Storia di Torino (vol 1)/Libro III/Capo VI
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Capo Sesto
Mentre così travagliavano le cose, e la parte guelfa o papale soverchiava la ghibellina, il vescovo Arborio, uscito di carcere, contendeva con Tommaso ii per la restituzione de’ castelli di Montosolo, Castelvecchio, Rivoli, Lanzo e per Moncalieri. Due cardinali legali del papa udirono le rispettive ragioni. Poi accordarono che Montosolo si rendesse subito. Si rendesse in termine di tre mesi Castelvecchio che Tommaso dovea prima ricomperare dagli Astigiani. Questo principe dichiarò che su Lanzo non aveà ragione e lo tenea solamente a titolo di guardia; e che, non egli, ma Amedeo iv suo fratello signoreggiava la terra di Rivoli. Circa a Moncalieri il vescovo si riservava di provare i diritti della sua chiesa sopra Testona, di cui si edificò Moncalieri.1
Ma in breve cessarono queste rigorose indagini sulle terre della chiesa Torinese, da Tommaso ii occupate col favor imperiale. Innocenzo iv, che facea gran caso di questo principe, volendo assicurarsene con perpetuo nodo la fede, gli diè in moglie una sua nipote; e per non mostrarsi inferiore in libe ralità a Federigo ii, gli fe’ nel 1252 dal nuovo Cesare Guglielmo d’Olanda far concessione di Torino, d’Ivrea, del Canavese, di tutte in breve le terre che quell’imperatore gli avea quattr’anni prima donate, aggiungendovi i feudi di Bertoldo di Non, Rivoli, Bruino e Celle; e la facoltà di coniar nuove monete, d’aprir fiere e mercati, di levar pedaggi e gabelle.2 Così dai capi di due opposti partiti veniva il principe di Savoia dotato d’uno splendido accrescimento di signoria. E nondimeno di questo dono non conseguì Tommaso che una parte. Non Ivrea nè il Canavese. Moncalieri che già possedeva, gli uscì di mano, e si rimise in libertà. Ebbe Cavoretto e Torino col ponte e colla bastia o motta che lo signoreggiava.
Così tornò la città di Torino all’obbedienza d’un principe; ma giustizia vuole che si rammenti, come essendo Tommaso investito del solo alto dominio, e di qualche diritto utile dell’impero, poco o nessun impedimento facesse al libero esercizio del governo autonomo o comunale la superiorità che gli apparteneva, e che venne dai Torinesi per tre anni all’incirca riconosciuta e rispettata.
Di fatto quell’aumento di Stato non accrebbe la potenza del principe, il quale in que’ giorni medesimi in cui gli giungevano i diplomi del re de’ Romani, impacciato, per voler ricuperare la terra di Moncalieri, in una guerra con Asti ne uscì colla peggio, e fu costretto a promettere: procurerebbe di farsi assolvere dall’omaggio che doveva al conte di Savoia suo fratello per tutta la terra che possedeva al di qua dai monti, e ne farebbe invece omaggio al comune d’Asti. E ad ogni modo farebbe omaggio a quel comune di Cavoretto e del rimanente suo Stato, eccettuandone Torino, col ponte e colla motta o bastia. In quanto a Moncalieri, si lasciassero le cose nello stato in cui erano finché piacesse al comune di Pavia. Ma se Tommaso volesse ricominciare guerra co’ Moncalieresi, gli Astigiani avessero facoltà d’aiutarli. Promise ancora il principe che non farebbe nuovo acquisto al di là del Po senza consentimento degli Astigiani.3
Ma vittima e ludibrio di più crude! fortuna esser dovea Tommaso; cresciuto in potenza dopo la morte del fratello Amedeo iv (1253) per la tutela che gli fu data di Bonifacio suo nipote, e la luogotenenza degli Stati di Savoia in Italia, e ancor più per la tutela che similmente esercitava di Tommaso marchese di Saluzzo, con autorità quasi assoluta sopra lo Stato di lui, tanto maggior paura e gelosia ispirava ai liberi comuni. E la paura ne’ popoli non usi a servire è causa più che sufficiente d’odio mortale.
