Sull'Oceano/Sul Rio de la Plata

Sul Rio de la Plata

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SUL RIO DE LA PLATA


Dormire? Mentita speme. Come accade a tutti dopo una giornata d’agitazione alla quale si sappia che ne seguirà un’altra non meno agitata, i passeggieri non dormirono che quanto voleva irresistibilmente la stanchezza: verso le due dopo mezzanotte quasi tutti si svegliarono, e tra sospiri di signore, sbadigli virili e conversazioni sommesse, che in quel silenzio del bastimento immobile sonavano come un ronzio di tafani, non vi fu più quiete. Un’ora prima dell’alba si sentirono dei passi affrettati e la voce del medico, accorso per uno svenimento della signorina di Mestre, alla quale aveva dato un crollo lo sforzo fatto il dì innanzi per salir sul cassero e far la sua ultima visita a prua. Poi cominciò [p. 404 modifica]il piccolo brasiliano a strillare e la negra a cantar la sua nenia. E allora tutti saltaron giù dalle cuccette e si misero ad apparecchiare rumorosamente le proprie robe, chiacchierando senza riguardi. Quando allo spuntare del giorno, dopo essersi scanagliati per mezz’ora nei corridoi, il cameriere e le cameriere entrarono col caffè nei camerini, trovaron già i passeggieri in piedi, lavati e strigliati, con la mancia alla mano.

Ruy Blas, presentandomi il vassoio, mi fece i suoi auguri di buona permanenza in America col suo porgere corretto di cameriere da palco scenico, ma con una voce così languida e cert’occhi di triglia così pesti, che anche un bambiino v’avrebbe letto il proposito di mostrare una grande mestizia per la sua separazione imminente dalla misteriosa creatura che l’amava. Mentre io sorbivo il caffè egli guardava il ciclo per il finestrino, mordendosi il labbro di sotto, come per reprimere la voce del cor ferito; e poi, prendendo la mancia, corresse l’umiltà dell’atto con un inchino elegante e pieno di dignità. Uscendo subito dopo di lui, lo vidi entrare nel camerino del prete; del quale intesi poco dopo la grossa voce che contava lentamente: — Dos, [p. 405 modifica]tres, cinco, seis... — lire, m’immagino, che Ruy Blas doveva ricevere nella mano aperta, come un accattone, fremendo di vergogna per la sua regina.

Sopra coperta, trovai il comandante e gli ufficiali in faccende. Erano saliti a bordo allora un impiegato gallonato del porto di Montevideo e un medico, — quello un omone con un fil di voce, questo un mezz’uomo con una voce di gran cassa; — i quali, dopo essersi informati dello stato sanitario dei passeggieri, si recarono a prua a contare il personale d’equipaggio. Tutti i passeggieri di terza, intanto, s’andavano radunando sul cassero centrale per sfilare davanti all’impiegato uraguayo che li doveva numerare, e al medico, che avrebbe fatto in disparte le facce sospette. Dal castello centrale si dovevano avanzare a uno a uno, passare sul ponte che correva di sopra alla “piazzetta„ e poi, scendendo dal cassero per la scaletta di destra, tornare a prua. Sull’ampio castello centrale non c’era più un palmo di spazio vuoto: una folla fitta come un reggimento in colonna serrata lo copriva da un capo all’altro, non levando che un leggiero mormorìo. Il cielo era rannuvolato; il fiume immenso, d’un color giallo di mota; e la città di [p. 406 modifica]Montevideo, lontana, non appariva che come una lunga striscia biancastra sopra la riva bruna, rilevata dalla parte d’occidente in un colle solitario, il Cerro, memore di Garibaldi: un paesaggio vasto e semplice, che aspettava il sole, in silenzio. Lontano fumavano dei vaporini che venivano verso di noi.

