Storia del Collegio Cicognini di Prato/Cap. I. - Il Collegio fondato pei Gesuiti (1635-1672)
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CAPITOLO PRIMO
Il Collegio fondato pei Gesuiti
(1655-1672)
II. La Riforma religiosa, che in Italia era stala speculata nell’idea, o predicata con parole senza fatti, dai Socino c da Girolamo Savonarola, aveva invece turbata, sconvolta, c sviala dalla antica fede gran parte della Svizzera, della Germania, deli’ Olanda, e di altre regioni settentrionali dell’Europa. Per porre un argine a questo torrente di nuove credenze ed opinioni, clic minacciava distruggere la Chiesa intera, i papi d’allora stimarono bene convocare un Concilio ecumenico, che si raccolse in Trento, dal quale dovevano essere studiati e proposti i rimedi efficaci a distornare il pericolo imminente, e a rimettere l’autorità e la pace nella società dei cristiani.
I sacri senatori, insieme uniti, riconobbero nella sincera loro coscienza due essere i mali, donde specialmente erano venule le scissure nel seno della Chiesa e gli scandali c le eresie: l’ignoranza nel Clero, c la sua scostumalezza. Basti percorrere gli atti De Reformatione del Tridentino per capacitarsi dell’abietto e miserevole stato del sacerdozio cattolico. S’egli è vero che le leggi sono le spie dei costumi, bisogna convenire che l’innumcrevol gregge dei preti c dei frali di quei tempi sapessero poco leggere e meno scrivere; ma invece fossero mollo addentro nelle pratiche dell’avarizia, della simonia, dell’ambizione e del concubinalo. Il che invero non può recar maraviglia a chiunque abbia appena sfiorala la storia di que’ secoli, essendo che gli stessi vizi fossero comuni parimenti ed imputabili ai potentati laicali, monarchici, oligarchici o repubblicani: fortunatamente, per ordine provvidenziale, escono poi fuori le riforme a curare i mali religiosi, le rivoluzioni a sanar quelli politici.
I Padri del Concilio pensarono saviamente che alla buona educazione del Clero si dovesse con special cura provvedere; ma siccome non si educano piante, le quali siano cresciute torte, stente o malaticcie; così giudicarono che più che a raddrizzare i cattivi abiti del vecchio Clero, tornasse utile attendere ad allevare dirittamente le piante tenere e fresche del Clero giovane col ben guidarlo fino dalla prima sua formazione. A tale scopo deliberarono si instituissero e si moltiplicassero i Seminari, dove i candidati al sacerdozio fossero colla segregazione preservati dal contagio delle opinioni e delle azioni malvagie, predominanti soprattutto nelle corti c nei presbiteri!; e venissero dall’età fanciullesca avvezzali allo studio delle lettere c delle scienze, mantenuti nell’unità del dogma, addestrali agli esercizi della virtù cristiana. Così fallo divisamente concepito dai Padri con sapienza, venne dovunque eseguito con diligenza e con prontezza. Da quell’epoca infatti, ossia dalla seconda metà del secolo decimosettimo e dalla prima del secolo successivo contano i loro anni la maggior parte dei nostri Seminari: ne lo direbbe, non fosse altro, la loro stessa forma architettonica, quasi sempre goffa e barocca, abbondante nelle facciate di spirali e di elitticbe, di conchiglie c di cornucopie, di trafori e di fogliami, quantunque talvolta ardila e grandiosa. Infatti nel 1564 da Papa Pio IV venne chiuso il Concilio di Trento; e in quel torno incominciavano a crescere in onore il Bernini, il Borromini e i loro pessimi seguaci che l’arte sollevata a somma altezza da Brunellesco, da Bramante e dal Palladio fecero cadere nell’avvilimento e nel ridicolo.
