fossero conosciute le arti tessili, l’industria ceramica e la fusoria dei metalli. Sarebbe appunto nelle arti tessili da cercare la prima manifestazione del disegno, la prima applicazione d’un concetto ornamentale, che poi si trasportò alla ceramica ed alla metallotecnica, producendo quello stile, che dal Conze è detto tessile-empestico1. Si concluderebbe adunque che di quelle analogie delle prime forme ornamentali, ossia degli elementi dell’arte, così largamente diffuse in Europa, la spiegazione sia nella comune origine dei popoli arii, e nel propagamento di una loro primitiva coltura industriale ed artistica identica nel concetto e nella forma. I monumenti in cui si addimostra l’arte in questo periodo potrebbero chiamarsi arii, o con più comune denominazione pelasgici, se si vuole determinare più propriamente i monumenti simili di Grecia e d’Italia, da attribuire a quel popolo pelasgico, che la tradizione mostra diffuso nell’una e nell’altra penisola, e che probabilmente è un nome complessivo dato alle immigrazioni italo-greche.
Vi sarebbe adunque un periodo primitivo, rudimentale dell’arte italica, che si stende nell’età del bronzo e che è, se vuolsi cercare una determinazione cronologica, anteriore forse all’XI secolo av. C.; al quale periodo succede poi quello di un’arte di maggiore sviluppo, quando il disegno di semplice decorazione geometrica dà luogo alle forme vegetali, animali ed umane, con mescolanza di elementi e d’influenze orientali; in questo periodo appunto sorgono gli albori dell’arte etrusca.
Si avrebbero così nell’arte italica, come nella greca, due distinti periodi:
I. — Il periodo dell’arte italica primitiva, derivata dallo sviluppo di concetti comuni a popoli di stirpe aria, che può dirsi periodo di arte pelasgica, cioè, secondo il Conestabile, di arte preetrusca. Lo stile tessile-empestico di questo periodo si estese in Italia e in altre parti dell’Europa, ma, mentre in Italia scompare nel successivo sviluppo dell’arte, nelle regioni europee settentrionali, chiuse in sè e lungi da contatti coi popoli civili, si continuò fino ai tempi del cristianesimo.
II. — Il periodo dello stile orientalizzante, che alla semplice decorazione geometrica sostituisce un’ornamentazione di tipo asiatico, con elementi vegetali, figure animali di lioni, pantere, sfingi. È questo lo stile che si manifesta per influenza dei commerci orientali, per importazione di prodotti assiri, egizî, specialmente mediante il commercio dei Fenici; questo stile orientalizzante nell’epica greca serve di base alla descrizione di oggetti d’arte figurata; ed è il periodo iniziale dell’arte etrusca.
In questa distinzione di due periodi sembra non cader dubbio; ma invece s’incontra dissenso d’opinioni nella spiegazione del primo periodo.
Che i popoli di stirpe aria al tempo di loro immigrazione verso occidente possedessero in comune le arti tessili e la fusoria, e con esse i primi elementi di disegno, non tutti riconoscono2. Quel primo periodo, determinato dallo stile tessile-empestico, è bensì proprio degli Italo-greci, ma anch’esso presenta accenni d’importazione orientale3 nei prodotti delle industrie asiatiche; in Italia vedesi predominare in oggetti raccolti con altri oggetti propriamente orientali, conchiglie come la cypraea isabella del Mar Indico, e scarabei incisi. Si vorrebbe adunque concludere da qualche dotto che i due primi periodi siano tutti d’origine orientale; mentre altri, abbandonando il concetto di uno stile delle stirpi indo-europee, ravviserebbero nel tessile empestico la maniera d’ogni gente nel primo stadio d’uno sviluppo artistico, specialmente in Europa, nella gran massa della popolazione indoeuropea4.
A questo primo periodo succede il secondo, che concordemente è riconosciuto d’influenza orientale.
In ogni modo, qualunque sia la pertinenza etnografica del primo periodo artistico dei popoli italici, siccome l’arte si svolge spesso intorno ai sepolcri ed ai riti relativi di umazione e di cremazione, studieremo brevemente qualche particolare intorno a questo argomento del rito funebre.
