Sorrisi di gioventù/Il mio latino
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Il mio latino.
Gli amici che mi leggono, buona gente e dotata d’una pazienza estrema, mi accusano del troppo slatinare ch’io faccio, quante volte, con una ragione o con l’altra, e magari senza ragione, mi riesce di tirare la mia prediletta lingua morta tra i fatti, le costumanze e le conversazioni dei vivi. L’accusa, non lo nego, è fondata: ma se per questa dovessi mai esser tratto in corte d’assise, potrei certo invocare a mio benefizio le circostanze attenuanti. La gratitudine mi ha fatto colpevole; e l’occasione del peccato, come della gratitudine, mi è venuta dal praticare cogli spiriti; con quelli, s’intende, che si presentano a noi in una tavoletta scrivente.
Saprete, o non saprete, di che cosa si tratti: ond’io, nel dubbio, ne dirò brevemente quello che mi parrà necessario. Tanto, si fa per discorrere, e si passa mezz’ora. Figuratevi una tavoletta sottilina e minuscola, non più larga delle due vostre mani accostate, più lunga di poco, a tre canti arrotondati, poggiata su tre gambette smilze, due delle quali, le posteriori, finiscano in un piede emisferico assai levigato, e la terza, anteriore, sia munita d’un gessetto, o d’un cannellino di pietra de’ sarti. La tavoletta si colloca su d’una gran tavola, nel cui ripiano è incastrata una lastra di lavagna; due mani, quelle del medium, ossia del mediatore opportuno tra voi e gli spiriti si posano sulla tavoletta, premendovi su leggermente: uno degli astanti invoca allora lo spirito di un trapassato, più o meno illustre, o per qualche ragione pregiato e caro, a cui gli prema far domande, ad alta voce, o mentali. Lo spirito invocato, o chi per lui (vedremo or ora il perchè di questa restrizione prudente) dà segno del suo arrivo con un fremito, con uno scricchiolìo, o addirittura con un balzo della tavoletta. Siete allora alla presenza sua; ad alta voce, o mentalmente, gli potete domandare quel che volete, ed egli vi risponde come e fino a tanto che gli pare. La tavoletta, seguita a stento dalle dita del mediatore, corre sulla lavagna, saltellando o scivolando sui piedi posteriori; e così correndo a sua posta, scrive coll’anteriore (scriver coi piedi non è poi una gran novità), dando alle vostre domande una serie di risposte, di cui potete contentarvi, sì e no, come di quelle d’ogni altro interlocutore.
Di questo, e d’altri consimili, che non so dire se giuochi maravigliosi o fenomeni strani della misteriosa natura, non voglio dare un giudizio, che per la mia poca esperienza e per la mia pochissima dottrina dovrebbe apparir presuntuoso. Confesserò candidamene che qualche volta, la tavoletta spiritata mi ha messo in pensiero, specie quando le domande erano fatte mentalmente, e le risposte tornavano. Ce n’erano di savie e di pazze, di profonde e di sciocche, ma sempre, o quasi sempre, calzanti. Una sera avevo commessa la imprudenza grande di scomodare lo spirito di Dante Alighieri, per chiedergli mentalmente se davvero la Beatrice della «Vita Nuova» e della «Commedia» fosse una donna vissuta, in carne ed ossa, e figliuola di messer Folco Portinari. Il divino Poeta ebbe la bontà di rispondermi: «Ah, tu non conoscesti quell’angelo! Ella fu il conforto della mia misera vita». Così, preso romanticamente l’aìre, mi si stemperò in una fuga di strofe settenarie, sul taglio dell’«Ei fu», ma per verità senza la forma composta e il fare serrato del Manzoni; tanto che non ne tenni un verso a memoria, e mi dolsi piuttosto che andasse sprecato in quel vaniloquio il gessetto. Ma non c’era da stupirsi, se lo spirito rispondeva in quel modo, mentendo così sfrontatamente all’arte sovrana dell’Alighieri. Non avevamo da fare con Dante, pur troppo; un ignoto spirito canzonatorio s’era fatto avanti in sua vece.