Dai Seminari, come rami dal suo tronco, trassero nascimento c sviluppo i nostri Collegi, i quali perciò possono dirsi una creazione del Concilio di Trento; e più specialmente, come accennerò più oltre, dei Gesuiti. Non voglio affermare che T istituzione dei Collegi in generale, cioè di luoghi segregati e riservali, eutro cui viene istruita ed educala una parte di gioventù, sia contemporanea o posteriore alla menzionata sacra Sinodo. Veramente esistettero Collegi presso i Greci, i Romani, gli Ebrei, gli Egizi, persino presso gl’Indi: ma quelli erano piuttosto pubbliche scuole, come il Liceo e l’Accademia in Alene, ove convenivano i dotti, e dove s’istruivano gli adolescenti mescolati cogli adulti a spese pubbliche o privale, che non sedi appartate, racchiuse, ove vivesse una famiglia avventizia di figliuoli di molti padri sotto una disciplina specialissima ed uniforme, allo scopo non solo di essere alimentali ma istruiti. I pochi luoghi, cho noi troviamo rammentati nell’antichità, ai quali attribuir potrebbesi il nome di Collegio, erano radunanze di uomini o di donne di età diversa, che lungi dagli occhi profani e dalle orecchie impertinenti venivano iniziali nei sacri misteri delle religioni; istruiti nei riti e nelle cerimonie solite a celebrarsi in onore delle divinità; imbevuti in certi studi, dei quali le lettere e le scienze formavano la minor parte. I Magi nella Persia, i Ginnosofisti nelle Indie, i Druidi nelle Gallie e nella Bretagna, possedevano questa sorta di Collegi; i quali, sebbene un po’ diversi nella forma e nelle regole, ma non dissimili nello scopo, esistettero pure nell’Attica, nel Lazio, nell’Asia minore e nell’Alessandria de’ Tolomei. Gli antichi non ebbero Collegi, bensì scuole, che per lunghi secoli furono liberissime e condotte liberissimamenle da uomini più o meno eruditi, e interessati chi per la scienza, e chi per il guadagno. Marco Fabio Quintiliano è il primo, a quanto si sappia, che tenesse cattedra con pubblico stipendio, ai tempi dell’imperatore Domiziano, del quale allevò i nipoti. Chiunque dei cittadini di Roma e di Atene, per non parlare delle città minori, avesse voluto procacciare insegnamento ai propri figliuoli, doveva inviarli alle scuole, che taluni retori e grammatici aprivano in diversi luoghi, e pagare una mercede mensile; oppure, ciò che praticavano le famiglie doviziose, mantenere in casa uno o più pedagoghi, i quali per il solito erano schiavi, o come tali venivano trattati. L’insegnamento si restringeva alla Grammatica, alla Eloquenza e alla Musica: di Matematiche e di Filosofia disputavano gli uomini o gli scolari già provetti.
Quintiliano, che nel libro primo delle sue Istituzioni oratorie parla a lungo delle scuole; che stabilisce confronti fra l’insegnamento pubblico e il privato; e si diffonde lungamente nel dar precetti o consigli ai genitori, ai maestri, ai giovanetti; non mai usa di frasi, donde sia lecito arguire, che alle scuole de’ suoi contemporanei fossero annessi i convitti. Che anzi confutando egli l’obiezione che nelle pubbliche scuole, le quali da lui erano preferite allo domestiche, corressero rischio i giovani di essere guastali; risponde che i costumi erano il più spesso corrotti fra le intime pareti dai tristi esempi di famiglia; e che i giovani già guasti e depravati non ricevevano dalle scuole questi mali, sibbene ve li portavano. Del resto non molli erano nell’antichità coloro che vacassero agli studi; sia per la difficoltà di trovare maestri; sia per l’altra non minore di avere libri per studiarvi, pergamene per iscrivervi, il cui prezzo era altissimo; e di imparare senza l’aiuto delle grammatiche, dei vocabolari e di cento altri sussidi, che l’invenzione della carta e della stampa rese facili ad aversi con poca spesa. Venne più lardi Carlomagno, che ne’ suoi Capitolari ordinò ai monaci di allevare entro i chiostri qualche porzione di giovinetti, e di insegnar loro la musica, la grammatica e l’aritmetica: uscirono costituzioni di Concilii e di Papi, per lo quali era fatto obbligo ai Vescovi di educare negli Episcopii, sotto la immediata loro vista e tutela, i candidati al sacerdozio, e di far apprender loro la lettera e lo spirito delle divine scritture. Ma queste scuole, che si apersero, e recarono talvolta buoni frutti, come per esempio a Montecassino, a Milano, e in altri monasteri o sedi episcopali, si limitavano all’istruzione di pochi adolescenti, i quali erano avviati al chiericato; laonde fu detto chierico chiunque sapesse scrivere o almen leggere; essendo rimasta l’universalità, non dico del popolo ma dei signori, affatto ignara di ogni principio di lettere, e incapace di segnare perfino il proprio nome.