Nell’età della pietra fu usata dai cavernicoli la sola umazione dei cadaveri; ma, al passaggio nell’età del bronzo, subentrò e si fece generale l’uso della cremazione durante anche l’età del ferro, che già si rivela presso gli abitanti delle palafitte e delle terremare del Veronese, del Mantovano, del Modenese e del Bolognese.
Le tombe quivi consistono di rozzi vasi di terracotta, disposti a fianco gli uni degli altri, con entro ceneri ed ossa combuste. Contemporaneamente, però, durano in altre tombe traccie di umazione. Si deve dunque supporre che le popolazioni immigrate dall’Oriente in Europa, e quindi con esse quelle genti italiche che prime vennero dal Nord ad occupare la penisola, avessero il rito della cremazione in comune con quelle genti affini, di stirpe aria, che stettero nell’Asia ed occuparono la penisola dell’Indostan, cioè gli Arii-indiani, ai quali l’incenerimento fu sempre il modo preferito di sepoltura; modo naturale per pastori erranti e guerrieri conquistatori, ai quali era così permesso di portar seco le reliquie dei padri. E di questo darebbe conferma la linguistica5.
Il rito della cremazione è, del resto, quasi esclusivo nelle tombe laziali, nelle arcaiche felsinee (dei predî Benacci), nelle euganee, in quelle di Villanova, nelle tombe a pozzo di Poggio-Renzo, di Sarteano, di Corneto-Tarquinia, nei quali luoghi tutti, se pur s’incontrano cadaveri umati, essi sono in minima e veramente insignificante proporzione in rispetto a quelli combusti6.
Nella più avanzata età del ferro, invece, che è l’età etrusca, i due riti si trovano coesistenti e usati promiscuamente, ma forse con qualche prevalenza dell’umazione, almeno per le tombe etrusche-felsinee, dove due terzi dei sepolcri contengono scheletri, ed un terzo residui combusti. Questa commescolanza di riti vedesi anche nelle tombe dell’Etruria propria nei periodi seguenti.
Mentre, però, le scoperte mostrano il rito della cremazione come proprio dei più antichi stanziamenti italici, la tradizione mostrerebbe invece che, almeno nel Lazio e in Roma, l’uso primitivo fosse dell’umazione, a cui solo posteriormente seguì, facendosi generale, quello della cremazione7.
Virgilio accenna adunque all’esistenza d’un periodo di sistema misto, il quale appare anche dalla tradizione dei primi tempi di Roma. Secondo Plutarco, il re Numa fu sotterrato presso il Gianicolo, avendo egli stesso proibito d’essere arso; e questo implica che già allora, nel primo cinquantennio di Roma, la cremazione fosse in uso, secondo è confermato anche dalla notizia di Plinio (h. n., XIV, 14), che lo stesso re Numa avesse proibito lo spargere il vino sui roghi, e dalla citazione della legge delle XII tavole (tab. X, hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito), che ammette la contemporaneità dei due riti.
Siccome però le memorie della tradizione non risalgono al più lontano periodo, ma arrivano all’età etrusca, che è il principio dell’età storica, quando è in uso la promiscuità presentata da Virgilio, e implicita nelle tradizioni riferite da Cicerone, da Plinio e da Plutarco, non si può inferirne contraddizione fra questa tradizione storica e le scoperte archeologiche, che, in questo modo, ci dànno il rito antichissimo preesistente, la cremazione, a cui si svolge collaterale, forse per distinzione di usi d’altre genti, la umazione8.
Ma, se lo studio dei prodotti delle industrie e degli oggetti, la maggior parte del rito funebre, rinvenuti negli scavi, ci dà notizia delle stirpi e dei costumi dei popoli preistorici del periodo arcaico, però nulla ancòra ci dà l’indirizzo e l’intuito dell’arte di quel periodo, o per lo meno del senso estetico nell’arte dei nostri antenati. E per ciò è più profittevole lo studio delle costruzioni architettoniche. Se non che questo ci implica in un’altra grossa questione ancòra discussa, quella dei monumenti pelasgici, poichè con questo nome si designano le costruzioni più antiche degli Italici, quelle anteriori ad ogni influenza orientale.
