Sotto la tenda/Fra i figli di Melek

Fra i figli di Melek

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A Laraishe Presso un vecchio Kaid

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FRA I FIGLI DI MELEK.

Dall’altipiano dell’El-Raw, che incomincia al Lukkus e finisce al Sebu, ad un certo punto ci è apparsa Alkazar lontana.

Sotto al sole mattutino la vecchia città pareva tremolante e fluida come un piccolo lago bianco in mezzo ad una vasta e verde pianura. A levante sorgevano sull’orizzonte i diafani contrafforti del Riff.

Mustafà si è fermato, ha steso la mano verso quei piani, e voltosi a me ha detto, con una solennità tutta araba:

— Laggiù fu vinta la grande vittoria dei figli dell’Islam! Le tradizioni della famosa battaglia di Alkazar sono ancora vive in questa gente. Le tombe dei capitani mori che vi rimasero uccisi gremiscono una collina vicino alla città, e sono venerate dal popolo come tombe di santi. Fu in quella fosca giornata dell’agosto 1578 che il Marocco si assicurò definitivamente la miracolosa indipendenza che gode ancora, e il Portogallo conquistatore perde tutta la sua potenza per divenire da allora un satellite del " Reino [p. 81 modifica]Catolico”. Un macello di quindicimila cristiani mutò il corso della storia.

Gli arabi mostrano al viaggiatore, che percorre la via di Alkazar, l’antico ponte sul Wad Makhazan ora interrato, abbandonato dal fiume che fu tagliato dai mori alle spalle dell’esercito di Sebastiano portoghese, il Re giovinetto. In quell’esercito, particolare curioso, v’erano anche settecento soldati italiani che il Papa aveva mandato ad imbarcarsi a Lisbona diretti in Irlanda ad aiutarvi una sollevazione cattolica. Ma quei buoni romani trovarono forse che era opera più meritoria e cara a Dio il combattere gl’infedeli che non gli scismatici, e andarono a farsi massacrare ad Alkazar.

Rimase fra i pochi scampati la leggenda che Sebastiano, sparito nella mischia, non fosse morto, ma che, Cristiano Errante, fosse dannato a girare il mondo fino alla scomparsa dell’ultimo musulmano. La leggenda divenne popolare in tutta l’Europa, e un mercante calabrese, certo Marco Catizone, che era stato qualche volta a Lisbona e parlava portoghese, inaugurò in quell’epoca il nobile mestiere del redivivo, facendo [p. 82 modifica]il Don Sebastiano reduce da Gerusalemme, da Costantinopoli e da altri siti. Ma, capitato a Firenze la sua tournée fu malamente interrotta, poichè quei buoni fiorentini scoprirono l’impostura e lo mandarono dritto a remare sulle galee. Dalle galee poi, persistendo egli a rifiutare il remo e a dichiararsi Sebastiano più che mai, fu gettato in acqua, e la sua mortalità rimase efficacemente dimostrata.

La regione che attraversavamo era quasi deserta. Una desolazione fiorita. Immensi prati di lentischio selvatico o di malva in fiore, pianure azzurre e pianure rosse. Non più alberi, nemmeno un palmo d’ombra. Eravamo fuori dalla strada comune delle carovane. I rari pastori che ci guardavano a passare, immobili come sentinelle presso alle loro mandrie, ci davano buone notizie sulle condizioni della strada; la siccità rendeva guadabili tutti i fiumi e traversabili tutti i pantani.

Quegli uomini sdegnavano di accorgersi della presenza d’un cristiano; salutavano in modo da far ben comprendere che il saluto non era per me, ma per i miei arabi. Dicevano: " Sia pace alle genti dell’Islam! " oppure: "Allah dia pace a coloro che accompagnano il nazarene! „. Io, e le cavalcature, rimanevamo inesorabilmente esclusi dalle loro benedizioni.

Ogni tanto una kubba solitaria, una tomba di santo, una specie di dado bianco, sormontato da una cupoletta, posato sulla costa di una collina, o presso qualche sorgente che lo circonda di piante più folte e di fiori più belli. I mulattieri correvano a tuffare le mani ed i piedi in quelle fonti sacre, e tornavano di corsa portando fasci di fiori dei quali avevo la mia parte. Sulla testa del mio cavallo oscillavano iris azzurre o gialle e grappoli di fragranti ginestre, come pennacchi di un destriero da torneo.

