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XIV XVI

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Il signor Caccia era nel suo studiolo, duro e impettito, quantunque fosse solo, per la grande abitudine che aveva di posare.

Seduto sulla sua poltrona in forma di biga romana, cogli occhiali sul naso e una lettera in mano, grugniva sordamente. Un colpo di tosse secca, come se gli andasse un boccone di traverso, interrompeva tratto tratto la lettura che fu lunga e laboriosa.

Quand’ebbe finito, restò immobile, cogli occhiali rizzati sulla fronte, lo sguardo torbido.

La mezza luce di un giorno nebbioso rischiarava appena lo stanzino rendendo piú tristi le quattro pareti a spugnature e l’affliggente scansia d’ufficio tutta piena di carte bollate. La libreria, alla quale Carlino aveva finito di rompere i pochi vetri [p. 214 modifica]intatti, non mostrava piú i diciotto volumetti del Botta, color cece, né la sontuosa legatura in pelle rossa dei classici, ché far rimettere i vetri costava troppo, e Teresina, dietro suggerimento di sua madre, vi aveva inchiodato un traliccio verde.

Quel colore oftalmico dava alla libreria un aspetto misterioso, come se racchiudesse dei veleni.

Il signor Caccia restava sempre immobile, profondamente meditabondo: non udendo nemmeno il rumore che faceva l’Ida, trascinando un carretto sotto il portico, né la voce spezzata della signora Soave che le raccomandava la tranquillità; e nemmeno due colpi abbastanza risoluti picchiati sul battente della porta.

Quando si aperse l’uscio sollevò gli occhi e fu meravigliato di veder entrare Orlandi.

Con Orlandi si diffuse per lo studiolo un tale sprazzo di gioventù e di allegria che l'esattore aggrottò le sopracciglia, e si fece ancor piú cupo; alla qual cosa il giovine non diede importanza, ma, tendendo cordialmente le mani, salutò l'esattore con molta disinvoltura.

— A che posso attribuire?... — disse subito il signor Caccia, sollevandosi per metà dalla poltrona con quel tanto di cortesia indispensabile, ma volendo mostrare che la visita era inopportuna.

— Le porto anzitutto i saluti di suo figlio.

— Mio figlio!... Avrebbe ben meglio a fare che mandarmi dei saluti. Tuttavia s’accomodi. Spero [p. 215 modifica]non avrà altri incarichi da parte di mio figlio?...

Invece di sedersi il giovane fece atto di partire.

— Scusi, vedo che la incomodo. Se vorrà ricevermi un altro momento, la prego di farmi conoscere l’ora in cui posso trovarla libera.

Il signor Caccia balbettò una scusa; capì di essersi spinto troppo oltre, e volle dare una giustificazione al suo malumore:

— No, prego, s'accomodi. Deve compatire se risposi un po’ irritato all’udire il nome di mio figlio. Quando si dedica tutta la vita ad una idea, quando del dovere di padre di famiglia si è fatta una religione, quando e spese e sacrifici, tutto si affronta per il bene dei propri figli, è assai duro il vedersi così male corrisposti, come lo dimostra un giovane che non ha né puntiglio, né delicatezza, né cuore.

Orlandi ascoltò questa sfuriata nel piú rispettoso silenzio, e solo quando l'ultima sillaba di cuore morì nell'eco delle quattro pareti, si credette in obbligo di rispondere:

— Dubito che un istante di collera, certamente giustissima, ma forse un po’ eccessiva, le faccia giudicare a torto...

— Giudicare a torto? — interruppe il signor Caccia. Osservi questa lettera, e lei, che è amico di mio figlio, mi sappia dire, se lo sa, dove, come e quando si possa fare un debito di cento lire. [p. 216 modifica]E noti che non gli manca nulla! Alloggio, vitto, vestiario, tutto pagato.

Quel debito di cento lire non poteva far molta impressione su Orlandi; anzi, se fosse stato il caso di esprimere netta e chiara la propria opinione, non avrebbe esitato a dichiararlo una vera miseria. Tuttavia, per non irritare maggiormente l’esattore, egli mostrò di comprendere la sua indignazione, soggiungendo però molte cose a discolpa di Carlino; l'età, l'occasione, l'esempio, i compagni.

— Appunto i compagni!

Il signor Caccia, accentuando la frase, fulminò il giovane con un’occhiata olimpica.

— È molto tempo che non faccio vita con Carlino.

Orlandi disse queste parole semplicemente, senza avere l’aria di discolparsi: tanto che il signor Caccia tornò ad aver vergogna de’ suoi trasporti, e si rinchiuse in una taciturnità piena di sussiego, piú che mai impettito.

— Il motivo che qui mi conduce — continuò Orlandi con voce chiara, ben timbrata — è di natura così opposta alle preoccupazioni in cui la vedo assorto, che temo...