Chi primo ripigliasse le armi non è noto. Forse fu Tommaso, il quale certo è che nel 1255 erasi rinsignorito di Moncalieri, ed avea lega ed amistà coi Cheriesi. Poco tardarono gli Astigiani a giungere col loro esercito in quelle vicinanze. Affrontali dalle genti Cheriesi, capitanate dal marchese Manfredo Lancia, le ruppero, e sul calor della vittoria s’impadronirono di Moncalieri, traendo prigione l’abbate di Susa, gran fautore e principal ministro di Tommaso ii. Ciò accadde in dicembre del 1255. Il principe, udita l’infausta nuova, corse in fretta co’ suoi Torinesi per ristorar, se si potesse, con migliori successi la guerra. Ma scontrati i nemici a Montebruno, le sorti della battaglia gli fur tanto avverse, che si salvò colla fuga, lasciando un gran numero di cittadini morti, o prigionieri.
Gioco peggiore la fortuna matrigna gli avea preparato a Torino. I cittadini levali a rumore gli domandarono conto de’ loro fratelli periti, o tra’ferri te donne del volgo soprattutto segnalavansi nel gettar alte strida, e minacciavano di farlo a pezzi, quasi che per corrispettivo dell’obbligo che aveano i Torinesi di servirlo in guerra, egli avesse quello di farli vincere; o come se il vincere stesse in lui solo, e che per proprio diletto, o per nuocere a’suoi soldati, ei si fosse lasciato sconfiggere. Il vero si è che fu quello un laido tradimento; opprimere il proprio principe nella sventura. Già molto prima doveano i Torinesi, ormai usi a libertà, aver mulinato qualche insidia per levarselo dinanzi. Non l’avrebbero forse tentato, se tornava colla vittoria. Vedutolo vinto, colser tempo, e caricatolo di catene, lo chiusero nella torre di porta Susina, protestando che vi starebbe finché fosse ristorato il danno patito per sua cagione dai Torinesi, e con tale infamia guadagnaronsi l’amicizia degli Astigiani che forse ne furono promovitori.
Udito il misero caso del principe, mezza Europa ne fu commossa; i re di Francia e d’Inghilterra, suoi nipoti, quanti Astigiani e Torinesi capitavano per cagion di traffico o d’altro nei loro regni, tanti ne facean pigliare. Bonifacio, arcivescovo di Cantorbery, suo fratello, venne in Italia a far genti per liberarlo; se gli giunsero altri due fratelli, Filippo arcivescovo di Lione, e Pietro, il celebre conquistatore del paese di Vaud. Giunto l’esercito a Torino tentò invano la presa della città. Non gli diè tempo il comune d’Asti, che mandò sue genti a liberarla. L’esercito savoino e quel d’Asti erano un giorno schierati sulle opposte rive del Sangone e solo divisi dal fiume. Scrivono i cronachisti Astigiani che l’oste savoina impaurita fuggì. Ma la paura non poteva aver luogo in quei guerrieri che la guidavano, provati in tante battaglie. Qualunque ne fosse la causa, certo è che non si venne a battaglia, e che i savoini ripassarono l’Alpi, richiamati forse alle natie contrade da qualche improvviso molo di guerra.
Continuavano frattanto essi e i re loro nipoti a pigliar le persone e le robe di quanti Torinesi e Astigiani potean ghermire, con poco danno de’ Torinesi che poco trafficavano, ma con gran pregiudizio degli Astigiani, che n’ebbero grave cordoglio, e ne furono arrabbiatissimi. Procacciarono essi perciò d’aver nelle mani il prigioniero, sperando d’ottener con tal mezzo più larghi patti quando si tratterebbe di liberarlo. Ed in ciò consentivano quei che ne procuravano la liberazione, amando meglio di negoziare con aperti nemici, che con sudditi ribelli e felloni; erano essi l’abbate di Susa, uscito di prigione per riscatto, Jacopo marchese del Carretto, Nicoloso e Ludovico Fieschi.
Le trattative con Asti durarono assai, e dier luogo a molte convenzioni. Perocché la grand’ira de’ fratelli di Tommaso che a niuna concessione si lasciavan piegare; e le rappresaglie che in Savoia, in Borgogna, nel Lionese, in Francia conti nuavansi a danno degli Astigiani, teneano questi ultimi in agitazione e in sospetto, e parea loro di non essere mai abbastanza sicuri.