Salii sul cassero per vedere l’ultima volta i miei mille e seicento compagni di viaggio. Arrivarono pochi minuti dopo l’impiegato e il dottore uruguayo, il comandante, gli ufficiali, il medico di bordo. E la triste processione incominciò. Triste, non solo in sè medesima ma perchè quella numerazione della folla come d’un armento, del quale non importava a nessuno di conoscere i nomi, faceva pensare che tutta quella gente fosse contata per esser venduta, e che non ci passassero davanti cittadini d’uno Stato d’Europa, ma vittime d’una razzìa di ladri di carne umana fatta sopra una spiaggia dell’Africa o dell’Asia. I primi passarono lentamente. Ma a un atto d’impazienza dell’impiegato del porto, il comandante fece un cenno, e allora cominciarono ad affrettare il passo, a sfilare quasi correndo. Le famiglie passavano unite, il padre primo, le donne dopo, coi bimbi in collo e i [p. 407 modifica]ragazzi per mano, i vecchi dietro; quasi tutti portando sotto il braccio o sulle spalle gl’involti della roba più preziosa, che non s’eran fidati di lasciare nei dormitori. Molti erano puliti, e vestiti dei panni migliori, che avean tenuti in serbo per quel giorno; molti altri più cenciosi che alla partenza, imbrattati di tutto il sudiciume che si può raccattare strusciandosi per tre settimane in tutti gli angoli d’un bastimento, con le barbe lunghe, col collo nudo, con le dita dei piedi fuor delle scarpe; alcuni perfino senza cappello; e più d’uno si teneva chiusa a due mani la giacchetta senza bottoni, per nascondere la nudità irsuta del petto, che traspariva. Belle ragazze, vecchi inarcati, giovanotti di vent’anni, operai col camiciotto da lavoro, pastori dalle lunghe capigliature, contadine calabresi dal busto verde, zampitti, brianzole con le raggere di spille nelle trecce, montanare piemontesi con la cuffia bianca, si succedevano, l’uno mettendo il piede sull’orma dell’altro, come comparse sopra un ponte di teatro, in uno spettacolo che rappresentasse la fuga d’un popolo. Alcuni passavano saltellando, per ostentazione buffonesca d’allegrezza; altri con faccia torva, non guardando in viso nessuno, come se fossero offesi di quella berlina d’un momento. I borghesi, le mezze signore che portavano [p. 408 modifica]ancora in dosso qualche seguo dell’antica agiatezza, passavan con la testa bassa, vergognandosi. I vecchi lenti e le donne impacciate dagli involti erano spinti da parte, o cacciati innanzi con un urlone da quei che sopravvenivano, brutalmente; i bimbi piangevano, per paura di esser buttati giù; gli urtati bestemmiavano. Quante facce di mia conoscenza vedevo passare! Ecco l’ometto del telegramma alla moglie, con la sua faccia piena di rughe facete, che ha ancora l’aria di crederci; ecco il vecchio dal gabbano verde che corre coi capelli grigi al vento, gettando un’occhiata di sfida e di disprezzo ai passeggieri di prima affollati sul cassero; ecco il saltimbanco tatuato, le due coriste scarmiglione, la famiglia di Mestre, col piccolo Galileo che fa colazione correndo; ecco il portinaio pornografo, la bella genovese che passa col viso roseo e gli occhi bassi, la grossa bolognese che misura il ponte a passi imperatorii, col suo inseparabile borsone sul fianco, e l’omicida putativo del castello di prua, e la madonnina di Capracotta, e il barbiere latrante, e la povera vedova dell’assassinato. Via via che sfilavano, mi ripassavan per la mente tutti gli accidenti tristi e comici di quella strana vita di ventidue giorni, e tutti i sentimenti mutevoli di simpatia, di dispetto, [p. 409 modifica]di affetto e di diffidenza che quella gente m’aveva ispirati; ma che ora erano sopraffatti tutti quanti dal sentimento unico e profondo d’una pietà dolorosa e piena di tenerezza. E non finivan mai di passare, come se si fossero raddoppiati durante la notte. Ancora famiglie dietro famiglie, ragazzi dietro ragazzi, faccie di città e di campagna, dell’alta e della bassa Italia, figure di buona gente, di briganti, di infermi, d’asceti, di vecchi soldati, di mendichi, di ribelli, sempre più rapidamente correnti, come se gl’innalzasse il terrore di non arrivare in tempo in America a trovare la loro parte di terra e di pane. Oh l’interminabile miseranda sfilata! E l’immaginazione, come uno scherno, mi rappresentava ostinatamente, di là da quella miseria affannata, le baldorie patriottiche degli sfaccendati, dei benestanti o degli illusi, urlanti d’entusiasmo carnevalesco nelle piazze d’Italia imbandierate e splendenti. E provavo un senso d’umiliazione, che mi faceva sfuggire lo sguardo de’ miei compagni di viaggio stranieri, di cui mi giungevano all’orecchio come ingiurie al mio paese le esclamazioni affettate di compassione e di stupore. E intanto seguitavano a passar panni laceri, e canizie tristi, e donne sparute, e bimbi senza patria, e nudità, e vergogne e dolori. Lo spettacolo durò una [p. 410 modifica]mezz'ora, che mi parve eterna. Passò fra gli ultimi, lentamente, il frate dal viso di cera, colle mani infilate nelle maniche. Poi passò il drappello degli svizzeri col berretto rosso. E come Dio volle, fu finita.

