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xx - la nuova letteratura 347


nazionale. Aggiungendo l’esempio al precetto, il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza domandar loro onde venivano; e, come era uomo d’ingegno e avea mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione italiana una lingua animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile dall’un capo all’altro d’Italia. Gli scrittori, intenti piú alle cose che alle parole e stufi di quella forma, in gran parte latina, che si chiamava «letteraria», screditata per la sua vacuitá, e insipidezza, si attennero senza piú all’italiano corrente e locale, cosi com’era, mescolato di dialetto e avvivato da vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo stato della coltura. Cosi si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d’Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: cosi scrivevano Baretti, Beccaria, Verri, Gioia, Galiani, Galanti, Filangieri, Delfico, Mario Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca, e a Roma, patria dell’Arcadia: schiamazzi di letterati e di accademici abbandonati dal pubblico. Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le qualitá opposte a quelle che costituivano la forma letteraria. Si voleva rapiditá, naturalezza e brio. Tutto ciò che era finimento, ornamento, riempitura, eleganza, fu tagliato via come un ingombro. Non si mirò piú ad una perfezione ideale della forma, ma all’effetto, a produrre impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltá intellettive. I secreti dello stile furono chiesti alla psicologia, a uno studio de’ sentimenti e delle impressioni, base del Trattato dello stile del Beccaria. Al vuoto meccanismo, dottamente artificioso, solletico dell’orecchio, detto «stile classico», e ridotto oramai un frasario pesante e noioso, succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale, vispo, rotto, ineguale, pieno di movimenti, imitazione del linguaggio parlato. Tipo dell’uno era il trattato; tipo dell’altro era la gazzetta. Il principio, da cui derivava quella rivoluzione letteraria, era l’imitazione della natura, o, come si direbbe, il realismo nella sua veritá e nella sua semplicitá, reazione alla declamazione e alla rettorica, a quella maniera convenzionale, che si decorava col nome d’«ideale»