Sotto la tenda/Presso un vecchio Kaid
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PRESSO UN VECCHIO KAID.
In questa stagione, quando ci si avvicina a qualche villaggio marocchino, si è accolti da uno strano rumore. È una specie di gran battimano. Se uno si ferma, il battimano smette; se uno corre, il battimano diviene d’una violenza da far palpitare di gioia il più blasé dei tenori. E non si vede nessuno, salvo qualche donna al pozzo e qualche contadino accoccolato al sole presso alla siepe di cactus della sua capanna.
Non è facile accorgersi a bella prima che sono le cicogne che fanno quel chiasso singolare all’appressarsi di gente sconosciuta.
La cicogna al Marocco è un animale da guardia. Con la sua vigilanza paga l’uomo della ospitalità. Non per nulla i marocchini la credono animata da uno spirito umano. Dritta sul tetto, nel punto più elevato, ha proprio l’aria d’una sentinella in fazione. Quando scorge qualche cosa di sospetto, apre e chiude rapidamente il lungo becco cavo e sonoro e produce quel rumore da platea; ma senza agitarsi, senza starnazzare, immobile nel suo buffo atteggiamento da uccello filosofo. Basta che una cicogna dia l’allarmi perchè tutte le cicogne del villaggio battano il becco in coro. Al rumore, i primi ad uscir fuori sono i cani, e dietro ai cani compaiono i padroni. A questo punto le cicogne, compiuto il loro dovere, e con più intelligenza delle oche capitoline, tacciono e osservano come la cosa va a finire.
Arrivando ad un misero villaggetto del Raw, che dovevo soltanto attraversare, ho ricevuto i consueti applausi delle cicogne, ed ho udito i gridi dei ragazzi che correvano al di là delle zeribe per vedermi passare. Sbucando nel villaggio li ho trovati tutti arrampicati sopra una tribuna così singolare che non ho potuto fare a meno di appressarmi per osservarla da vicino, e di tirar fuori la macchina fotografica al qual gesto tutti i ragazzi sono fuggiti come un branco di passere. La loro tribuna era un locomobile a vapore, una di quelle motrici che negli ardenti mesi della mietitura vediamo lavorare alla trebbia sui campi.
Rotta, smontata, arrugginita, affondata nella terra, la povera macchina non era più che un ammasso di ferraglia. Ma, per quale miracolo si trovava lì? Degli abitanti si sono adunati, fieri della mia meraviglia, ed hanno raccontato la cosa. Quella macchina appartiene al Sultano. Quattro anni or sono, essa era trascinata da Laraishe a Fez, e la notizia del suo arrivo s’era sparsa in tutta la regione. Si diceva: " 11 Sultaho ha venduto il Marocco agli inglesi, ed ora impiantano il “piroscafo di terra, (cioè la ferrovia). Anzi è sbarcato già e lo portano a Fez”. Avevano preso quella macchina per una locomotiva.
Dal Sebù al Lukkus il paese era commosso. Dei corrieri erano mandati a spiare la marcia della ferrovia, e ne riportavano i progressi. Nelle moschee si pregava, i capi tenevano adunanze. Pareva che con quella misera locomobile trascinata da buoi si avanzasse la distruzione dell’Impero. Un esercito invasore non avrebbe causato una maggiore emozione. Alla fine fu decisa una grande impresa: bisognava arrestare il nemico e farlo prigioniero. Era la rivolta aperta al Sultano, ma che importa quando si tratta della salvezza della patria!
Fu così che un bel giorno i carovanieri e la scorta imperiale si trovarono circondati da grandi masse d’uomini armati a cavallo e a piedi, e si sentirono ingiungere di abbandonare quel mostro di ferro sotto pena di massacro. Essi non esitarono neppure un istante, e se ne andarono al più presto, lasciando in asso il piroscafo di terra che non si è mosso più.