Di tal passo andarono le cose della pubblica educazione per lunghi secoli: e nessuno rovistando nelle storie dei popoli italiani, o leggendo le biografie dei nostri uomini celebri, troverà giammai che principe o republica abbia fondati Collegi, quali abbiamo al giorno d’oggi; e che alcun personaggio siasi istruito altrimenti, che o in qualche rara scuola pubblica, o presso un convento, o sotto la scorta di maestri particolari. Del resto anche quel po’ di istruzione che faceva capo all’aperto, era impartita da preti e da frati; e sempre cadeva sotto la immediata vigilanza e giurisdizione dell’autorità ecclesiastica; non solo in Italia ma fuori d’Italia, e fino ai tempi della Riforma religiosa e del Concilio di Trento.
III. Avendo i vescovi compresa la importanza e utilità della deliberazione della Sinodo ecumenica, che in ogni Diocesi venisse instaurato qualche Seminario, dove si raccogliesse e ammaestrasse il Clero in preparazione; ben presto si vide nelle provincie cattoliche fervere un insolito lavoro a radunare mezzi, a studiare disegni, ad affrettare muramenti per le fabbriche dei Seminari. Le questioni attinenti al sistema edilizio, ossia alla configurazione e distribuzione dei locali per numerose accolte di giovani; ai metodi di disciplina e di igiene per la buona educazione fisica e morale; al miglior ordine degli studi in relazione col fine degli studenti; tutte vennero sollevate, discusse e risolute, con maggiore o minor vantaggio, dalle persone le più dotte di que’ tempi, e le più sperimentate e competenti in simili materie.
Tuttavia rimaneva un pericolo da rimuovere, secondo alcuni; ovvero un bene, secondo altri, da conseguire, affinchè la Chiesa potesse godere di maggior pace, e non pullulassero in mezzo a lei altre novità di dogmi e di pensamenti, che fossero semi di altre discordie e scissure. Il laicato incominciava ad emanciparsi dalla autorità dei parrochi e dei vescovi: i libri, moltiplicati e propagati con facilità maravigliosa per opera della stampa, correvano a vil prezzo nelle mani di chiunque sapesse leggere: nella Germania, nella Svizzera, in Inghilterra erano proclamate, e sostenute all’uopo colle armi la libertà di coscienza, la libertà di pensiero, la libertà nella interpretazione delle stesse divine scritture, e la Santa Inquisizione abbattuta in molte città e paesi, non aveva omai occhi e mani bastevoli per investigare e sorprendere ogni scrittura contraria alla fede, per imprigionare e uccidere chiunque avventasse giudizi indiscreti nelle cose di religione. Era adunque di necessità trovar modo di mantenere l’unità del dogma, e il rispetto all’autorità gerarchica della Chiesa anche in mezzo al laicato, che si risvegliava, e tendeva alla conquista de’ suoi diritti.
A questo si rivolsero i Gesuiti, nuova milizia, attiva, sveglia, intraprendente, surta di fresco sotto Paolo III; che avevano fatto voto, come gli antichi cavalieri di liberare Terrasanta, così essi di liberare la Chiesa dalle prave ed eretiche dottrine. I Gesuiti ebbero fino dalla loro culla il sagace istinto, che mutossi ben presto e per sempre in maturo fermissimo proposito, di installarsi nelle scuole, per signoreggiare, ben s’intende, sugli spiriti, ed essere padroni del pensiero. Non ci volle molto perch’essi colla loro fina perspicacia comprendessero la potenza dell’opera del Tridentino nell’istituire i Seminari; laonde cangiando le cose da cangiarsi, fecero loro pro di tale fecondo ritrovato; e idearono e posero ben presto in effetto la fondazione di Collegi laicali, i quali possono perciò dirsi, e sono nella loro nascita e nella loro forma primitiva, una ingegnosa, e soggiungerò anche, sapiente invenzione dei Gesuiti.