Un primo accordo fu conchiuso in Asti il 5 di novembre del 1256. Jacopo del Carretto promise a nome del conte Tommaso che questi, venendo trasferito in Asti, non ne uscirebbe senza licenza del podestà: e, ottenendola, il Carretto darebbe uno de’suoi figliuoli in ostaggio e due de’ suoi castelli in deposito per sicurtà del ritorno: che Tommaso dismetterebbe al comune Sommariva del Bosco e Caramagna che avea comprate dai signori di Lucerna; perdonerebbe ai Torinesi ogni ingiuria e ogni danno; rinunzierebbe ogni ragione che avesse sulla città; renderebbe loro Collegno e Montosolo; ed agli Arpini (cittadini torinesi) il castello d’Alpignano. Di Moncalieri farebbe omaggio al comune d’Asti, come Io facea per Vigono; e da Moncalieri e Cavorei lo in fuori non acquisterebbe altra terra alla destra del Po. Gli Astigiani non pagherebbero a Moncalieri tolta, nè pedaggio. Gli usciti di Torino e di Moncalieri potessero tor narvi a ripigliar il possesso de’ loro beni. Se non volesser tornare, o il conte non volesse lasciarli tornare, fosse il medesimo tenuto a comprarne i beni a prezzo di stima.
Gli Astigiani dal loro canto non potessero acqui star nuova terra alla sinistra del Po, nè edificar nuovi castelli, o ville, o fortezze verso lo Stato di Savoia e di Saluzzo. Il conte procurerebbe la pronta liberazione delle persone, la restituzione degli averi degli Astigiani e dei Torinesi ditenuti in Francia ed in altre parti oltre l’Alpi; e la restituzione delle merci colà staggite agli uomini di Cuneo. Il comune d’Asti farebbe pace coi marchesi di Monfer rato e di Saluzzo, col conte Emmanuele di Biandrate e cogli altri fautori di Tommaso.
Questo fu il primo accordo giurato da Jacopo Zasio, podestà d’Asti, e da Jacopo del Carretto, e confermato alcuni giorni dopo dal Fieschi. Allora aperse il comune le trattative con Torino per farsi dar nelle mani il principe che tenean prigione. Nel febbraio 1257 stava per eseguirsi la consegna, quando gli Astigiani domandarono nuovi patti e nuove sicurtà. Il conte procaccierebbe agli Astigiani letterepatenti col sigillo pendente del re e della regina di Francia, del papa, dell’eletto di Lione (Filippo fratello di Tommaso), colle quali essi principi farebbero solenne promessa di liberar lutti gli Astigiani sostenuti in carcere, e di render le robe e le mercanzie tostochè il conte Tommaso sarebbe messo in libertà, vale a dire, si troverebbe fuori delle forze degli Astigiani nel suo Stato, alla sinistra del Po. Intanto dell’osservanza di questo patto darebbe pegno al comune i castelli di Carmagnola e di Mercurolio: e due altri castelli col proprio figliuolo in ostaggio, darebbe il marchese del Carretto. Seguita la liberazione, ed avute le lettere di cui sopra, i castelli e l’ostaggio sarebbero restituiti, ed il comune terrebbe invece in piena proprietà Caramagna e Sommariva del Bosco. Questi nuovi patti hanno la data del 14 di febbraio.
Pochi giorni dopo i Torinesi fecero comparire l’illustre lor prigioniero innanzi al maggior consiglio del comune. Là messo in mezzo agli ambasciatori d’Asti, e considerandosi già per l’efficacia delle cessioni che dovea fare fuor delle forze de’ Torinesi, Tommaso rinunziò ogni sua ragione su Torino, Collegno, Montosolo e Cavoretto. La cessione di quest’ultima terra era una giunta che i Torinesi avean fatta agli accordi da noi già narrati. Promise similmente l’infelice principe l’ammenda di tutti i danni dati da’ suoi fratelli ai Torinesi, e quindi fu condotto in Asti, dove ebbe la città per cortese prigione.
L’imperatore cassò poi quelle rinunzie non liberamente fatte, e fatte senza il suo consenso, indispensabile per trattarsi di feudi dell’impero; e i fratelli di Tommaso non v’ebbero nissun riguardo.
Parea che giunto in Asti Tommaso, altro da far non s’avesse, salvo eseguir il trattato poco prima conchiuso, e porlo in libertà. Ma il gran danno che pativano gli Astigiani affranti nel commercio onde traevan vita e potenza, il gran sospetto che avevano che i patti conchiusi non fossero dagli altieri e sdegnosi fratelli loro sinceramente attenuti, li fecero moltiplicare in domande di nuove cautele, e però sul finire di maggio stabilivasi con patti più rigorosi:
Jacopo del Carretto desse in ostaggio il figliuolo con due castelli.