Non tutte le kubba sono egualmente sacre. Alcune sono molto rinomate, altre cadono nella rovina dell’abbandono. Vi è una gerarchia anche fra i santi. Siamo passati vicino ad una delle tombe più famose, quella di Lalla Meimuna, una santa che salvò il Marocco dalle acque del mare. È una [p. 83 modifica]leggenda con la quale i marocchini spiegano l’esistenza d’una grande laguna, la Ez-Zerga, che vedevamo verso l’occidente, tenue nella luce e simile a quelle nebbie che inondano al mattino il fondo delle valli.

Ai tempi di Lalla Meimuna vivevano sulla sponda del mare due santi che, naturalmente, pretendevano d’essere uno più santo dell’altro, e la folla dei devoti non sapeva proprio a quale raccomandarsi. Ci voleva una prova definitiva. Un giorno i due marabù stavano pescando insieme, e uno di essi, di nome Sidi Abd el-Aziz et Tayar, immerse la mano nell’acqua e la ritrasse carica di pesci; ogni pelo aveva servito miracolosamente da amo. Era un vero trionfo; ma Sidi Bu Selham, l’altro santo, non si diede per vinto. Si levò di gnitosamente e fece al mare cenno di seguirlo, esclamando: — Vieni, che io ti conduca a Fez perchè le fanciulle di quella città si lavino le mani nelle tue acque! — Il pensiero era gentile e il mare seguì docilmente lo sceriffo, il quale cominciò a risalire il fiume Drader e, con quel corteggio devastatore di onde scroscianti, giunse nel luogo dove viveva Lalla Meimuna.

La santa, giustamente spaventata dall’imminenza del disastro, scongiurò il collega di fermarsi, ma egli le fece osservare che si era impegnato di far lavare nelle acque del mare le mani di fanciulle di Fez, e che, da santo onesto, non poteva mancare alla sua parola. Allora Lalla Meimuna convenne sulla necessità di mantenere l’impegno, ma trovò più pratico di far venire delle ragazze da Fez che non il portare il mare

L. Barzini, Sotto la Tenda. 6
[p. 84 modifica]laggiù. Maometto non era forse andato alla montagna quando

la montagna non volle andare a lui? Detto fatto, per un miracolo della santa alcune fanciulle della capitale appaiono sul luogo, si lavano le mani, e tornano a Fez in un batter d’occhio (beate loro!).

Tutto fu così accomodato; ma il mare non tornò indietro; rimase dove era, formando la Ez-Zerga. Lalla Meimuna ha una bella kubba, ed anche una piccola moschea annessavi. Sidi Bu Selham pure dorme nella sua kubba in riva al mare, ed i fedeli lo pregano specialmente quando i fiumi in piena minacciano l’inondazione. Hanno paura che sia lui che ricomincia....


Verso sera il paesaggio s’era fatto d’una solitudine tetra. Non incontravamo più nemmeno una mandria di quei piccoli buoi del Gharb che pascolano tranquillamente sopportando i tir el-begrar- gli " amici dei buoi - uccelli bianchi che saltellano sulle loro groppe pazienti beccandovi gli insetti fra i crini. Degli antichi duar non rimanevano che le siepi di cactus e le zeribe, sulle quali le fedeli cicogne facevano il nido. Le continue guerre fra le tribù dei Beni-Hasen e i Beni-Melek hanno spopolato la regione. Da cinque anni nessun europeo aveva attraversato quel tratto di territorio. Non v’era più ombra di sentiero. Sull’erba biancheggiavano qua e là ossa di bestiame rosicchiate e disperse dagli sciacalli e pulite dai corvi, traccie sinistre di razzie recenti.

Marciavamo da nove ore. I muli carichi inciampavano ogni tanto, sfiniti, e gli uomini tacevano - grande sintomo di stanchezza fra gli arabi. Bisognava ad ogni costo raggiungere El-Arbah Sidi Eisa Belhesen, il primo luogo abitato, per mettere il campo sotto la protezione del villaggio e non essere esposti ad una visita notturna di predoni.

Improvvisamente, superato il declivio di una collina, abbiamo scorto lontano parecchi uomini a cavallo, armati di fucile, che venivano verso di noi.

Ci siamo fermati perplessi.

Al vederci, gli sconosciuti si sono slanciati al piccolo galoppo fra uno svolazzamento di manti, e galoppando hanno [p. 85 modifica]sfilato dalle guaine rosse i lunghi fucili, che portavano di traverso all’arcione, brandendoli in alto al disopra delle teste. Venivano tutti insieme in branco confuso, fra nembi di polvere, ma avvicinandosi si sono spiegati in una sola fila: erano dodici. Noi avevamo preparato le armi.

Li abbiamo visti poi sollevare e gettare sulla spalla destra il lembo del selham, scoprendo il braccio, ed appoggiare sulla coscia i calci dei fucili, le canne in alto. E ci siamo rassicurati. Era un gesto di saluto.