E non si muoverà più. Il capo del villaggio ci ha dichiarato gravemente: "Se il Sultano, che Allah protegga!, venisse egli stesso con diecimila soldati, non riuscirebbe a muoverlo di qui!" "
Ma non è la “ferrovia” questa! ho esclamato è una macchina che non può camminare da sola, fatta per star ferma e lavorare....
Alla traduzione delle mie parole tutti hanno riso con aria incredula. E Mustafà mi ha detto, in tono di blando rimprovero:
Signore, siamo dei poveri ignoranti, è vero, ma anche a un miglio di distanza possiamo capire che questa è proprio la "ferrovia". —94— Non ho insistito ed ho lasciato silenziosamente la mac china condannata. Mi sono rimesso in cammino con una vaga tristezza, la malinconia di chi ha visto morire qualcuno, Siamo giunti alla capitale dei Beni-Melek, Kariat El Hab- besi. Kariat è il nome che si dà alle sedi dei governatori quando non sono fortificate. Il Sffaù. Meglio per lei se non era Kariat quella misera residenza del Kaid Sidi Bubaker Habbesi, governatore di tutti i Beni- Melek ! Essa è stata bruciata dai Beni-Hesen, e quando siamo arrivati alcuni abitanti erano ancora intenti a ricostruirsi delle capanne sulle rovine annerite. Anche la casa del Kaid fu devastata, il Kaid fuggì ed è tornato da poco. E un bel vecchio, dalla barba candida, e che porta l'ampio burnus bianco con la grazia e la gravita d'un senatore romano. Mi ha accolto con grande cortesia, mi ha offerto il the alla menta nel solito cerimoniale, mi ha par lato delle sue disgrazie. E seguìto da suo figlio, che è suo Khalifa, dall' Amin (uomo di fiducia) e da tutta la sua pic cola corte di funzionari campagnuoli dalle maniere e dalle vesti rozze, ha voluto condurmi a vedere la sua casa. È una casa rustica e vecchia che deve avere avuto giorni di fasto. Delle anfore e degli attrezzi rurali ingombrano il quieto cortiletto moresco lastricato di maioliche policrome, ormai rotte e logore; l’acqua piovana ha tinto di verde i pilastri scivolando giù per gli archi eleganti, di quegli archi caratteristici che gli arabi debbono avere tratto dall’orma dei loro cavalli. Nel mezzo al cortile v’è ancora la coppa di marmo d’una fontana nella quale l’acqua non mormora più da anni. Qualche schiava negra attraversa il portico, senza rumore. Vi è per tutto il silenzio e il freddo delle case dei vecchi.
Sidi Bubaker si compiace della sua casa perchè egli forse non la vede come gli altri; i suoi ricordi la ravvivano, l’animano, la rinnovano; egli la trova ancora bella! la casa e l’uomo si sono invecchiati nello stesso tempo senza accor gersene.
Due grandi levrieri africani, d’una razza nobile e rara, sbadigliando e stirando le membra snelle, sono venuti a porgere il muso sottile alla carezza del loro signore; in una saletta oscura due falconi da caccia erano legati al balzuolo, e Pagina:Luigi Barzini. Sotto la tenda.djvu/98 bandiere. Sembrò una buona fortuna a Fez, e gli Zummur furono armati; ebbero quattromila fucili Martini. Avute le armi, dopo aver messo in disordine Fez, quei berberi disertarono in massa, naturalmente con armi e bagaglio. I pochi che non disertarono furono mandati via perchè predavano le tribù amiche. Subito dopo i Beni-Hesen, componenti una delle più grandi tribù arabe, fecero al Makhzen una richiesta di armi dicendo: „Voi avete armato gli Zemmur che sono ribelli; essi ci batteranno e voi avrete perduto tutto il nostro territorio che vi è fedele; dateci dei fucili per difendere noi e voi“ Ebbero mille e cinquecento fucili Martini e Gratz.
