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244 libro terzo

ristorar, se si potesse, con migliori successi la guerra. Ma scontrati i nemici a Montebruno, le sorti della battaglia gli fur tanto avverse, che si salvò colla fuga, lasciando un gran numero di cittadini morti, o prigio­nieri.

Gioco peggiore la fortuna matrigna gli avea pre­parato a Torino. I cittadini levali a rumore gli do­mandarono conto de’ loro fratelli periti, o tra’ferri­ te donne del volgo soprattutto segnalavansi nel gettar alte strida, e minacciavano di farlo a pezzi, quasi che per corrispettivo dell’obbligo che aveano i To­rinesi di servirlo in guerra, egli avesse quello di farli vincere; o come se il vincere stesse in lui solo, e che per proprio diletto, o per nuocere a’suoi soldati, ei si fosse lasciato sconfiggere. Il vero si è che fu quello un laido tradimento; opprimere il proprio prin­cipe nella sventura. Già molto prima doveano i To­rinesi, ormai usi a libertà, aver mulinato qualche insidia per levarselo dinanzi. Non l’avrebbero forse tentato, se tornava colla vittoria. Vedutolo vinto, colser tempo, e caricatolo di catene, lo chiusero nella torre di porta Susina, protestando che vi starebbe finché fosse ristorato il danno patito per sua cagione dai Torinesi, e con tale infamia guadagnaronsi l’ami­cizia degli Astigiani che forse ne furono promovitori.

Udito il misero caso del principe, mezza Europa ne fu commossa; i re di Francia e d’Inghilterra, suoi nipoti, quanti Astigiani e Torinesi capitavano per