A dieci metri da noi si sono fermati di colpo, tutti insieme. I cavalli si sono irrigiditi, puntando i sottili garretti, il collo arcuato, la testa bassa, la bocca spalancata sotto alla pressione del terribile morso arabo. I cavalieri hanno fatto un inchino sulla sella, abbassando i fucili, mentre il loro capo che era in mezzo alla fila, armato solo d’una grande sciabola, pronunciava parole di saluto: Marhabbà Bik! - " Che tu sia il benvenuto! ".

Questa volta il saluto era proprio per me.

Il capo era un ricco arabo in relazioni commerciali col [p. 86 modifica]nostro agente consolare, signor Guagnino, e su di esso, per il regime delle capitolazioni, si estende, la protezione italiana. Egli si chiama Selham Ben El-Hashim El-Yesfi, e gode di una grande influenza nell’El-Raw. Alla notizia dell’arrivo d’un italiano per una strada poco sicura, egli aveva chiamato sotto le armi tutti i suoi parenti ed era partito alla loro testa per fargli scorta. Venivano dal loro villaggio di Ulad Yusuf ElTsenin, ed avevano percorso una trentina di chilometri quando li ho incontrati.

La presenza d’uno straniero è una cosa così rara in certi punti dell’interno, che ogni europeo che vi capita è preso per un personaggio importante al suo paese. Gl’indigeni lo chiamano almeno cunsul (console), quando non lo gratificano del titolo di bassadur (ambasciatore). Chi va a Fez poi è ambasciatore di sicuro; disprezzato sì, ma bassadur.

I miei nuovi amici erano della tribù dei Beni-Melek; tutti giovani; alcuni ancora imberbi non portavano turbante per indicare che non possedevano nemmeno una moglie, e solo una piccola rezza bianca s’avvolgeva intorno alla loro testa nuda. Questo semplice copricapo arabo è rimasto in Spagna; è il pañuelo dei contadini andalusi.

Erano venuti in completo assetto di battaglia, per farmi onore. Avevano messo sopra alla sella la migliore gualdrappa rossa, e sulle loro spalle il selham più bello; batteva il loro fianco la kumiya, daga ricurva dal fodero d’argento scolpito, e portavano a tracolla la borsa della polvere. Essi erano andati più volte a battersi così. Nelle guerre di tribù ogni drappello è composto dagli uomini d’una stessa famiglia.


Si è in pieno regime patriarcale; qui nelle campagne non v’è altra forza di coesione che la famiglia ed altra autorità che il padre. Tante tribù hanno una discendenza unica; non sono che un’immensa famiglia, e si chiamano col nome del primo padre, preceduto dalla parola Beni che significa " figli di I Beni-Melek sono i "Figli di Melek I Beni-Hesen sono i „Figli di Hesen“.

Dove le terre sono libere, più una famiglia è numerosa e più vasto è il suo possesso, più grande il suo potere, più [p. 87 modifica]sicura la sua libertà. In un paese come questo si spiega la poligamia. Essa permette delle figliolanze inaudite e crea rapidamente intorno al padre schiere di giovani guerrieri. Mulei Ismail ebbe più di ottocento figli maschi! L’harem diventa una forza. Esso è un elemento di conquista; forma delle unità di combattimento.

Nelle città, dove la popolazione ha preso un assetto definitivo e non può più crescere, e non vuol più crescere, la poligamia ha perduto ogni ragione di essere e si corrompe; il gineceo non è più che un luogo di piacere, nel quale spesso manca la vivificante e sana espansione dell’infanzia. Ma fra le rudi genti della campagna l’harem è un vivaio di giovinezze, e conserva una primitiva biblica onestà per la quale ogni donna non ha altro orgoglio ed altra fierezza che l’essere madre.

La poligamia è stato il gran bene e il gran male dei popoli dell’Islam. Fece di loro degli emigratori, degli invasori e dei dominatori. L’accrescersi rapidissimo delle famiglie si riversava su nuove terre, i figli si spingevano avanti, ed era così la parte più ardente e più viva del popolo che apriva la strada come è la lava più incandescente e fluida che precede le colate sui fianchi d’un vulcano. La spinta era irresistibile, e si formò quella gran marcia araba che fu arrestata solo sotto le mura di Tolosa e di Tours. Ma quando questi popoli si fermarono mancò loro la donna: essi non avevano che la femmina.

Questa mancanza che li aveva fatti vincitori, li fece vinti.