È a notarsi nulladimeno un fatto curioso ma vero, che manifesta la scienza e l’arte dei Gesuiti, se fosse bisogno dimostrarla; e questo è ch’essi non mai richiesero palesemente la direzione, o promossero la fondazione di scuole e di collegi: come non mai domandarono allo scoperto di entrare nelle corti, e di sedere confessori di re e di regine. Erano testatori pii, che poco dopo la loro apparizione, e la fama subitamente acquistata, li lasciavano eredi di pingui sostanze, perchè erigessero educatorii; erano città che li chiamavano, onde si facessero capi e maestri delle loro scuole; erano principi che li sollecitavano a recarsi in mano la somma della forza morale dei loro Stati. In breve volgere d’anni Roma, Napoli, Palermo, Milano, Parma, Torino, e nella Toscana Arezzo, Livorno e altre città minori videro circolare per lo vie le tonache fresche e attillate del Gesuita; sorgere sulle loro piazze chiese, case e istituti della Compagnia di Gesù; e i Gesuiti circondati da una nobile e azzimata gioventù, il fiore del fiore dell’aristocrazia italiana, che sotto l’ale di S. Ignazio veniva a temprare il carattere dell’animo, e ad ingagliardire i nervi del pensiero. L’educazione pubblica e privata cadde nelle mani dei Gesuiti, quindi dei loro confratelli Scolopi, Barnabili, Ignorantelli, il che torna lo stesso, i quali in certo modo tolsero ogni importanza alla grave e diuturna questione posta innanzi da Quintiliano: se fosse più utile educare i giovanetti in famiglia e fra le private pareti, o affidarli alla frequenza delle scuole e quasi a pubblici maestri. I Collegi furono scuole pubbliche e private ad un tempo.
Questa è l’origine della maggior parte dei Collegi in Italia; questa l’origine del Collegio di Prato.
IV. Non fu idea nata un bel giorno all’improvviso nella mente di qualche cittadino, quella di chiamare i Padri della Compagnia alle rive del Bisenzio, e di instituire in Prato un Collegio di Gesuiti. Sicuramente tale idea ebbe la sua genesi naturale dalla fama grande e universale in che erano saliti in Roma e in molle regioni d’Europa i discepoli del Loiola; ma da uno o due uomini zelanti, come avviene quando trattasi di progetti stimati di comun interesse, erasi estesa a una buona parte della cittadinanza di Prato. Il disegno dovette non solo parere meritevole di considerazione, ma avere fondamento solido negli animi stessi dei maggiorenti; in quanto che adunatosi il 18 marzo 1655 il Consiglio generale di Prato, venne discussa la proposta, affacciata da taluni, di chiamare i Padri della Compagnia; e con voti sellantatre favorevoli, o dodici contrari, fu deliberato si dovessero introdurre in Prato i Gesuiti. Era volere del Consiglio di affidare ai Padri qualche Chiesa, e la direzione di quelle poche scuole che si facevano allora per conto del Comune.
Quel desiderio e quella deliberazione non ebbero pronto seguito; o sia perchè i mezzi difettassero; o sia, ciò che è più probabile, perchè i Gesuiti avevano in veduta altri luoghi più strategici da occupare colla loro milizia, la quale non era ancora tanto numerosa da prender possesso di tutte le città e provincie, che si davano in lor potere. Ma il buon volere non iscemò, nè si spense negli uomini di Prato: tre cittadini, l’uno dopo l’altro, legarono negli alti di loro ultima volontà ogni loro avere ai Gesuiti, col patto che venissero a stabilirsi in Prato, e vi fondassero un Collegio. Furono questi nell’ordine cronologico: Francesco Pazzi, Francesco Cicognini e Lorenzo Niccolai; primo per merito, ossia per il valsente dell’eredità lasciata, fu il Cicognini, il quale ebbe l’onore di dare al Collegio il suo nome e il suo stemma.
È prezzo dell’opera riportare i brani più importanti delle tavole testamentarie di questi tre benemeriti cittadini, ai quali devesi la fondazione del Collegio; affinchè apparisca nettamente, quali furono le loro intenzioni: darò poi brevissimo cenno della loro vita, per entrare quindi nella storia del Collegio, la quale propriamente incomincia a questo punto, quando non si voglia ripeterla dalla deliberazione 18 marzo 1655 del Consiglio generale di Prato.
