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Ho fatto distribuire del pane ai prigionieri di Sidi Bubaker, e ci siamo allontanati mentre essi, accucciatisi in terra, di comune accordo, lo divoravano silenziosamente. Da Kariat El-Habbesi si scende insensibilmente, e incomincia la vasta, fertile e selvaggia pianura del Sebù. Non abbiamo incontrato che un misero villaggio, un po’ a tende e un po’ a capanne. In esso v’era una scuola beduina, la scuola primaria dell’umanità: una nidiata di bimbi, seduti sull’erba presso alla tenda del vecchio maestro, intenta a gridare ben forte i versetti del Corano in un coro disordinato come un pigolio di passere.

Ma se la regione è spopolata, la strada è frequentata. Tutte le carovane che vanno e vengono da Fez e da Maquinez, da Alkazar, da Laraishe, debbono far capo lì per passare il fiume. Prima ancora d’arrivare sull’alta ripa del Sebù il quale scorre infossato e non si vede che quando vi si è sopra si sente venir su dal greto un vociare tumultuoso fra muggiti, ragli, nitriti. Le rive melmose sono affollate di carovanieri agitati (come è ogni marocchino che ha da fare qualche cosa, non importa che) in mezzo ad una confusione di muli, di asini, di cammelli carichi; gli shuari s’urtano, grandinano bastonate sulle groppe delle bestie recalcitranti; balle di mercanzia sono accumulate nel fango, e sulle balle frotte di monelli si arrampicano e si rincorrono;