Non esiste la donna nella società musulmana; l’harem l’ha segregata, cioè radiata; la vista del suo volto è stata decretata pericolo sociale; ogni donna che esce dai suoi recinti è una specie di “maschera di ferro”, condannata da [p. 88 modifica]una legge inesorabile a celare i suoi lineamenti. Maometto disarmò la donna velando la sua bellezza: le impedì di fare tanto male, ma anche di fare tanto bene.

La segregazione che trasformò la donna in una proprietà invisibile, in una cosa vile che ha un padrone, ha sottratto gli uomini ad una gentile e soave influenza, li ha privati di ogni raffinatezza di sentire, ha tolto loro il palpito della compassione, la dolcezza del perdono, lo slancio della gene rosità, il senso d’una bontà serena, tutti quei sentimenti che la donna insegna senza insegnare vivendo nella stessa vita dell’uomo, essa che è sempre pronta a chieder grazia per chi soffre.

Nulla è venuto a mitigare nel maschio carattere dell’arabo il fondo selvaggio del beduino. La civiltà araba è stata una civiltà dei sensi e della mente, ma il cuore non v’è entrato e non vi ha portato l’idea fondamentale d’una giustizia, idea che nasce soltanto dalla pietà.

E con la donna nascosta manca l’amore che fonde le genti e le razze, che fa un popolo solo degli abitanti d’una stessa regione, che allarga i vincoli di sangue e fa sorgere dalla tribù la nazione. Mai un marocchino d’una kabilia spo serà una donna di altra kabilia. Ad ogni passo qui ci si trova fra genti diverse ed ostili. Il popolo arabo è caduto perchè non s’è mai potuto unire. Nei tempi più floridi della loro esistenza, ogni città mora della Spagna era nemica delle altre, come oggi ogni tribù è nemica dell’altra. Questo popolo, diviso, s’è dilaniato, si è demolito, perchè non aveva imparato ad amare.

Le genti dell’Islam pagano aspramente col loro sangue e la loro pace la soppressione della donna.


I miei cavalieri Yesfi, scambiati i saluti, hanno caricato i loro fucili a pietra focaia — operazione che nessuno di noi potrebbe compire come loro cavalcando — e, ad un comando di Ben El-Hashmi, si sono abbandonati in mio onore all’ebbrezza della " fantasia „.

Gli arabi la chiamano laab el-barud, cioè " giuoco della polvere „. E un giuoco e nello stesso tempo una manovra [p. 89 modifica]di guerra; la cavalleria marocchina non conosce altro esercizio ed altro passatempo. Qui combattono così; la battaglia è una fantasia e la "fantasia" è una battaglia.

In guerra, con dei fucili primitivi il cui tiro è incerto e la portata minima, i marocchini debbono far fuoco a corto, avvicinare il nemico a pochi passi; questa pericolosa accostata deve essere rapida, ed è fatta con un galoppo furibondo. Eseguita la scarica, l’abilità consiste nel fermare di colpo il cavallo e tornare indietro a spron battuto per sottrarsi veloci alla risposta nemica, e ricaricare le armi al sicuro = cosa che richiede un certo tempo. Con il fucile marocchino, la skobita (skobita forse dallo spagnolo escopeta), chi ha fatto fuoco è disarmato e deve fuggire. Il combattimento consiste dunque in una serie di assalti veementi e di ritirate precipitose, in un va e vieni di schiere galoppanti; i due avversari s’inseguono volta a volta a seconda che hanno la skobita carica o scarica. La "fantasia" il laab el-barud, riproduce le fasi di questa lotta singolare, sopra un nemico immaginario.

È uno spettacolo superbo.

Lo spirito di un popolo si rivela nella battaglia. E noi sentiamo nella "fantasia" l’anima strana del Marocco con le sue foghe e le sue fughe, ardente e cauta, piena di [p. 90 modifica]ebbrezze e di ostinazioni, trascinata e trattenuta da antiche immutabili idee.

Ecco, con le armi pronte il drappello prende il galoppo, e s’avanza compatto. È la carica. Il vento solleva burnus e fasce, leggeri lembi di rezza svolazzano sui turbanti, le lunghe code dei cavalli s’agitano nell’aria e le ricche gualdrappe e le martingale di seta battono le groppe. Scintillano le canne dei fucili ornate di anelli d’argento fra tutto quel rimescolìo confuso, abbacinante, che vola via come sospeso sul rapido aggrovigliamento delle zampe sottili e nervose dei cavalli, lasciando dietro di sè nubi grigie di polvere.