Il prete Francesco di Giuliano Fazzi il giorno 29 novembre 1659 confidava le disposizioni di sua ultima volontà in Firenze al notaro Ambrogio De’ Ambrogi, che rogato lo esprimeva nei seguenti termini.
«In tutti gli altri suoi beni mobili, semoventi ed immobili, crediti, ragioni ed azioni, ed in tutte le sue cose presenti e future per suo erede universale instituì fece ed esser volle e di sua propria bocca nominò a maggior gloria di Dio, salute dell’anima sua, ed a beneficio universale della città di Prato il venerabil Collegio delli molto reverendi Padri della Compagnia di Gesù da erigersi, e che si tratta da alcune pie persone di erigere, e per quando con l’aiuto di Dio sarà eretto nella Badia di Grignano posta nella città di Prato, quale Badia tiene di presente detto testatore dal reverendo Capitolo fiorentino, o in altra chiesa e luogo posta e posto nella medesima città di Prato, e subito che in detto Collegio con i debiti consensi eretto e fondato saranno tornati ad abitare i Padri di detta Compagnia di Gesù, e che con il divino aiuto e di pie e devote persone sarà detto Collegio in posizione ed atto a potervi prontamente tornare e risedere i detti Padri di detta Compagnia di Gesù, ed in esso uffiziare ed esercitare gli atti di pietà, di religione e di carità cristiana propri del loro istituto.»
Dalle quali parole, e maggiormente dal contesto dell’intero testamento si manifesta; che il pensiero di far regalo a Prato di un Collegio di Gesuiti ardeva sempre nell’animo di parecchi cittadini; che il luogo della Badia di Grignano era quello veduto più conveniente alla erezione di un Collegio; e ciò che più rileva, che non trattavasi propriamente in sul principio di aprire una casa di educazione a benefizio della gioventù, bensì una stazione di legionari del Loiola.
Monsignor Francesco Cicognini, al quale spetta il merito principale della fondazione dell’Istituto, perchè fornì i mezzi materiali ossia pecuniari, ebbe concetto più largo, o come diremmo oggi, più liberale di quello del signor Fazzi. Anch’egli voleva un convento di Loiolesi, ma disponeva che al convento venisse unito un Seminario per l’educazione di sette giovani pratesi, i più poveri e meritevoli; e vi fossero aggregate le scuole del Comune, onde in esse venisse raccolta ed istruita la pratese gioventù. Ecco le parti più rilevanti del suo testamento, che il 2 giugno 1666 consognava negli Atti dell’amico Giuseppe Mori di Montalto, pubblico notaio della Curia Romana, e ch’io trascrivo estesamente ed esattamente, anche perch’esse costituiscono la base del diritto di proprietà e d’amministrazione del Collegio, variamente contestato in diversi tempi.
«In tutti gli altri miei beni et effetti immobili e moventi... instituisco e colla propria bocca nomino et esprimo, lascio e voglio miei eredi universali la detta mia patria città e comunità di Prato, et insieme unitamente, comunemente et indivisibilmente et in solidum la detta Compagnia di Gesù, religione dei Gesuiti con l’infrascritte condizioni, sostituzioni, obblighi e pesi et non alias aliter nec alio modo...
«Le condizioni, sostituzioni, obblighi e pesi con li quali lascio miei eredi li sopranominati sono;
«Primo, che le dette Patria mia di Prato, e religione dei Padri Gesuiti devino inventariare tutta la detta mia eredità et impiegarla in fondare et erigere, constituire e mantenere in detta mia Patria un Collegio di Padri di detta religione della quantità e qualità che parrà al Padre Generale d’essa, o a chi la sua Paternità riverendissima ordinarà, et insieme in detto Collegio erigere, costituire e mantenere un Seminario unito ad esso sette giovani studenti pratesi...
«Secondo, che li detti giovani pratesi studenti non possino essere mandati a partito... se prima non averanno esibito... supplica... con una fede o attestazione... d’essere pratesi originarii e d’haver l’età sopradetta, incaricando io la coscienza di ciascuno degli dottori a preferire col voto loro li più poveri e più meritevoli... Il modo di vivere e di vestire, il governo et ogni altro instituto dev’essere regolato, esercitato e comandato da dello Padre Preposito, Rettore o Superiore...