Allora, dal primo vaporino arrivato salì sul piroscafo un branco di gente, parenti ed amici dei passeggieri, che si sparpagliarono a prua e a poppa, cercando con lo sguardo e chiamando per nome le persone; e cominciò da ogni parte un grande scambio di baci, d’abbracci e di saluti. Tre signori s’avvicinarono al supposto “ladro„ e mentre noi ci aspettavamo che l'arrestassero, tutti e tre si scappellarono e s’inchinarono profondamente, e l’uno disse: — Monsieur le ministre... — Caspita! Tutti rimasero stupiti. A giudicar le persone dai connotati! Ma l’attenzione di tutti fu attirata subito altrove da una scena penosa. Un giovanotto messo bene, e bello, ma antipatico, corse incontro ai miei due vicini di camerino, che si slanciarono tutti e due insieme verso di lui, esclamando: — Attilio! — Ma a due passi di distanza s’arrestarono, aspettando ch’egli scegliesse l’uno o l’altro da abbracciar pel primo, come se quella preferenza dovesse essere l’espressione d’un [p. 411 modifica]giudizio decisivo del loro passato e d’una sentenza irrevocabile del loro avvenire. Il giovane titubò un momento, non commosso però, guardandoli entrambi, e poi si gittò fra le braccia della signora, che lo strinse al petto con un’apparenza di grandissima tenerezza, smentita all’istante dallo sguardo satanico di trionfo che lanciò a suo marito. Questi impallidì come un morto, e si guardò intorno: tutti temettero che stramazzasse sul tavolato. Ma restò su, facendo un grande sforzo, e sorrise... di un sorriso da metter compassione e paura. Scioltosi dalla madre, il giovane s’avvicinò a lui, e gli diede sulle guance smorte un bacio freddo, che quegli non ebbe la forza di rendere. Tutti voltarono gli occhi in là, con un senso di ribrezzo, come alla vista d’un assassinio. E io me n’andai subito verso prua, senz’aver più il coraggio di girare uno sguardo su quel disgraziato.


Ma qui un’altra scena pietosa m’aspettava. Un crocchio di vecchi, donne e uomini, circondavano il Commissario, chiedendogli protezione e consiglio, affannati, spaventati, con le labbra tremanti. Erano di quei sessagenari soli che non potevano sbarcare senza che un parente [p. 412 modifica]prossimo si presentasse all’arrivo a farsi mallevadore dei loro mezzi di sussistenza. Ora i parenti che aspettavano non s’erano fatti vedere, e naturalmente, perchè essi dovevano sbarcare a Buenos-Aires; ma confondendo in quel momento l’Uruguay con l’Argentina, e trovandosi soli, si credevano perduti. Che cosa sarebbe accaduto di loro? Non si può dire l’angoscia e l’avvilimento di quella povera gente, che dopo aver abbandonato l’Europa, si credevano respinti dall’America, come inutili carcasse umane, neanche più buone a ingrassare la terra, e già immaginavano un viaggio di ritorno disperato alla patria, dove non avevano più affetti, nè casa, nè pane. Il Commissario cercava di persuaderli, che non s’era nell’Argentina, ma nell’Uruguay, che i loro parenti si sarebbero presentati a Buenos-Aires, dall’altra parte di quel fiume che vedevano, che si rassicurassero, che s’angustiavano senza perchè. Ma quelli non intendevano ragione, erano come istupiditi dall’affanno, e parevano anche più miseri e più infelici in mezzo all’allegrezza chiassosa dei giovani che ogni momento li urtavano, passando, e gridavan loro nell’orecchio: — Allegri, vecchi! — Viva la repubblica! — Viva l’America! — Viva la Plata! [p. 413 modifica]Stentai a liberare per un momento da loro il Commissario, per salutarlo, e da lui ebbi ancora notizia del giovane scrivano, il quale, disperato di doversi separare dalla genovese, che sbarcava a Montevideo, era stato preso da un accesso di convulsioni e metteva sottosopra il dormitorio. Poi andai a salutare gli altri ufficiali, che avrei riveduto di là a due mesi a Buenos Aires, dopo altre due traversate dell’oceano. Volli anche salutare il mio povero gobbo, che trovai sulla porta della cucina, con una padella alla mano.— Oh! finalmente! — esclamò, tirando un respiro di soddisfazione, — ci avremo ora dozze giorni senza donne — Eppure — gli dissi — voi finirete con pigliar moglie. — Mi — rispose, toccandosi il petto col dito — piggià moggè? — Poi in italiano, con una curiosa intonazione declamatoria: — Questo non sarà giammai! — E mi soggiunse nell’orecchio, contento: — Dozze giorni! — ma vedendo avvicinarsi il comandante, disse in fretta: — Scignoria, bon viaggio! — e strettami la mano, mi voltò il popone, e scomparve.