Le larghe staffe damaschinate battono a sangue i fianchi delle cavalcature, il galoppo s’accentua, diventa carriera. Sullo scalpitìo precipitoso degli zoccoli che pare un rombo, si leva l’urlo degli uomini il cui volto s’illumina d’una gioia feroce. Essi abbandonano le redini al pomo dell’arcione, guidano ora solo con la voce e con le ginocchia. Gettati indietro sulla sella, sollevano in alto i fucili, e li girano, li roteano, vogliono farsi più grandi con questi gesti, più minacciosi e terribili. Il nemico è vicino.

Ad un tratto tutti i fucili s’abbassano ad un tempo; è un attimo; parte la scarica, e nembi di fumo bianco e denso scivolano via lievi, rasenti la terra, per svanire lontano come una diafana cavalcata di fantasmi. I cavalli conoscono la manovra; all’udire il colpo si fermano da loro, di scatto, con uno sforzo che talvolta fiacca loro il petto, e, rivoltatisi in una mossa d’impennata, tornano al galoppo, coperti di sudore, la bocca schiumante, l’occhio sanguigno.

Il ritorno è disordinato. I cavalieri non curano più il loro portamento. Fuggono. Curvi sull’arcione lavorano di bacchetta e di stoppaccio per ricaricare i fucili, battono la mano sul calcio per far scendere la polvere nella cunetta dell’accenditoio, sollevano la pietra focaia, abbassano l’acciarino, e intanto lasciano al cavallo la cura di condurli all’adunata, dove qualche minuto dopo tutti si ritrovano, si consultano, si schierano. E partono per un nuovo assalto.

I cavalli marocchini amano il laab el-barud quanto i loro padroni. Vi trovano un misterioso piacere come il poney inglese [p. 91 modifica]al giuoco del polo, lo comprendono, vi si appassionano. E ne ho avuto una prova a mie spese quando la mia onesta cavalcatura, nella quale non supponevo un passato guerresco, alla vista dei suoi colleghi galoppanti ha rizzato le orecchie e s’è slanciata trascinandomi risolutamente attraverso a tutte le peripezie d’una furibonda “fantasia”. Poi mi ha ricondotto bonariamente al posto con quell’aria soddisfatta d’un cavallo che ha vinto il premio. E non ho faticato poco per far comprendere a quella povera bestia che aveva sulla groppa un uomo più vecchio di alcuni secoli dei suoi primi padroni.

Un’ora dopo il campo era piantato, lieto di canti e di nitriti. I riflessi incerti dei fuochi illuminavano vagamente le tende intorno, e gli arabi accoccolati in terra, e a tratti le cavalcature delle quali si udiva nel buio il masticare vorace; ombre lunghe fantastiche, si agitavano e correvano sull’erba fiorita a confondersi nella notte. Gli uomini del villaggio vicino erano scesi armati e circondavano il campo facendo la guardia e rimandandosi di tanto in tanto il grido: “Che fate?”, e la risposta: „La sentinella prega per Maometto!“ Il cielo palpitava di stelle.

Gli Yesfi, poco dopo l’arrivo alla tappa, mi avevano fatto il dono tradizionale dell’ospitalità: due giarre di burro ed un montone. Con i garretti tagliati, insanguinato e belante, il montone era stato gettato ai miei piedi da Ben El-Hashmi con un gesto solenne e sacerdotale, e io avevo dovuto toccarne il vello per indicare l’accettazione. Sono andato poi nella tenda degli Yesfi a ringraziarli, accompagnato da Mustafà, mio ciambellano e interprete.

Erano seduti in cerchio, sotto i raggi d’una lanterna. Uno di loro mi ha chiesto una medicina; si sentiva male. L’europeo è un po’ mago e deve essere un po’ medico. Gli ho dato del chinino. Poi s’è parlato di guerra, dei combattimenti dell’anno passato.

I Beni Hesen ci hanno preso armenti e denaro per chè erano in tanti. Traversavano il Sebù di notte ed erano più di duemila. Noi eravamo seicento! diceva uno.

Ma ora siete in pace? chiesi. [p. 92 modifica]— Comperiamo fucili europei — rispose un altro — e passeremo noi il Sebù.

— I nostri cavalli conoscono la strada. Sette dei cavalli che sono qui, li abbiamo presi ai nemici.

— E i loro padroni? — ho domandato.

— Sono morti.

Il più giovane, un ragazzone sorridente, mi ha detto stendendo la mano fuori della tenda versa il gruppo delle cavalcature:

— Vedete quel cavallo bianco? Il suo padrone era ferito e gridava in terra. Io sono tornato indietro e gli ho tagliato la testa. Con questo....

E mi ha messo sotto gli occhi la larga lama ricurva della sua “kumiya”.