«Terzo, che di tutti gli effetti della mia heredità sia in libertà e potestà del Padre Generale o d’altro deputato o deputati da sua Paternità di farne o farne fare permuta, vendita, rinvestimento in quella forma che si stimerà più spediente, e ciò senza l’assenso della Comunità e città di Prato alla quale doverà solamente ogni volta che ne sia ricercato renderne e farne rendere buon conto.
«Quarto, che perchè detta mia heredità alla morte mia non sarà sufficiente a fare tutte le suddette opere, ordino che l’entrata di essa (l’administrazione della quale voglio che come ho detto di sopra sia libera et indipendente nel detto Padre Generale dei suoi Padri che egli deputerà) e si metta di mano in mano tutto quello si risquoterà... a moltiplico sino a tanto che arrivi a poter supplire a tutti li suddetti pesi. Intorno a che non voglio restar di pregare la mia patria a ciò la suddetta mia disposizione habbia il più presto honorevole, profittevole e più commodo effetto che si possi cooperare, se così lo stimerà bene, che quello che ella annualmente spende in quei maestri che chiamano del Comune s’applicasse a detto Collegio con obbligo a’ Padri Gesuiti d’insegnare alla gioventù pratese come fanno detti mastri di Comune, perchè con questo e con quello che ha lasciato il reverendo sacerdote Fazio, e con quello che a qualch’altro buon cittadino piacesse di somministrare, e con quello ancora ch’ella potesse impetrare dalla somma pietà, carità e magnificenza del Serenissimo Granduca, che annualmente somministrassero li Ceppi, li Spedali, e l’opere del Cingolo, e della Madonna delle Carceri o delle case di Livorno, o d’altro della Comunità... si darebbe un grande aiuto a dett’opera, dalla quale tanto più celebre ne riuscirebbe l’effettuazione e perfezione.
«Quinto, che nel termine di tre anni da cominciare dal giorno della mia morte ambi li detti miei heredi habbino... fatto dichiarazione di havere unitamente... con le condizioni, obbligazioni e pesi suddetti... accettata la mia heredità... In caso che non accettino la detta heredità nei modi sopra detti, come anche in caso che per qualsivoglia difficutlà che potesse fraporsi d’impedimento alla suddetta mia opera (che non credo) di modo che passato un altro anno solo dopo di tre, ad accettare detta mia heredità, non gli voglio altrimenti per miei heredi nè per niente, e li sostituisco o per dir meglio instituisco et in vece... nomino miei heredi e dichiaro li Padri della religione e Congregazione Somasca del Collegio Clementino di Roma, con condizione, obbligo e peso di mantenere in esso a loro spese sette giovani pratesi, che li saranno mandati con Patenti dalla suddetta mia patria...»
Il concetto adunque sostanziale del Cicognini era l’introduzione dei Gesuiti e della Religione di Gesù in Prato: veniva in secondo luogo l’altra idea, meno rilevante, ma ferma, a dir vero, e mollo gradita a monsignor Francesco di procacciare l’istruzione alla gioventù pratese per mezzo dei Gesuiti, «Ho fatto riflessione, leggesi in una sua lettera, quanto importi che la gioventù sia educata col timor di Dio; so che la mia patria produce gioventù spiritosa e da far buona riuscita, ma per la sua educazione e istruzione, della quale detta gioventù è necessitosa, sarebbe molto opportuna e propria la disciplina, istituti e valore della veneranda Compagnia di Gesù, religione dei Gesuiti.»
Se poi a taluno non sembrasse abbastanza giustificato il giudizio da me recato sulle intenzioni dei citati due benemeriti pratesi, legga le seguenti parole del testamento nuncupativo in data 7 dicembre 1697 di Lorenzo Niccolai, rogato dal dottor Pietro Ottavio Perugino. Il quale Niccolai, che è l’ultimo della triade dei fondatori del Collegio, dettò gli ultimi suoi voleri nel tempo, che ferveva l’opera della costruzione della casa, e che erano vive le memorie del Cicognini, il cui pensiero si svolgeva e si faceva sempre più netto o grande coll’inalzarsi e dilatarsi delle mura del Collegio. «In tutti li suoi beni ed effetti... ed in ogni altra cosa della quale detto signor testatore possa e generalmente e specialmente disporre... il medesimo istituì suo erede universale e di sua bocca nominò ed esser volle il Collegio che si fabbrica presentemente nella città di Prato della Compagnia di Gesù, suo superiore pro tempore, e suoi in detto Collegio successori, dando facoltà libera al predetto Padre superiore di erogare detta sua asse ereditaria in tutto o in parte nella fabbrica di detto Collegio, avendo in mente il signor testatore di ampliare ed accrescere al medesimo le prerogative, pregando la bontà del Padre reverendissimo Generale dei Gesuiti a procurare di tener maggior numero di Padri in detto Collegio che sia possibile, acciò che sempre più resti accresciuto il suo splendore e decoro.»
