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della rivoluzione di roma | 107 |
in regno e talmente ben regolato, che rimase immane dalla procella del 1848.
Ma quel chiedere una cosa per volerne un’altra, qnel gridare viva che significhi morte, quel vibrare il colpo letale col nostro braccio, e addossarne ad altri la colpa, son queste arti sleali e abbonimevoli che noi ripudiamo col più vivo dell’animo e vituperiamo colla nostra voce, e se cento volte più forte l’avessimo, vorremmo usarla come dice Virgilio nel libro VI dell’Eneide.1
Ritornando, dopo questa digressione, a parlare delle dimostrazioni, diremo che nel progresso di questa storia si rinverranno parecchi atti dell’autorità contrari alle medesime.
Erravamo in sui primordi del pontificato di Pio IX, e già avevamo le circolari di segreteria di stato del 14 luglio, la notificazione di monsignor Santucci del 19 dello stesso mese, e la circolare del cardinale Gizzi dell’8 di ottobre. Ma in seguito ve ne furono dei più decisi e stringenti sia per parte dei segretari di stato pro tempore, sia del governatore di Roma, sia del giornale officiale, con articoli inseriti d’ordine della stessa Santità Sua. E la medesima in appresso non alzò ancora la voce? E che per ciò? Fu sempre, sempre disobbedita.
La ragione peraltro è chiara come la luce del giorno, e costituisce la prova migliore che la inobbedienza non veniva dalla popolazione romana ch’era nella generalità ossequiosa al papa, e lo voleva, ma da quelli appunto, che volendosi togliere dì mezzo questo inciampo molesto, dovean disobbedirlo, fingendo sempre di esaltarne con ovazioni le gesta; poichè, così perseverando, il conflitto dovea giungere un giorno, ed allora dai fiori come accadde, sariasi passato alle armi. E queste son cose che