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gandolo a pensare, avrebbe pensato. E gli stava al pelo, assiduamente, rigorosamente, terrorizzandolo co’ suoi occhiacci e colla sua voce sgarbata di falsetto, facendogli entrare il latino a furia di scappellotti.
Il ragazzo che a spinte era arrivato alla quarta, procedeva come succede talvolta, a qualcuno, trovandosi in mezzo alla folla, di non camminare colle proprie gambe, ma di lasciarsi portare dalla massa; e studiava, studiava, stringendosi colle mani la zucca, finchè il terribile babbo lo stava guardando — salvo a prendersi poi la rivincita, fuori, nelle vie solitarie coperte d’erba, dove i suoi compagni lo aspettavano, bighellonando, nelle ore tiepide del meriggio; e sull’argine, verso i boschi, dove la riva digrada a filo d’acqua, dove crescono abbondanti i cespugli delle more sotto l’ombra lunga dei pioppi.
Dirimpetto allo studiolo nel quale Carlino compiva il suo tirocinio forzato di genio in erba, dall’altra parte dell’andito, si apriva una gran camera bislunga, scura e triste, il gineceo della famiglia; lì stavano le donne a cucire, a ripassare il bucato, a fare i conti della spesa giornaliera; vi si pranzava anche, e si passavano le sere d’inverno, intorno a una vecchia lucerna ad olio, accomodata per uso di petrolio. Il mobiglio, poco su poco giù, somigliava a quello dello studiolo; invece della libreria, un armadione di legno bianco, un