Tommaso, i due primogeniti e venti de’ principali del suo Stato: consegnasse al comune le lettere che gli ambasciatori del re e della regina di Francia avean portate per la restituzione delle persone e degli averi degli Astigiani presi oltremonte. Facesse rivocar la domanda di diecimila lire mossa dalla regina al comune.
Un cardinale legato, e spezialmente Ottobono Fieschi, dovesse recarsi in Francia ed ovunque fosse mestieri per la liberazione degli Astigiani. Ugo, duca di Borgogna (che era venuto in Asti per sollecitar le conclusioni di quel trattato), promettesse con sue lettere di procurarla a pena di 10m. lire tornesi, e di stare in ostaggio a Lione finché avesse adempiute le sue promesse; e Tommaso, tostochè avesse ricuperato la libertà, si recasse quando fosse necessario pel medesimo fine in Francia, e facesse in modo che Pietro e gli altri conti di Savoia approvassero quest’accordo.
Intanto, per sicurtà dell’osservanza de’ patti, Tommaso desse nelle mani del comune Mercurolio, od in sua vece il castello e la terra di Villafranca, Carmagnola, od in sua vece Revello (terre Saluzzesi forse perla tutela accennata di sopra venute in suo potere): Cavoretto, il castello inferiore di Cavour, il castello e la terra di Cumiana: ove consegnasse Carignano agli Astigiani, gli si rendessero due delle tre terre in ultimo luogo mentovate. Tutto ciò salvi gli accordi preceduti.
Parea che per certo dovesse il principe Tommaso veder allora il termine di sua prigionia. Pure sul finire di giugno era ancora in Asti, e dopo un’altra convenzione, con cui si procedette a deputar i castellani delle fortezze da tenersi in deposito, dovette ancora promettere di dar in pegno agli Astigiani il castello di Gorzano, e ciò che più monta, consentire che gli Astigiani ritenessero quel castello e gli altri sopra mentovati, non solo fino alla totale liberazione de’ mercatanti Astigiani sostenuti al di là dai monti, ma fino al pagamento finale di tutti i debiti che avea contratti in Asti.4
Lo sventurato tornò finalmente in libertà, lasciando statichi in Asti i proprii figliuoli, che vi rimasero assai tempo, perchè i principi suoi fratelli negavano con perseverante durezza di ratificar un accordo che loro parca contenere una notabile diminuzione della loro grandezza e della gloria di loro stirpe. Tommaso, la cui salute erasi logorata tra gli affanni e gli stenti di quella prigionia, dopo un viaggio che fece già infermo a Londra per aver aiuto di danaro dai nipoti, rimpatriato, morì in Aosta il primo di febbraio 1259.
Torino frattanto rimase qualche anno nell’indipendenza, ed ebbe quistione con Goffredo di Montanaro, suo vescovo, intorno ai castelli di Collegno e di Montosolo (1264). Nel 1265 Pietro rappiccò qualche pratica cogli Astigiani e ne privilegiò il commercio, che dopo la presa di Tommaso ii non erasi più ravviato. Vogliono i cronachisti che esso conte Pietro si rendesse per forza d’armi padron di Torino; ma niun documento, niuno scrittor contemporaneo aggiunge autorità a tal tradizione, che vuole annoverarsi tra le favole, come l’altra che racconta come Bonifacio conte di Savoia, detto Orlando, trovandosi all’assedio di Torino, fu preso da’ cittadini e soste nuto in una torre, ove morì di dolore.
Invece egli è certo che Torino si recò nel 1262 all’obbedienza di Carlo d’Angiò, conte di Provenza e re di Sicilia, capo di parte guelfa in Italia, alla cui crudeltà fu commesso di spegnere l’imperiai seme di Svevia in persona del giovane ed innocente Corradino. Carlo governò alcun tempo la città di Torino col mezzo de’ suoi vicarii. Ma prima del 1272 era venuta in mano di Guglielmo vii, marchese di Monferrato. Vedremo come pochi anni dopo Tommaso iii, figliuolo primogenito di Tommaso ii, riavesse, per astuzia, ciò che suo padre avea perduto, e che difficilmente si sarebbe potuto ricuperare coll’armi.
Note
- ↑ [p. 261 modifica]Monum. hist. patriae, Chartar. i, 1409.
- ↑ [p. 261 modifica]Archivi di corte, Diplomi imperiali, mazzo ii.
- ↑ [p. 261 modifica]Trattato del 22 di loglio 1252. — Cibrario, Storia della monarchia di Savoia, ii, 58.
- ↑ [p. 261 modifica]Storia della monarchia di Savoia, ii, 82 e seguenti.