Appena armati, i Beni-Hesen, si guardarono bene dall’attaccare gli Zemmur, troppo forti, e si gettarono sui più deboli, sui Beni-Melek, i quali, più lontani da Fez, non avevano avuto niente. La stessa cosa avveniva fra altre tribù, in altre regioni. Gli eserciti sceriffiani sparivano a mano a mano che il Governo si accorgeva d’avere armato dei nemici. Ora negli arsenali governativi non vi sono che fucili inservibili. Ma in compenso le tribù hanno finito le munizioni. Da una parte e dall’altra si conta sul genio commerciale dell’Europa per rifornirsi. Intanto, pace.
L. Barzini. Sotto la Tenda. | 7 |
Accomiatandomi, ho augurato a Sidi Bubaker un migliore avvenire. Egli ha sorriso con rassegnazione, e mi ha risposto:
— Allah conosce!... Quello che Allah fa è ben fatto!.... Sia compita la volontà di Allah!
11 fatalismo di questa gente è sublime. L’arabo non violenta i decreti della Provvidenza che in un solo caso: quando si tratta di abbreviare la vita d’un uomo. E l’anticipare la morte del prossimo non è, in fondo, una violenza, ma rappresenta anzi un zelante aiuto offerto all’immutabile e implacabile destino che sovrasta l’umanità: l’uomo è mortale. Non è dunque chi ammazza, ma chi non vuol morire che è il vero ribelle. È così chiaro...!
Il Sebù è ad un’ora di cammino da Kariat El-Habbesi. Eravamo diretti ad un passaggio, ma ci hanno detto che non vi esistono più barche e villaggi, che tutto è bruciato, distrutto, disertato, e abbiamo dovuto cambiar strada verso un altro passaggio qualche miglio a ponente ancora in attività di servizio. Sidi Bubaker ci ha dato per guida e per scorta uno dei suoi Abid, un colossale schiavo negro che è montato a cavallo, armato di tutto punto. E preceduti da quel bel sudanese, nero e lucido come una scarpa nuova, ci siamo incamminati verso il più gran fiume dell’Africa settentrionale, dopo il Nilo.
All’uscita del villaggio mi attendeva un sinistro spettacolo. I prigionieri del Governatore erano condotti fuori del carcere per lasciare sopra un prato vicino le loro immondizie. Nelle campagne, dove le prigioni non hanno porte solide e pareti spesse, i prigionieri sono incatenati fra loro.
Immaginate una fila d’uomini stretti l’uno all’altro in modo da non potersi rivolgere. Ognuno ha un collare di ferro così greve che le mani debbono correre ogni tanto a sollevarlo per concedere un istante di riposo al dolore causato dal suo attrito. Tutti i collari sono uniti da una pesante catena comune, e fra l’uno e l’altro non vi sono che tre anelli resi brillanti come argento dall’uso. Ogni prigioniero ha le caviglie strette da cerchi di ferro fra i quali è assicurata una larga asta che disgiunge i piedi, e non permette che un camminare lentissimo e penoso a giro di compasso. La fila dei prigionieri può essere così lasciata senza sorve glianza.
Quando anche tutti i loro desideri fossero uniti in un pensiero di fuga, i prigionieri non potrebbero percorrere cento metri in un’ora. Non v" è che l’uomo che resista a si mili martiri; qualsiasi altro animale della creazione ne mor rebbe. Tutte le volontà sono uccise; non esistono più degli uomini, ma un essere complesso e solo, un verme gigantesco che ha tanti piedi e tante mani, un mostro vile che si muove adagio adagio, che striscia sull’erba, ed ubbidisce alla voce d’un ragazzo incaricato di comandarlo. Macilenti, silenziosi, torvi, quegl’infelici mi guardavano con una indifferenza tragica. Vi era un negro che mostrava i denti come un cane. Uno fra loro, troppo basso di statura, aveva il mento sollevato dal collare, e i suoi due vicini, tirati in giù dalla catena, dovevano reclinarsi un po’ sopra di lui. Essi avevano per il loro compagno sguardi pieni di mi naccia.