Si fermò, non perché non sapesse che dire, ma perché voleva che l'altro lo incoraggiasse.

— Parli pure liberamente; sono avvezzo a far tacere i miei sentimenti particolari. Quando si [p. 217 modifica]occupa un posto di pubblica fiducia... Dica, insomma, dica.

Pronunciò queste parole con molta dignità, tenendo il pugno teso sulla scrivania, la faccia immobile.

— Lei saprà che ho terminato la pratica d’avvocato nello studio di Sandri.

— Mi pare infatti di averlo sentito dire. Gliene faccio i miei complimenti.

— Grazie! ma, come può credere, non è per questo che son venuto. Ho premesso il fatto de’ miei studi compiuti per ispirarle la fiducia della quale ho bisogno...

Lieve esitazione; immobilità perfetta del signor Caccia.

— ... nel momento in cui vengo a chiederle la mano di sua figlia Teresa.

Dette queste parole, Orlandi alzò la bella fronte altera, dove si leggeva la persuasione dei propri meriti e la grande fiducia del suo amore corrisposto. [p. 218 modifica]

Per qualche istante il signor Caccia non diede alcuna risposta, sembrava pietrificato. In realtà pensava alle frequenti passeggiate d’Orlandi nella via di San Francesco, ad alcune allusioni scherzose udite in caffè, alle distrazioni di Teresina, e, se non avesse avuto un illimitato rispetto di se stesso, si sarebbe dato della bestia per non aver subodorato la faccenda. Ma riguardoso piú che tutto del decoro, si fermò e, accontentandosi di inarcare le ciglia col piú severo de’ suoi sguardi disse:

— Obbligatissimo dell'onore... ma... la sua posizione...

— Non è assicurata, — interruppe il giovane con fuoco — è vero; tuttavia quell’amore che mi fece superare i primi ostacoli, mi aiuterà a vincere gli altri. Solo ch’ella voglia darmi appoggio.

— E quale appoggio?

Orlandi non si era immaginato, preparandosi al colloquio, che questo argomento dovesse riuscire così scabroso. A pensarlo non era stato nulla; sul punto di tradurlo in parole balbettò:

— Quando avessi una piccola somma per l'avviamento...

— Ah! Ed ella conta su di me per questo? Mia figlia non ha dote. Ho quattro ragazze, signore, e se dovessi dare una dote a tutte quattro, non resterebbe altra risorsa a mio figlio che quella di andare a fare il contadino.

L’evocazione di suo figlio inasprì maggiormente [p. 219 modifica]il signor Caccia. Si levò in piedi, tutto rosso e sbuffante, deciso a troncare bruscamente la quistione. Soggiunse a questo proposito:

— No, mia figlia non è per lei.

Orlandi, pallido d’ira, era stato ad ascoltarlo senza poter credere alle proprie orecchie. Le ultime parole lo ferirono come freccia; fece un passo avanti, baldo, sicuro coll’occhio che gli fiammeggiava, colle vene della fronte leggermente gonfie:

— Signor Caccia, amo sua figlia, e le mostrerò che non ho bisogno della dote. Se ella avesse avuto un po’ di fiducia in me, un po’ d'affetto per Teresina, noi saremmo piú prontamente felici. Così è una quistione di tempo, e per parte mia avrò il piacere di non doverle nulla. A rivederla.

Uscì bruscamente, lasciando l'esattore intontito.

La signora Soave fu la prima a ricevere il contraccolpo della scena. Suo marito la trovò nella camera nuziale, genuflessa davanti al bambinello di cera.

— Non si può proprio fidarsi di nulla in questa casa! Dovrei aver occhio a tutto; agli affari, all’azienda domestica, al figlio, alle ragazze!

— Che hai Prospero?

Ella si alzò, un po’ tremante, vedendo che suo marito dava la chiave all'uscio.

— Ebbene?

Il signor Caccia stette zitto un momento, tanto [p. 220 modifica]da comporsi in attitudine severa, ferma; poi, con quanta maestà poté mettere al di sopra della sua collera, disse:

— Non ti sei mai accorta che Teresina amoreggi con qualcuno?

Un rossore di fanciulla spaurita apparve e sparì subito dalle guancie della signora Soave; ella balbettò abbassando gli occhi:

— Sai bene, le ragazze...

— Come? — interruppe tuonando il signor Caccia. — È di mia figlia che debbo udire queste cose? Sono questi i principii da me inculcati? Sono questi gli esempi dati?

— Volevo dire... Non c'è niente di male in ciò. Teresina ha quasi ventitre anni; sarebbe tempo che si mettesse a posto.

— E per mettersi a posto fa la civetta cogli scapestrati!

Udendo parole così grosse, la signora Soave si turbò tutta, e riprincipiò a tremare; non bastandole l’animo di tener fronte a suo marito, eppure disperata per le accuse fatte a Teresina.