Parmi adunque avere ricavato alla meglio le disposizioni e le intenzioni dei tre fondatori del Collegio; forse più fedelmente di quello non siano ritrattate le loro fisionomie nei busti in pietra, che si presentano ai visitatori dell’Istituto nell’atrio d’ingresso e sui pianerottoli dello scalone, e che nei visi arcigni, nei baffi o nei pizzi, malgrado la serietà della zimarra, della cotta e del berretto triangolare, arieggiano più tre bravi del seicento, che tre galantuomini del nostro secolo. E parmi che dai citati brani di testamenti apparisca anche troppo chiaramente a chi appartenga il diritto di amministrare e di regolare il Collegio, secondo le esplicite dichiarazioni dei fondatori: alla parola «Gesuiti» o «Generale e Proposito dei Gesuiti» si sostituisca il nome di chi oggi legalmente li rappresenta. Qui sta la soluzione del problema; forse meglio, qui sta il teorema ossia la verità dimostrata.
V. A questo punto cado in acconcio fare qualche cenno delle vite del triumvirato or menzionato; inconcludente forse per la storia in genere, non ispregevole per la nostra in particolare. Nessuno certamente mi domanderà una biografia di questi uomini: Plutarco e Cornelio Nipote scrissero biografie, ma per gli uomini di Cornelio e di Plutarco. Tuttavia se giova talvolta evocare le memorie e perfino le piccole azioni di quei personaggi, che lasciarono impresse le loro orme nella via dei secoli: non è neppur sempre inutile e tanto meno biasimevole riferire ai tardi posteri entro città modesta la vita semplice, ma piena di fede e di carità, dei nostri antichi compaesani benefattori. In famiglia, intorno al domestico focolare, piace udire rammentate le gesta famose del primo Napoleone, o le avventure guerresche del Garibaldi: ma non meno ci allieta ascoltare gli ordinari aneddoti del nonno caporale o del giovane amico garibaldino.
Ma null’ostante il buon volere, del Fazzi per il primo non mi è dato poter dire se non ch’egli fu piissimo sacerdote; che condusse, poi acquistò in enfiteusi dal Capitolo Fiorentino la Badia di Grignano; che intraprese ad età avanzata un viaggio a Roma al fine di tesoreggiare benedizioni ed indulgenze; e che morendo dispose de’ suoi beni in lasciti di pietà e di religione, e volle il suo corpo fosse seppellito nella Chiesa della Badia di Grignano, forse perchè riposasse più beato entro il Collegio, che ebbe innanzi agli occhi in isperanza, e lasciò erede de’ suoi beni.
Poco più che del Fazzi mi è dato intrattenermi di Lorenzo Niccolai. Questi fu sposo e fu padre; ma pare che nel suo animo, e dentro la sua famiglia s’annidasse certo religioso misticismo, non difficile a ritrovarsi, spinto talvolta fino alla esagerazione, in molte famiglie di quei tempi. L’irradiazione di un ascetismo melanconico e severo, dopo cessata la vivacità e l’irrequietezza della vita repubblicana, era penetrata a poco a poco nelle città e nelle ville della Toscana; e alle consuetudini rumorose delle dispute politiche e letterarie, e delle armi s’erano sostituite quelle ben diverse delle prediche, delle processioni e dei rosarii.
Le due uniche figliuole del Niccolai presero il velo, e scomparvero dietro i cancelli del monastero di S. Caterina in Prato; la moglie che di poco gli sopravvisse, impegnò morendo il suo asse nello stabilire un’ufiziatura di messe; egli stesso chiuse gli occhi donando la sua fortuna ai Gesuiti, e dichiarando di voler essere sepolto nella chiesa dei frati di S. Francesco, cinto del cilizio della penitenza, accompagnato da due soli lumi alla sepoltura.
