Storia di Torino (vol 1)/Libro VI/Capo VII
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Capo Settimo
Partecipò a due guerre. Nella prima stette con Francia contea gl’imperiali, conquistò il Milanese, e vinse la famosa battaglia di Guastalla, ed ottenne alla pace nuovo accrescimento di Stato, il Novarese ed il Tortonese (1738).
Nella seconda fu alleato di Maria Teresa; le armi Piemontesi s’illustrarono particolarmente alla battaglia dell’Assietta. Alla pace d’Acquisgrana la Monarchia di Savoia s’accrebbe dell’alto Novarese, del Vigevanasco, del Pavese tra il Po ed il Ticino, dell’Oltrepò, del Bobbiese (1748).
Seguitarono lunghi anni di pace, ne’ quali le in defesse cure del re continuarono il misurato ordinamento dello Stato, ed in particolar modo operarono il rifiorimento dell’isola di Sardegna, che di Spagnuola, e diserta d’ogni bene, e priva quasi d’ogni lume di lettere ridivenne Italiana, s’ornò di due università, s’aperse all’industria ed al commercio. Leggi buone, secondo i tempi, leggi migliori, che negli altri paesi già promulgate dal padre nel 1723, furono ampliate e migliorate da lui. Infine nulla mancò alla fama di Carlo Emmanule iii, neppure la severa regolarità de’ costumi, che non sempre s’accoppiava alla cristiana pietà de’ suoi predecessori.
Frattanto da oltre due secoli la città di Torino s’andava detergendo ed ampliando. Nuovi quartieri le si aggiungeano a mezzodì ed a levante, nuovo giro di mura e di bastioni ne fortificava la cerchia ingrandita. Nobili edifizi, i primi che chiamar si potessero palagi, sorgevano tempo a tempo, e chiese piccole sì, ma ornate. Gli uni e le altre facean fede della gagliarda fantasia e dell’acuto ingegno degli architetti, pittori, scultori del seicento. Al principio del secolo xviii un novello quartiere accrebbe la città a ponente, e Filippo Juvara, architetto siciliano, ricondusse fra noi gli esempi d’uno stile più classico, e ne lasciò illustre memoria nella facciala del castello (palazzo di Madama). Nobilitandosi la città crebbe la vigilanza del Vicario cui n’era commessa la polizia; al qual ufficio assai delicato perchè è in perpetuo contatto cogli interessi più vivi, e, dirò così, quotidiani del popolo, venivano proposti dal consiglio della città e dal re approvati decurioni di alti natali e di specchiata prudenza: Romagnani, Provana, D’Angennes, Radicati, Castellenghi. Verso la metà del secolo xiv la città di Torino compresa da levante a ponente fra il castello e il palazzo Paesana, e da mezzodì a settentrione fra la via Sta Teresa e le Torri (l’antica porta Palazzo) non passava il novero di 4200 o 4500 abitanti.
Nel 1584 vi si coniavano da 9000 a 10000 abitanti distribuiti in tredici parrocchie.1 Nel 1598, ordinatasi la consegna delle vettovaglie, risultarono, bocche 11601, numero di certo inferiore al reale pel sospetto che sempre destan nel popolo i censimenti.2
Cent’anni dopo scriveva l’abate Pacichelli che le anime in Torino si stimavano arrivare ad ottanta mila.3
Nel 1782, scriveva il Galante, Torino contenere trentadue strade incrocicchiantesi ad angoli retti, dividenti la città in 139 isolati, illuminate da 630 fanali. Stimava la popolazione di Torino, nel recinto chiuso di 70984 abitanti, oltre a 17098 ne’ borghi e nel territorio.
Ora ha da 120m abitanti.
Ho ragione di credere che la stima del Pacichelli sia esagerala, poiché nel 1701 uno stato dell’anime desunto sia dalla nota de’ parroci, sia dal ruolo de’ cantonieri, ne assegna sole 44868, non compresa la guarnigione; e nel 1703, 46045, fra cui 818 preti, 760 regolari, 397 monache, 2407 servi, 2600 serve, e 13644 persone abili all’armi. Nel 1709, 49729; nel 1720, 47816; nel 1740, 69992, di cui 58832 in città, il resto ne’ borghi e nel territorio.