— Come puoi dire così di una ragazza tanto buona?

La frase le venne spezzata due o tre volte dai singhiozzi, i quali non commossero affatto il signor Caccia, fisso nel principio dell’inflessibilità.

— Era una buona ragazza, o almeno la credetti tale, il che è certamente piú esatto; perché una [p. 221 modifica]figlia rispettosa non si sarebbe mai arrischiata a incoraggiare, senza il consiglio dei genitori, l'amore di un giovane ozioso e vagabondo.

— Pare che egli metta giudizio. Ha terminato gli studi, ha fatto la pratica… — E poi?... e poi non ha un soldo. Non ha una professione. Aspettando che gli capitano i clienti vorrebbe mangiarsi la dote della moglie. Bel partito!

Ella fu sopraffatta dall’evidenza del ragionamento. Per quanto il signor Caccia vi aggiungesse di suo, spinto da una naturale antipatia, la posizione di Orlandi non era la più sicura.

Avvezza d’altra parte a riconoscere sempre, in ogni occasione, la superiorità di suo marito, si persuase che egli aveva ragione in massima; salvo il caso che Oralndi, col suo ingegno, riuscisse a far fortuna.

— E però — disse ancora la signora Soave, sentendo nel cuore tutta l’angoscia della figlia — se egli mostrasse di far bene veramente, se ottenesse un impiego, che so io? Un mezzo per crearsi una posizione onorevole, non saresti disposto ad anticipare qualche cosa a quella povera ragazza?

— Si vede proprio che non hai un’idea pratica della vita, che sei una donnicciuola, non capace che di cianciare.

— La mia dote… — La tua dote, divisa in cinque, non darebbe a [p. 222 modifica]ciascuno il pane. E abbiamo il maschio, il sostegno della famiglia! È per lui che dobbiamo fare dei sacrifici. Quando saremo vecchi non è dalle ragazze che potremo sperare aiuto. Il maschio porta il nome e l’onore dei Caccia: non posso trascurare il suo avvenire per dare alle femmine una dote, che andrebbero a portare in casa altrui.

La signora Soave non parlò piú. Era convinta, rassegnata; piegava il capo davanti all'eloquenza del marito, fatta persuasa da una lunga abitudine che le donne devono cedere sempre.

Lo strazio fu quando dovette spiegarsi con Teresina. La ragazza aveva già letta la propria sentenza sul volto accigliato del padre, che a lei non si degnò dir nulla; ma quando la mamma tentò di rimuoverle il pensiero di quell'amore, mostrandole che non poteva condurla ad altro che a gravi dispiaceri, ella proruppe in un pianto così disperato, e si disse cosí ferma nella decisione di sposare Orlandi, che la signora Soave dovette, per la prima volta, riconoscere in sua figlia qualche somiglianza coll’energia e colla fermezza del signor Caccia.

Né tale scoperta in quel momento poteva farle piacere, che vide subito a quali attriti sarebbero giunti i due caratteri in lotta. Veramente spaventata, ella chiese a Teresina, se avrebbe avuto il coraggio di resistere a suo padre.

Senza esitare la fanciulla rispose:

— Sì. [p. 223 modifica]

— Di disobbedirgli?

Il sì, questa volta non venne cosí subito.

— Disobbedirgli veramente... non credo... ma nemmeno rassegnarmi.

— Figlia mia! — gridò la povera donna singhiozzando — non vorrai dare a me e a tuo padre il dolore di maritarti, senza la nostra benedizione!

Teresina la rassicurò, dicendole che non avrebbe fatto cosa che potesse recare disonore o dispiacere alla propria famiglia.

— E allora?

— Aspetterò.

E perché questa parola non avesse da essere fraintesa, soggiunse prontamente:

— Orlandi mi ama ed io ho fede in lui. Fra un anno egli avrà una posizione così brillante che mio padre non potrà piú rifiutarlo per genero.

La signora Soave credeva di sognare. Sua figlia parlava con sicurezza, coll’accento di una volontà irremovibile. La guardava e le sembrava trasfigurata: piú alta, colle linee del volto che avendo perdute le rotondità esuberanti della giovinezza, davano alla fisionomia una espressione caratteristica. Aveva nell'occhio la serietà pensosa delle donne che amano, e il raggio di quelle che si sanno amate. Era nel massimo sviluppo della sua bellezza e della sua forza.

— Che Dio t’ascolti e ti benedica! [p. 224 modifica]

La madre non trovò altro da dire. Dopo averla contemplata se la tirò vicina, abbracciandola, ravviandole i capelli sulla fronte, come avrebbe fatto con un bambino; presa tutta dalla tenerezza di quella grande passione.

La sera stessa Teresina riceveva una lettera d’Orlandi, nella quale il giovane le giurava eterno amore.

Madre e figlia piansero nel leggerla.