Monumenti designati col nome di pelasgici, o attribuiti ai Pelasgi, si hanno ancòra in più luoghi d’Italia.
Chi sono questi Pelasgi? In un luogo di Dionigi D’Alicarnasso (I, 13) abbiamo conservata la tradizione di un antico storico greco, Ferecide, secondo il quale i Pelasgi sarebbero genti venute di Grecia in Italia, in quella parte estrema della penisola dov’era l’Enotria; e poi, in altro passo (I, 28), troviamo la tradizione d’altro storico, Ellanico, secondo il quale i Pelasgi dalla Tessaglia passarono in Epiro, e di qui, attraversando l’Adriatico, approdarono a Spina, presso le foci del Po, da dove poi si distesero verso il centro e verso il mezzodì d’Italia, fin oltre il Tevere, nel territorio di Rieti; guerreggiarono coi Siculi e cogli Umbri, e, fusi coi Tirreni, fondarono città, e si dissero Pelasgi Tirreni. Tale è pur la tradizione di Plinio (h. n., III, 8, cfr. anche Dionisio, I, 17). I Pelasgi, poi, per cause soprannaturali, per ira divina (cioè per isconvolgimenti e fenomeni tellurici), perirono, e scomparvero senza lasciar traccia di sè, senza nemmeno lasciar col loro nome designata una regione alcuna.
Questi popoli, ai quali vorrebbesi connettere le colonie di Evandro Arcade e di Ercole Argivo, stanziate dove poi fu Roma, apparirebbero, secondo la tradizione, ampiamente distesi in Italia intorno al XV secolo av. C. Ma questo popolo che, dopo esser stato tanto diffuso in Italia, scompare al tutto, esistette realmente, ha esso un vero valore storico? O piuttosto non è esso (come ormai si ammette per i Pelasgi di Grecia), altro che una complessiva designazione data ai più antichi, ai primi immigrati nella penisola italica? Essi sarebbero «gli antichi, i vecchi», secondo una delle meno improbabili etimologie dello stesso nome greco Πελασγοι (cioè οι πάρος γεγαώτες, prisci, da un tema che è in παλαιός; etimologia che troverebbe riscontro in quella del nome Greci, Γραικοί, da γεραιός, γραίος, che pur direbbe «gli antichi»). Questi Pelasgi sarebbero forse prodotti dalla supposizione d’un tal popolo primitivo da parte dei primi storici e logografi, per spiegarsi le molte affinità greco-italiche.
I monumenti così detti Pelasgici sono gigantesche e rozze mura, appartenenti a città scomparse, o fortificazioni, o recinti sacri eretti sulle alture; costruzioni di grandi massi di pietre a poligoni irregolari, senza lavoro di scalpello, connessi senza opera di cemento, ma per sola sovrapposizione; opere di gigantesca semplicità e di solidità portentosa, che trovano analogia in numerose costruzioni di Grecia e delle isole, di luoghi dell’Asia Minore, e perfin della Spagna, e che, appunto per conformità alle greche costruzioni, che presentano quei caratteri di struttura, si denominano anche ciclopiche (ved. Atlante di arte greca. Milano, Hoepli, tav. I).
Sorgono esse in Italia nel paese degli Aborigeni e dei Casci, cioè nella Sabina, nelle regioni degli Ernici e dei Volsci, avanzandosi a settentrione fino a Cortona, e a mezzodì fino al paese dei Marsi, alla Campania ed al Sannio. Esse sono opera degli Italici primitivi; e assai probabilmente furono i luoghi di riunione, sia per il culto della divinità sia per la difesa, che in comune avevano gli abitanti di parecchi villaggi, o cantoni sparsi nel dintorno; erano le cittadelle (arces), centro di riunione di genti sparse in singole stazioni della regione circostante. Grandi vestigia di questi recinti si trovano ancòra presso Rieti, sul Promontorio Circello, a Terracina, a Fondi, a Setia, ad Atina dei Volsci, ad Arpino, dov’è una cinta murale di acropoli con indizi di grossolane sagomature; ancor più grandi sono le mura di Alatri negli Ernici, dove sono traccie di rozzi bassirilievi; a Ferentino, che ha mura con due porte; a Signa, che pure ha porta con stipiti inclinati sormontati da architrave monolitico (cfr. la porta di Micene); a Cora, a Norba, a Tuscolo, ad Alba Fucense, a Spoleto, a Cortona. Non mancano vestigia di tali mura in Sicilia, dove la favola dice che Dedalo, venutovi fuggendo da Creta, fu architetto di opere colossali9.