In febbraio del 1773 Vittorio Amedeo iii succedette al padre. Principe di vivace ingegno, di tratto cortese, ammaestrato in molle e gravi ed amene discipline, facondo favellatore, dava speranze che poi non portarono fruiti corrispondenti. Imperocché a queste belle doti s’accompagnava leggerezza di carattere ed incostanza di voglie. Era inoltre largo spenditore, quanto il padre era temperato e rattenuto, e nondimeno prometteva più che non volesse o potesse attenere. A questi inconvenienti dell’indole sua si aggiunsero le difficoltà dei tempi, la rivoluzione francese che s’avanzava gonfia di procelle; la quale, scoppiando, non solo rovesciò il trono de’ suoi re, ma invase l’Europa, alzando stendardi e voci di libertà, di virtù, di fratellanza, d’eguaglianza, di sovranità popolare, onde uscivan faville che accendevano le menti dei popoli; e li summoveano contro ai loro principi, adescavano le anime semplicette, gli uomini che innamorati delle apparenze virtuose, come Isione della nuvola, non penetrano più addentro col guardo; e quelli che rabbrividiscono e s’arrovellano al vedere un abuso della forza brutale, una oppressione, miserie inseparabili da quella vasta miseria del mondo corruttibile, e non calcolano quante migliaia di violenze, quante migliaia d’oppressioni si commetteranno per fondare un altr’ordine politico, il cui principal vantaggio sarà di cambiar i nomi delle cose e delle persone.
Negli ultimi mesi del 1792. la Savoia e Nizza furono occupate dai Francesi. Le truppe regie mal governate non sostennero l’antica fama. Poco dopo l’ammiraglio Truguet tentò, ma invano, d’impadronirsi della Sardegna. Nel 1793, i Piemontesi segnalaronsi ai colli di Raus e d’Authion, e giustificarono l’alto concetto in cui le teneva, e sempre li tenne un giudice competente, Napoleone, il quale diceva e scriveva: che il re di Sardegna con un solo de’ suoi reggimenti era più forte che tutta la Cisalpina. Ma gli Austriaci, alleati del re, non ne secondavano i generosi disegni. La guerra durò con varie fasi fino al 1796. Vittorio Amedeo logorava l’erario, e l’esercito logorava la sua canizie fra continui affanni, senza alcun prò. Parziali turbolenze, sintomi di malcontento, cominciavano a turbarne lo Stato. In aprile del 1796 giunge Buonaparte, l’uomo fatale, e colle battaglie di Montenotte, di Millesimo, di Mondovì, costringe il re di Sardegna a chieder pace. Un armistizio fu conchiuso a Cherasco: e il 15 maggio 1796 col trattalo di Parigi Vittorio Amedeo cedette alia Francia la Savoia, Nizza, Tenda; ai obbligò a demolire le fortezze d’Exilles, di Susa, di Demente; consentì che fossero occupate dai Francesi Cuneo, Ceva, Tortona, Alessandria, Casteldelfino e l’Assietta; concedette un indulto pe’ delitti politici; accomiatò gli emigrati.
Da quel momento l’antica monarchia di Savoia fu alla mercè de’ Francesi. Il re lo senti, e poco sopravvisse a tanto sconforto. Il 16 d’ottobre del l’anno medesimo gli succedeva Carlo Emmanuele iv, principe di molto ingegno, di sicuro giudicio, ma più abbondevole di virtù private che di qualità regie. Religioso mantenitor della data fede verso una repubblica che doveva abborrire, divenuto anzi il 5 d’aprile 1797 alleato de’ Francesi colla fallace speranza di salvar lo Stato, furono, i due anni che si lasciò durare il suo regno, un lento martirio. I Francesi, padroni delle fortezze, dappertutto gittavano semi di rivoluzione, preparavano sollevazioni, davano spinta ai malcontenti, stendean la mano ai ribelli. Se il re, compiendo ad un suo stretto dovere, cercando di mantener l’ordine, usava severità contro ai turbolenti, contro ai sediziosi, tosto s’accusava di opprimere gli amici della Francia, d’incrudelire contra persone non d’altro colpevoli che di mostrar simpatia per la gloriata rivoluzione francese. Protestavano i ministri francesi di non potersi più fidare di Carlo Emmanuele: avvilupparsi il suo governo in tenebrose macchinazioni contra la Francia. Dappertutto covar insidie contra la grande nazione. I traditori accusavano il re di tradimento, appunto come que’ che assaltano alla strada chiaman birbanti e ladroni i viaggiatori inermi da loro spogliati.