È risaputo dagli intendenti di spiritismo che non sempre lo spirito chiamato viene egli in persona, e che spesso, essendo egli impegnato altrove, o sdegnando questa maniera di confabulazioni terrestri, uno spirito burlone o maligno occupa il suo posto nella sottile assicella, amando farsi passare per lui. Ci sono spiriti baioni e cattivi, nel mondo di là, puri ed impuri, serii e faceti; come nel mondo di qua, nè più nè meno: e quando nella tavoletta, scambio del puro spirito invocato, ve ne capita uno di quei tali che lavorano ad ingannarvi, c’è proprio da guastarcisi il sangue.
Questo, per l’appunto, era stato il caso mio coll’apocrifo Dante. Ed io mi adattai alla spiegazione che lì per lì me n’era stata fornita dai pratici; me ne persuasi facilmente, tra perchè a far diverso avrei mancato alle buone creanze, e perchè sarei passato per più scettico che veramente non fossi, o non avessi il diritto di essere. Amai piuttosto lasciare quelle esercitazioni spiritiche, le quali finalmente mi turbavano un poco. E del resto, a che pro’ le avrei continuate? A trattare con ispiriti cattivi, impuri e burloni, non c’è niente più sugo che a barattar discorsi con troppi dei nostri amati contemporanei. Godiamoci questi, coi quali è viaggio obbligato: a conversare cogli spiriti eletti ci sarà sempre tempo; anzi, ne avremo tanto, da rifarci ad usura dei pochi lustri perduti «in hac lacry....» Ma no, vediamo di meritare il perdono, schivando per una volta tanto il peccato; e in povera lingua italiana raccontiamo il caso, per cui s’invocano le circostanze attenuanti.
Il nostro evocatore di spiriti era un capitano in ritiro, brav’uomo, digiuno di studi, anzi diciamo pure incolto in ogni disciplina, che non fosse quella del reggimento. Sapeva un po’ d’inglese, per pratica fatta in una legione anglo-italiana, nella quale aveva militato quattro o cinque anni addietro; per contro, ignorava il latino, e parlava l’italiano con un gran miscuglio di parole e di frasi piemontesi. Brav’uomo, ho detto, buon padre di famiglia, di costumi esemplari e di maniere garbate, a cui dava più spicco il suo testone di mago sabino, incorniciato alla diavola da una selva di setole arruffate, d’un nero d’ebano già largamente brizzolato d’argento; colla fronte mezzo occupata da due ispide sopracciglia, sotto le quali scintillavano gli occhi mobilissimi; non lungo il naso, ma grosso, carnoso e sincero nel suo buon colorito vermiglio; nascoste le labbra sotto due baffoni che gli prendevano mezze le guance, andando a collegarsi colle fedine; e quel che restava di pelle alla vista era tutto un intreccio di solchi, da disgradarne un obelisco di Memfi, un cilindro di Babilonia, un mattone di Ninive.
Da quanto tempo trattasse la tavoletta spiritica, e come e perchè gliene fosse saltato il ticchio, non saprei dirvi adesso, non avendo pensato allora, a domandargliene. Certo, al tempo ch’io lo conobbi, la tavoletta e lui erano come pane e cacio: bastava ch’egli ci mettesse sopra le sue larghe mani callose, sfiorandola appena col sommo delle dita, perchè quella fremesse e scricchiolasse; poi, quando ci aveva dentro lo spirito chiamato, corresse, corresse, scrivendo con una velocitá maravigliosa. Rammento ancora d’un fatto strano intervenuto al brav’uomo, e ch’egli raccontava con molta semplicità, senza dargli importanza. Una notte, essendo egli nel primo sonno, era stato svegliato dalla moglie sbigottita, che aveva sentito battere all’uscio della camera. Gatti, non ce n’erano, in casa. Che si trattasse d’un sorcio? Ma no; era un colpettino secco, che ad ogni tanto si ripeteva, con insistenza, e via via con frequenza maggiore. Saltò dal letto il buon capitano, andò ad aprir l’uscio e al lume della candela che vide egli mai sulla soglia? La tavoletta, la tavoletta spiritica, che ben ricordava di aver lasciata sulla lavagna, nella sala delle amichevoli adunanze serali. Ed anche ricordava allora di averla lasciata là, senza rimandare pei fatti suoi l’ultimo spirito chiamato: ond’era ben naturale che quel poveretto venisse a chiedergli in quel modo la sua liberazione. Sorrise allora, il buon capitano; fece gli atti necessari per licenziare lo spirito prigioniero; quindi rimise la tavoletta al suo posto, dond’ella non ebbe più ragione di muoversi.