Note
- ↑ Ved. Semper, Der Stil, citato nella Bibliografia che precede questo Manuale, pag. 9.
- ↑ G. C. Conestabile, Sopra due dischi di bronzo antico italici del Museo di Perugia in Memorie dell’Accad. delle Scienze di Torino, Tom. XXVIII (1876), serie II, pag. 26 e segg; cfr. Conze, Zur Geschichte der Anfänge der Griech. Kunst, Vienna, 1870.
- ↑ Helbig, Sulla provenienza della decorazione geometrica in An. Ist. Corr. Arch., 1875, pag. 221 e segg.
- ↑ Ved. Conze, sostenitore più tardi di un primo studio di disegno e ornamento geometrico presso tutti i popoli in Ann. Ist. Corr. Archeol., 1877, pag. 354 e segg. (sopra oggetti di bronzo trovati nel Tirolo Meridionale).
- ↑ La voce greca che genericamente indica “seppellire„ cioè θάπτειν, nel valore primo della sua radicale ταφ, dice “ardere, abbrucciare„, ed ha per riscontro la rad. tep, di tep-co e tep-idus nel latino, e per riprova τέφρα, “la cenere„ e l’uso della voce θάπτειν in senso d’incenerire i morti, presso Omero (Iliade, XXI, 323: Odissea, XII, 12. XXIV, 417).
- ↑ Per es., nelle sepolture umbro-felsinee e di Villanova la proporzione sarebbe di 4 umati per 100 combusti.
- ↑ Questo risulta da esplicita dichiarazione di Cicerone nel de legibus (II, 22), ripetuta da Plinio (h. n. VII, 54). Nel libro XI dell’Eneide, Virgilio descrive i funerali dei caduti nella battaglia fra Rutuli e Troiani: nel campo troiano tutti i morti sono arsi, nel campo italico molti arsi e molti sotterrati.
- ↑ Ved. J. Grimm, Über das Verbrennen der Leichen, in Atti Accad., Berlino 1849, pag. 191; Biondelli, La cremazione dei cadaveri in Rivista italiana di Scienze e Lettere, Milano, 1874; J. Marquardt, Handbuch der römischen Alterthümer (B. VIII, Th. I), pag. 330 e segg.
- ↑ Sui Pelasgi ved. A. Vannucci, Storia dell’Italia antica, vol. I; L. Schiaparelli, I Pelasgi nell’Italia antica, Torino, 1879; Micali, L’Italia avanti il dominio dei Romani, I, pag. 181; II, pag. 157; Storia antica dei popoli italici, I, pag. 195; Petit Radel, ved. Il Museo pelasgico d’Italia e d’altre regioni (Biblioteca Mazarino a Parigi); cfr. Bollettino e Annali dell’Ist. Corr. Arch. di Roma. 1829, 1830, 1831; C. A. De Cara, Le necropoli pelasgiche d’Italia e le origini italiche, Roma, 1894; V. Di Cicco, Le città pelasgiche nella Basilicata (in Arte e Storia, gennaio, 1896); L. Mauceri, Sopra un’acropoli pelasgica esistente nei dintorni di Termini Imerese, Palermo, 1896; A. C. De Cara, Gli Hethei-Pelasgi in Italia. Opuscoletti vari tratti dalla Civiltà Cattolica, serie XVI, vol. XI-XII; E. Lattes, Di due nuove iscrizioni preromane trovate presso Pesaro in relazione cogli ultimi studi intorno alla quistione tirreno-pelasgica, con 3 tavole (Rendic. d. Acc. Lincei. Classe di Scienze morali, Ser. V, vol. II e III. Cfr. Pigorini in Boll. di paletnol. ital., 1889, fasc. 7-9, pag. 201-202 (Le città pelasgiche italiane).