La condotta che tenne allora il governo francese fu e sarà perpetuamente infame. In luglio del 1798 Brune e Ginguené vollero aver nelle mani, come sicurtà della fede del re, la cittadella di Torino; e l’ebbero. Carlo Emmanuele fu d’allora in poi prigioniero nella sua reggia, dalla quale fu espulso il 6 d’ottobre 1798. Riparò nell’isola di Sardegna. Addì 20 di giugno dell’anno seguente gli Austrorussi comandati dal celebre maresciallo di Souwarow, vinti i Francesi a Cassano, occupata Milano, scendeano in Piemonte e ripigliavano ai medesimi la cittadella di Torino. Torino governossi allora di nuovo a nome del re da un consiglio supremo. Ma bentosto la fortuna francese, sorretta dalla mano potente di Napoleone, prevaleva di nuovo; e la battaglia di Marengo assicurava alia Francia le sue conquiste, a Buonaparte l’impero, già cominciato sotto al nome di Primo Console. Nel 1802 il Piemonte fu riunito alla Francia. Perduta l’indipendenza nazionale, ridotto a provincia, spopolato dalla coscrizione, fu per altro di più perfetti ordini amministrativi, e di buone leggi ristorato, e come ritemprato ne’ quattordici anni che rimase sotto al dominio straniero. E molti Savoiardi e Piemontesi, alzati in quel vastissimo impero a più larga sfera d’azione, o militare, o civile, accrebbero la patria gloria. Torino, sede di corte principesca, fu abbellita del magnifico ponte del Po, fu risanala e fatta capace di futuri ingrandimenti, coli’abbattersi delle fortificazioni.
Giorno di giubilo inebbriante, universale fu ai Torinesi il 21 maggio del 1814, quando rientrò fra le loro mura Vittorio Emmanuele che fin dal 1802 era, per la rinunzia del fratello, ascéso al trono. Il Piemonte ricuperava l’indipendenza e la dignità di nazione. Torino ridiveniva sede de’ suoi re. Troppa sarebbe stata la gioia, se con improvvido consiglio non si fossero abrogati ad un tratto gli ordini e le leggi, frutto d’un misurato progresso, dovuti all’alto senno di Napoleone e di que’ sommi di cui sapeva adoperare ed assimilarsi la mente; e non quelle sole che ripugnavano ai precetti della Chiesa, od ai bisogni della nazione.
Egli stesso, il buon re Vittorio Emmanuele, ravveduto, e cinto di più prudenti ministri, adoperossi con ogni sforzo a medicar tal ferita; ed egregio medico avea scelto, il conte Prospero Balbo. Ma i disordini del 1821 ne rendettero sciaguratamente inoperoso il valore, e solo in parte delle riforme già preparale trasse profitto il re Cario Felice.
Al re Carlo Alberto era riservata la gloria di avanzar di tanto con una general riforma della legislazione e degli ordini amministrativi il buon viver civile, sicchè uno Stato che racchiude elementi sì copiosi di prosperità non abbia a vedere tra le nazioni che lo circondano nè molte leggi più savie, nè molti ordini più perfetti.
Durante il regno di Carlo Felice, e più in quello di Carlo Alberto, la città s’ampliò da tre lati, e massimamente a levante, e tra levante e mezzodì, coll’aggiunta del borgo nuovo che è quasi una seconda e assai più lieta città. Carlo Felice costrusse il magnifico ponte sulla Dora. Carlo Alberto di bel monumento nobilitò la piazza di S. Carlo, di memorabili sepolcri la cappella mortuaria del Santo Sudario.
Ma siffatti particolari ed altri molti, che per non inceppare la narrazione storica abbiam trasandato, sono da riservarsi al secondo volume, dove troveranno sede appropriata, fra le altre descrizioni.
Intanto qui ha fine la storia.
Note
- ↑ [p. 506 modifica]Il duomo, S. Silvestro (Spirito Santo), Ss. Simone e Giuda (in Dora Grossa, poi trasferita al borgo di Dora), Santa Maria di Piazza, Sant’Agostino, S. Paolo (la basilica de’ Ss. Maurizio e Lazzaro), S. Michele (sulla piazza della Frutta), S. Dalmazzo, Sant’Andrea (la Consolata), Sant’Agnese (la Trinità), S. Tommaso, S. Martiniano, Sant’Eusebio (a capo della via di S. Maurizio, presso le mura). Il duomo avea 4000 anime, S. Tommaso 2000, S. Dalmazzo, 1000, Sant’Agostino 600, Sant’Andrea 500, ecc.
- ↑ [p. 506 modifica]Archivi di corte
- ↑ [p. 506 modifica]Memorie de’ viaggi dell’abate Pacichelli, iii. 511 (Napoli, 1685).
FINE DEL VOLUME PRIMO.