Intanto altri vaporini s’erano avvicinati, ed uno toccava la scala reale. Tornai sul cassero a salutare i passeggieri di prima che [p. 414 modifica]scendevano, in mezzo a un tramestio di valigie, a uno scambio vivace di strette di mano e di buoni auguri. Ed ebbi allora una prova di più di quanto sia difficile il conoscer la gente per viaggio. Certi passeggieri, con cui avevo avuto per tutto quel tempo una dimestichezza quasi d’amico, se n’andavano senza dir crepa o salutando appena col cappello, come se m’avessero già dimenticato: altri coi quali non avevo mai scambiato una parola, si vennero ad accommiatare da me con una espansione affettuosa e sincera, che mi fece rimanere. E fra molti altri interveniva la stessa cosa. Il marsigliese fu cordiale: mi ripetè che amava l’Italia, perchè gli uomini come lui erano superiori agli odi dei governi, e che avrebbe fatto il possibile per conciliar gli animi degli italiani e dei francesi nell’Argentina. — Tachez d’en faire autant parmi vos compatriotes. Quant’à moi, on me connait dans les deux colonies. On sait — concluse con un gesto siolenne — que j’apporte la paix! Adieu. — L’agente di cambio si presentò a salutare gli sposi, i quali s’intimidirono, presentendo la frecciata del Parto. — Oramai — disse loro — non troveranno più alcuna difficoltà per la lingua in America, perchè... sia detto senza rimprovero, un gran bell’esercizio l’hanno fatto! — E quelli [p. 415 modifica] scapparon giù per la scala. Allora egli apostrofò l’avvocato, che stava per scendere, con un involto rotondo sotto braccio, che doveva essere un salvavite: — Avvocato, ora sarà tranquillo. — Ma quegli, lanciando uno sguardo obliquo sul fiume, brontolò: — Non si sa mai. Alle volte questo sporco rio è anche più infame dell’oceano atlantico... — E cominciò a scendere con grandi precauzioni, non rispondendo ai saluti di nessuno. Discesero la signora bionda e suo marito, i miei vicini di camerino col figliuolo, la “domatrice„, la pianista e sua madre, i francesi, il prete, i passeggieri di seconda, ed altri. Quando tutti furon giù, seduti sulla piccola poppa, l’agente mi diede una gomitata in un fianco, esclamando: — Eureka! — e mi fece un cenno col viso. Guardai a destra, sul cassero del Galileo, e vidi affacciato al parapetto, in un atteggiamento studiato di amante pensieroso e afflitto, Ruy Blas, che teneva lo sguardo fisso sul vaporino, e seguendo la direzione del suo sguardo, andai a posare il mio sul viso della piccola pianista, impassibile come sempre ma con gli occhi rivolti a lui, con una fissità acuta e tenace, che non lasciava dubbio, che prometteva per la prima occasione una di quelle lettere matte e di quelle recisioni temerarie in [p. 416 modifica]cui si sfogavano da lontano le sue furibonde passioncelle compresse. — Ah la piccola Maria di Neubourg — esclamò l’agente, — regina delle gatte morte! — Ma già il vaporino s’allontanava. Quasi tutti ci salutarono con la mano. La signora grassa mandò un bacio al Galileo con un gesto impetuoso. Osservai ancora una volta il mio povero vicino di camerino, seduto in disparte dal figliuolo e dalla madre, per il quale cominciava una nuova vita di angoscia e di torture. E colsi a volo un curioso saluto della signora svizzera, la quale, non sapendo a chi rivolgersi particolarmente dei molti amici che la guardavan dal cassero, abbracciò con un largo e dolce sguardo di gratitudine tutta la poppa del Galileo. E l’ultimo che notai fu il professore, seduto accanto a lei, con la schiena arrotondata, sorridente con gli occhi socchiusi e la lingua a un angolo della bocca, in aria di beffarsi della moglie, degli amanti, dell’Atlantico, del vecchio continente e del nuovo. Poi tutti i visi si confusero e si perdettero ai miei occhi per sempre.