I prigionieri si odiano fra di loro perchè ognuno è la privazione della libertà dell’altro. La loro ostilità non arriva a chi li ha incatenati: quella è la fatalità. Essi sentono solo di essere uno lo schiavo degli altri. Nel sonno e nella veglia non vedono che una tirannia, quella dei vicini. I delitti non sono rari; al mattino, talvolta, qualcuno è trovato strangolato nel suo collare. La fila dei prigionieri, come una tenia, sopprime ogni tanto qualche anello.
E la carità pubblica che nutre quei disgraziati, e ciascuno di essi, affamato, accusa in cuor suo il compagno di aver rubato il suo pane. Quel verme gigantesco che ha tanti piedi e tante mani, trascina un taciturno ed implacabile odio verso se stesso.
Non dobbiamo accusare di troppa crudeltà il vecchio Sidi Bubaker. Egli è un kaid marocchino, e segue le con suetudini del suo paese. E governatore, ha i suoi prigionieri, e li tiene come si sono sempre tenuti i prigionieri al Marocco quando non si possiede una kasbah nei cui sotterranei gettarli senza catene. L’imperatore stesso avvince così i suoi prigionieri di guerra al campo, sovente poveri contadini strappati al lavoro. Dietro all’Afrag, al recinto imperiale, giace in terra, disposta a mostruosa spirale, una catena di uomini.
La prigionia è l’unica pena del Marocco, senza grada zione e senza limiti di tempo. La pena di morte è virtual mente abolita, essa non frutta nulla. La prigionia, invece, è un cespite di guadagno. Il carcere è per un governatore una specie di frutteto privato nel quale egli pianta degli uomini. Per qualsiasi delitto il colpevole è condannato a ri maner prigioniero finchè la sua famiglia, o la sua tribù, non abbia pagato una tassa di redenzione. Spesso ciò avviene anche senza l’ombra del delitto. L’uomo che ha ucciso e de rubato sconta la stessa pena dell’uomo che ha cercato di far passare due polli alla dogana, l’ex-dignitario in disgrazia sta insieme al bandito acciuffato dalle milizie imperiali, e al mer cante che non può pagare un debito ad un europeo. Se la taglia non è pagata il prigioniero rimane prigioniero finchè muore. Se è pagata, è libero come un uccello, qualunque sia la sua colpa. Degl’innocenti sono dimenticati per sempre. Il loro vitto non costa nulla!
Ciò che v’è di più triste è che noi europei, forti dei nostri privilegi, profittiamo di queste indegnità, noi che dovremmo portare qui un raggio di giustizia. Qualsiasi straniero, attraverso la sua legazione, od anche direttamente chiedendolo alle autorità marocchine, può ottenere l’arresto d’un indigeno accusandolo di non aver soddisfatto agl’impegni commerciali, o d’aver mancato alla fiducia. Non sempre e non tutte le legazioni, nella cieca premura di imporre rispetto alla propria bandiera, assodano la verità delle accuse; e agiscono. Gli indigeni ricchi così accusati, quelli cioè che forse sono realmente colpevoli, pagano un bakscisc alle autorità e si salvano; ma i miserabili, i contadini che la siccità o le cavallette hanno ridotto alla fame, coloro che se non hanno pagato lo straniero è perchè non possono pagarlo, e tanti poveri che sono accusati per errore, per chè un arabo è niente e nel dubbio è bene colpirlo e " dare un esempio „, costoro sono subito imprigionati dai governatori i quali non vogliono fastidi con gli europei, specialmente quando costa così poco soddisfare i reclami.
