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Caffè di piazza a leggere i giornali, lo schiamazzo ricominciava fra Carlino e le gemelle, aiutato dai vagiti lamentosi della poppante, rotto dalle supplicazioni di Teresina e dai gemiti della signora Soave.
Così tutti i giorni.
Trascorse novembre. Alle nebbie grigie successe la neve, la folta neve che si addensava intatta nella via, coprendo l’erba, coprendo i sassi, smorzando i passi dei rarissimi viandanti; la neve bianca che gravava sui tetti, gettando intorno un riflesso fastidioso; l’eterna, instancabile neve che scendeva lenta, eguale, senza posa; tanto fitta, qualche volta, che sembrava una cortina davanti alle finestre.
Allora il salotto dei Caccia diventava ancor più buio; Teresina era obbligata a stare in piedi sul gradino di legno, colle tendine alzate, la fronte appiccicata sui vetri, cucendo rapidamente nelle ore brevi del giorno. Stanca, di tratto in tratto sollevava gli occhi e guardava nella via, dirimpetto a lei, il palazzo Varisi, ermeticamente chiuso, tutto nero, in mezzo alla neve.
— Tralascia di lavorare; moviti un poco — diceva la madre.
Ma dove muoversi? Fuori del salotto tutta la casa era di gelo; Teresina soffriva il freddo, aveva qualche screpolatura nelle mani; preferiva starsene nella sua triste nicchia, lavorando e guardando la neve.