Un altro vaporino s’era avvicinato in quel frattempo, sul quale dovevano scendere gli argentini, la famiglia brasiliana e tutti gli altri. [p. 417 modifica]Ma nessuno, per delicatezza, volle scendere prima della signorina di Mestre, che si sapeva dover essere portata, e che ancora non s’era vista in coperta quella mattina. Il comandante, interrogato, scrollava il capo. Tutti stettero aspettando alla porta del salone, in due ali. Prima uscì il garibaldino che, pigliando per curiosità quell’aspettazione rispettosa, girò intorno uno sguardo sprezzante. Poi comparve la signorina, seduta sopra una seggiola a bracciuoli, portata da due marinai, e accanto la zia, con gli occhi rossi. La povera malata, vestita di nero, bianca come un cadavere, teneva la testa appoggiata sulla spalliera e le mani sulle ginocchia, come se non avesse più forza di moverle; ma nei suoi occhi che quasi non avevan più sguardo e sulla sua bocca da cui pareva che non uscisse più alito, errava ancora quel suo sorriso leggerissimo, d’una mestizia e d’una dolcezza infinita. Quando passò, tutti si scopersero, ed essa rispose con un movimento soave delle labbra, senza parola. I marinai si soffermarono vicino allo sportello della scala. Il comandante, tenendo il berretto in mano, la salutò, con quel laconismo secco con cui gli uomini burberi nascondono la commozione: — Buon viaggio, [p. 418 modifica]signorina... guarisca! — E si voltò bruscamente per ordinare che si facessero stare indietro gli emigranti ch’erano accorsi, e che a ogni costo si volevano affollare intorno alla ragazza, a cui avrebbero levato il respiro. Respinti, salirono brontolando sul castello centrale, per vederla scendere e partire. Il garibaldino fu l’ultimo a salutarla, mentre era già sul piccolo ripiano della scala. Essa gli porse la mano, ch’egli baciò, e poi, alzando l’indice in aria di rimprovero sorridente e amorevole, gli disse ancora una parola, ch’io non intesi. Egli chinò il capo, senza rispondere. I due marinai cominciarono a scendere con grande cautela, l’uno sorreggendo la seggiola pel davanti, l’altro per la spalliera, e avvenendo l’inferma che si tenesse forte ai bracciuoli: la zia le teneva dietro, ansiosa, raccomandandole di non guardare l'acqua. Quando furono in fondo alla scala, un marinaio del vaporino aiutò gli altri due, e, senza scosse, la deposero a poppa, rivolta verso il Galileo. Tutti gli altri discesero e presero posto: il solo garibaldino rimase a bordo, appoggiato al parapetto, poco lontano da me. il vaporino si mosse. Allora tra gli emigranti, che s’erano affollati al parapetto del castello centrale, proruppe l’ammirazione e la gratitudine per quella creatura [p. 419 modifica]angelica, che avevan visto tante volte in mezzo a loro, impietosita delle loro miserie, dolce con tutti come una sorella, e da cui tanti di essi avevan ricevuto conforti e benefizi: non s’intese un grido, ma un mormorio lungo di saluti, in cui parve che traboccasse tutto quello che le amarezze e i rancori d’un’esistenza travagliata avevan lasciato di buono e d’affettuoso in quella moltitudine. — Buon viaggio, signorina! — Dio la benedica! — Dio la faccia guarire!— Si ricordi di noi! — Buon viaggio alla nostra amica! — Addio! — Addio! — E sventolavano i cappelli e le pezzuole. Essa rispose con un saluto stanco della mano, e poi, con la mano stessa, alzando ancora una volta gli occhi velati e dolcissimi verso il suo amico, rifece quell’atto dell’indice, come per dirgli: — Ricordatevi!