Qualche notizia più minuta m’è riescito raccogliere intorno al maggiore fondatore; e me ne valgo, per fermarmi su di un uomo, il cui nome non solo è legato a un quartiere della città e al Collegio, ma, per ragione del Collegio, è noto in molte provincie italiane ed anche fuori.
Francesco Cicognini figlio di Cosimo e di Dionora Colippi nacque in Prato il 2 giugno del 1590 in giorno di sabato. Nel novembre del 1606 andò a studio a Pisa nel Collegio Ferdinando; e nel 1610 fu nominato Rettore di quel medesimo Collegio. Egli rinunciò l’onorato ufficio, e perchè il Provveditore generale dello studio e la maggior parte degli scuolari non vollero accettare la sua rinunzia, dovette aspettare la grazia di S. A. Serenissima, la quale venne.
Nello stesso anno fu ammesso nella famosa Accademia degli Ombrosi; nel 1611 fu fatto consigliere della Nazione Toscana per le Terre: nel 1612 venne addottorato, e nell’anno seguente ebbe dai Canonici di Prato il legato pio di due scudi il mese per due anni per andare a Roma.
Partì il 18 ottobre 1613 da Prato con Pietro Chiarino procaccia per Roma al fine di attendere colà alla professione delle leggi o alla Corte; e dopo sette giorni di viaggio entrò nella città eterna.
Nella giovane età di ventitre anni il Cicognini trovassi adunque innanzi ai vetusti monumenti della Roma cesarea, e in mezzo agli sfarzi e ai rumori della Roma papale. Quantunque abbia egli scritto molte lettere delle quali non poche sopravanzano, pure nè da esse lettere, nè da altri documenti apparisce che risentisse forti commozioni nel venire per la prima volta e nell’abitare in una città, entro le cui mura dovevano in allora concorrere, diffondersi, muover quasi tempesta pensieri, passioni e gusti d’ogni sorta. Erano i tempi nei quali vivevano o avevano appena cessato di vivere Clemente VIII e Paolo V, Filippo III e il Richelieu, Fra Paolo Sarpi e il Bellarmino, Galileo e il Marini. Quale tumulto pertanto di idee e quale strepito di interessi, di partiti, di ambizioni non dovevano aggirarsi e rintronare intorno alla reggia del Vaticano, ai tribunali dell’Inquisizione, agli empori dei Gesuiti!
Or bene; sembra, come dissi, che il Cicognini trasportato dalle tranquille sponde del Bisenzio, ove forse udivasi tuttora il lontano eco delle festevoli celie del Firenzuola, alle vorticose onde del Tevere intorno a cui suonavano le strane favelle dei convenuti dai due mondi, di nulla si curasse e di nulla quasi si avvedesse. Arrivato a Roma sulla fine dell’ottobre, nei primi del dicembre entrò a servire il cardinale Ioses di Camerino; nel febbraio si mise in abito di prete, quindi ebbe la prima tonsura.
Sette anni stette il Cicognini, prima coll’ufficio di sotto segretario, poscia di segretario presso il detto cardinale, il quale ai 26 marzo 1620 passò all’altra vita. Allora, avendo egli acquistata qualche pratica e perizia negli affari, andò per la trattazione di certi interessi a Napoli, e per la via aspra e montana dell’Abruzzo e dell’Aquila rivenne a Roma. Dopo sette anni di assenza dalla sua città natale, sentì desiderio di rivederla, e sulla fine del maggio qua venne a risalutare i suoi congiunti, i suoi famigliari, i luoghi cari delle giovanili reminiscenze e de’ primi studi.
Ma le afflizioni che incontrano quasi sempre coloro che furono peregrini lunghi anni, quando ritornino all’amata patria, toccarono pure al Cicognini. Egli non potè rivedere un suo dilettissimo zio materno, Piero Colippi, Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/49 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/50 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/51 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/52 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/53 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/54 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/55 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/56 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/57 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/58 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/59 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/60 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/61 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/62 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/63 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/64 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/65 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/66 Pagina:Storia del Collegio Cicognini di Prato.djvu/67