Si andava in molti, ogni sera, nella casa ospitale del nostro evocatore di spiriti; in una delle vie più antiche e più strette di Genova, tra la piazzetta della Posta vecchia e la piazzetta di San Luca. La più parte dei frequentatori erano emigrati, poichè si era poco innanzi il 1859; siciliani, napoletani, romani e romagnoli, abbondavamo; tutta gente per bene, che viveva con pochi quattrini ma anche con molta dignità, anteponendo lo svago temperato di una conversazione in qualche casa d’amici, alla vita scioperata del caffè, o peggio, alla vita oziosa d’una sala da giuoco. Io ci avevo particolarmente gradita la conoscenza di un Torricelli, napoletano, gentil cavaliere, mingherlino e aggraziato, dagli occhietti vivi e dalla barbetta nera e lucida, che si muoveva tutta d’un pezzo ad ogni sorriso delle labbra sottili, che mettevano in mostra due fila di candidissimi denti. Era stato alla,ù difesa di Roma, ed uffiziale d’ordinanza di Garibaldi, nell’epica ritirata di San Marino, i cui particolari amavo farmi raccontare ad ogni tratto da lui.
Da questo amico mio fu chiamato una sera lo spirito di Archimede. Venne questi, e diè segno d’esser lì, pronto a rispondere; ma alla domanda mentale del Torricelli non rispose poi altrimenti che con certo guazzabuglio di linee, segnate sulla lavagna con un bel numero di salti avanti e indietro, a destra e a sinistra, pari a quelli che può fare sulla scacchiera il cavallo.
— Che roba è questa! — si chiedeva. — Ma questo non è rispondere.
— Anzi, — notò gravemente il Torricelli, — lo spirito risponde benissimo. Gli ho chiesto di descrivermi la forma del porto di Siracusa. —
Non c’era altro da replicare. Quei segni potevano benissimo rappresentare il porto di Siracusa, nell’anno 212 innanzi l’èra volgare, quando il console Claudio Marcello assediava la città, e Archimede la difendeva colle sue trovate scientifiche. Potevano, dico; se poi rispondessero al vero, non era da noi l’indagare.
Anch’io fui invitato quella sera a chiamare uno spirito; ma avevo fresca la memoria del mio caso con Dante, e non volli procurarmi a così breve distanza di tempo una seconda canzonatura. Altri, in quella vece, chiamò Marco Tullio Cicerone. E qui, si capisce, grande curiosità, grande aspettazione di tutti i presenti, come quando in una brigata si annunzia l’arrivo di un personaggio eminente. Archimede poteva esser grande fin che voleva, come un insigne matematico, ma i più potevano anche ignorare i suoi meriti altissimi: nessuno poteva per contro ignorare la solenne figura storica di Cicerone, gran politico, gran filosofo, grande oratore, anzi l’oratore per eccellenza.
Cicerone arriva; e subito l’invocatore, posando la mano su quelle del mediatore, gli volge la sua domanda mentale. La risposta non si fa aspettare; Marco Tullio entra in argomento ex abrupto, come aveva fatto a’ suoi tempi con Sergio Catilina, e scrive quella risposta in una sola parola:
— Utike. —
Si legge, si rilegge, è proprio Utike; nè altro v’aggiunge lo spirito del grand’uomo, che tempi suoi certamente non aveva dato saggi di tale breviloquenza spartana.
— Utike! — esclama uno degli astanti. — Che diavolo è?
— Non è latino, a buon conto; — osserva un altro.
— Utique doveva dire; — commenta un terzo, che è fresco di studi.