Il vaporino era già lontano, e la sua figura spiccava ancora distintissima a poppa, come un fior nero in mezzo a un mazzo di vari colori confusi. Quando non apparve più che una macchietta nera piccolissima, si vide qualche cosa di bianco moversi sopra di lei: era lo sventolìo d’un fazzoletto. — Era per lui. — Gli diede uno sguardo. Ah! era troppo! Neppure in quel momento si scoteva! Ma nell’atto che dicevo questo [p. 420 modifica]tra me, la sua fronte si contrasse, le sue labbra tremarono, il suo petto si gonfiò, e tutt’a un tratto un singhiozzo gli scoppiò dal cuore, uno solo, netto, profondo, violento, come il grido d’un uomo a cui tutta l'anima si sollevi come un cavallone dell’oceano. Poi si coprì il viso con le mani. Era il pianto finalmente! Era forse la bontà, l’amore, la patria, la pietà delle miserie umane, erano tutte le forti e dolci virtù della sua giovinezza generosa che rientravano impetuosamente nel suo largo petto di ferro per il vano che v’aveva aperto quella piccola mano di moribonda; era forse l’umanità che riafferrava il suo soldato, il quale le si rigettava sul seno dopo un lungo oblio, come a una madre, domandandole perdono, e promettendole di ricominciare ad amarla e a servirla come nei begli anni della fede e dell’entusiasmo. La visione era svanita, la creatura benefica sarebbe morta; ma forse quel suo ultimo sorriso, che non era più d’una creatura umana, gli avrebbe rischiarato il cammino fino al suo termine, e quello sventolio bianco sarebbe rimasto per sempre sull’orizzonte della sua vita, come l’insegna della sua redenzione.

Egli continuò a rimanere immobile contro al parapetto, con le braccia incrociate, come [p. 421 modifica]inchiodato là da un pensiero nuovo e profondo che assorbisse tutta l’anima sua, ed era là ancora quando, ritto sopra un nuovo vaporino in mezzo a un gruppo d’amici, io vedevo il colossale Galileo a poco a poco abbassarsi e accorciarsi, mostrando però sempre lungo i suoi parapetti le mille teste degli emigranti, come il formicolio d’una folla affacciata agli spalti d’una fortezza solitaria in mezzo a una pianura senza fine. E riandando rapidamente quel viaggio di ventidue giorni, mi pareva davvero d’essere vissuto in un mondo a parte, il quale, riproducendo in piccolo gli avvenimenti e le passioni dell’universo, m’avesse agevolato echiarito il giudizio intorno agli uomini e alla vita. Molta tristizia, molte brutture, molte colpe; ma assai più miserie e dolori. La maggior parte delle creature umane è più infelice che malvagia e soffre di più di quello che faccia soffrire. Dopo aver bene odiato e sprezzato gli uomini, senz’altro frutto che di amareggiarci la vita e d’inasprire intorno a noi la malvagità che ce li rese odiosi e spregevoli, noi ritorniamo all’unico sentimento sapiente ed utile, che è quello d’una grande pietà per tutti: dalla quale, a poco a poco, gli altri affetti buoni e fecondi rinascono, confortati dalla santa speranza che, nonostante le contrarie apparenze [p. 422 modifica]passeggiere, l’immenso peso dei dolori scemi lentamente nel mondo, e l’anima umana migliori.

Quando misi piede a terra, mi voltai a guardare ancora una volta il Galileo, e il cuore mi battè nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che m’avesse portato fin là. Esso non era più che un tratto nero sull’orizzonte del fiume smisurato, ma si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figliuoli raminghi.


FINE.