A questa gente prigioniera nessuno pensa più. Sembrerà impossibile, ma nelle immonde carceri del Marocco giacciono molte di tali vittime della civiltà cristiana, senza speranza di redenzione, condannate per sempre. La nostra coscienza mercantile ha una sorprendente forza di adattabilità, si africanizza volentieri; al suo esame il bene e il male finiscono per non essere altro che l'attivo e il passivo; è la coscienza-bilancio: non c’è più rimorso finchè l’attivo è superiore.
E poi non vogliono amarci, i barbari! Ho fatto distribuire del pane ai prigionieri di Sidi Bubaker, e ci siamo allontanati mentre essi, accucciatisi in terra, di comune accordo, lo divoravano silenziosamente. Da Kariat El-Habbesi si scende insensibilmente, e incomincia la vasta, fertile e selvaggia pianura del Sebù. Non abbiamo incontrato che un misero villaggio, un po’ a tende e un po’ a capanne. In esso v’era una scuola beduina, la scuola primaria dell’umanità: una nidiata di bimbi, seduti sull’erba presso alla tenda del vecchio maestro, intenta a gridare ben forte i versetti del Corano in un coro disordinato come un pigolio di passere.
Ma se la regione è spopolata, la strada è frequentata. Tutte le carovane che vanno e vengono da Fez e da Maquinez, da Alkazar, da Laraishe, debbono far capo lì per passare il fiume. Prima ancora d’arrivare sull’alta ripa del Sebù il quale scorre infossato e non si vede che quando vi si è sopra si sente venir su dal greto un vociare tumultuoso fra muggiti, ragli, nitriti. Le rive melmose sono affollate di carovanieri agitati (come è ogni marocchino che ha da fare qualche cosa, non importa che) in mezzo ad una confusione di muli, di asini, di cammelli carichi; gli shuari s’urtano, grandinano bastonate sulle groppe delle bestie recalcitranti; balle di mercanzia sono accumulate nel fango, e sulle balle frotte di monelli si arrampicano e si rincorrono; i barcaiuoli tirano per le corde di paglia le vecchie arche capaci, le quali da epoche immemorabili fanno la spola da una riva all' altra per conto dei kaid di Habbesi, e si svo- ciano ad urlare balak! balak! alla folla indisciplinata irta di fucili, di bastoni, di lancie; le acque del fiume scintillano al sole.
Le bestie, che ignorano i vantaggi della navigazione, ri- fiutano d'imbarcarsi ad onta delle ingiurie atroci dei condu- centi, e sono messe a bordo di viva forza. I cammelli s' in- ginocchiano, e agitando il loro muso stupefatto e dignitoso chiedono grazia con muggiti disperati; i muli, a furia d'essere ritrosi, si lasciano caricare dalla parte della coda; gli asini sono sollevati di peso e gettati nei barconi; è un inferno. Non so come diamine ne sono uscito. Dopo un'ora di lotta mi sono ritrovato sano e salvo, con la mia carovana, sulla riva del Sebù. Sulla terra dei Beni-Hesen. Dopo un breve riposo, Mustafà è venuto a dirmi : ― C'è un celebre brigante ad un'ora da qui. Si chiama El-Bushaib En Saraui Beni-Hesen. È molto forte; ha duecento uomini a cavallo. ― Ebbene? — Dobbiamo metterci subito in cammino.
— Per fuggire?
Il mio ciambellano ha fatto un gesto di sorpresa, e mi ha detto:
— No. Non saremmo affatto sicuri. E poi la regione è devastata, non vi sono villaggi dove pernottare. Questo territorio fino al fiume Erdom apparteneva ai Beni-Melek; ora è una zona pericolosa. Ultimamente una carovana di ventun mulo è stata svaligiata, gli uomini morti....
— E dove andiamo, allora?
— Da lui, da El-Bushaib.
— Il brigante?
— Si. Gli chiediamo ospitalità. È l’unico modo per esser sicuri ...
— Se è così, in marcia dunque.
Il tumulto del Sebù s’è dileguato dietro di noi, e ci siamo immersi di nuovo nei vasti silenzi del deserto verde e fiorito.