Fresco di studi ero ancor io, e magari di spropositi nella sacra lingua dei padri. Ridotto in un angolo della sala coll’amico Torricelli, notai a mia volta:
— E se al tempo di Cicerone si fosse detto Utique? È egli poi certo che gli antichi Romani, nelle sillabe qua, que, qui, quo, facessero sentire il suono dell’u? Non si cita egli come un bisticcio di Cicerone la frase «tibi quoque placebo» ch’egli disse ad un cuoco, da cui era stato richiesto d’una grazia? E sarebbe stato possibile il bisticcio, se nella pronunzia il quoque, che significa «pure, anche, eziandio» non si fosse confuso col vocativo di coquus, anzi diciamo pure di cocus?
Maraviglia delle maraviglie! Parlavo a mezza voce, in un angolo della sala: ed ecco: sulla gran lastra dove stava posata, la tavoletta fa un salto, scappando quasi di mano al suo custode, e scrive a gran furia queste poche parole:
— Barrili ha ragione. —
Confesso che lì per lì, quando sentii rilevare la frase, n’ebbi una scossa; e una scossa niente piacevole, quantunque ci fosse da sentirsi lusingati dalla approvazione d’un tant’uomo. Me l’aspettavo così poco, se mai! D’altra parte, Marco Tullio avrebbe fatto meglio a darmi ragione in latino. Inoltre, quell’esser conosciuto io, proprio io, da un uomo di tanta levatura, e di tanta antichità, per giunta, non finiva di persuadermi. Va bene, pensavo, che gli spiriti acquistano, dopo la morte dei corpi, la conoscenza di moltissime cose; e magari, la conoscenza di tutte; ma che si pieghino.... ma che si degnino.... E qui, tra tanti dubbi, non finivo neanche il periodo.
Il Torricelli, frattanto, mostrandomi tutti i suoi denti bianchissimi nel doppio arco delle labbra vermiglie, mi faceva un graziosissimo inchino.
— Puoi esser contento; — diss’egli. — Cicerone ti conosce.
— Taci, assassino! — brontolai, pizzicandolo forte in un braccio.
Per quella sera sopportai con dignità la mia gloria, come si sopporta con perdonabile ostentazione una grande sventura. Ma d’allora in poi non ho più pensato a Marco Tullio senza un certo sentimento misto di tenerezza, di reverenza e di vergogna. Sì, anche di vergogna. Infatti, quel grand’uomo conosceva me, quasi ragazzo, uscito appena di collegio, ed io conoscevo lui così poco! Una Catilinaria, quella del quousque tandem, e mezza la Miloniana, era tutto quello che avevo scorticato dal suo stupendo latino. Ripigliai subito a leggerlo; lo lessi tutto, da capo a fondo, orazioni, opere di retorica, di politica, di morale, di storia, epistole, perfino i frammenti poetici; e tanto lessi e rilessi, che certe cose sue, come il «De Senectute», le ritenni in gran parte. Così m’è entrato in testa un po’ più di latino che non ne avessi voluto imparare a scuola: così m’è entrata nell’ossa la manìa delle citazioni latine. Chi l’ha nell’ossa, la porta alla fossa. Ed amo Cicerone; e vado in collera se qualcheduno ne dice male; e butterei il libro, fosse pure d’un erudito tedesco, in cui non gli vedessi resa la giustizia che merita. Che si canzona? Cicerone! Cicerone, che mi conosce!…
Cioè, intendiamoci, mi conosceva allora. Ma con tant’anni passati, non c’è caso che il grand’uomo si sia dimenticato di me? Vorrei chiederne alla tavoletta, poichè di questi balocchi ne girano ancora pel mondo; ma non lo faccio, per parecchie ragioni, delle quali basterà dirne una. Quel grande amico mio è uno spirito puro; ci sarà tempo a domandargliene; laggiù per esempio, in quel
nobile castello
Sette volte cerchiato d’alte mura,
Difeso intorno d’un bel flumicello,
che Dante, l’autentico, ha descritto così bene nel quarto canto dell’«Inferno». Laggiù, se mi sarà dato d’entrar di straforo, tra il chiaro e il fosco, andrò bene a tirare il mio grand’uomo pel lembo della toga. È già pregusto l’allegrezza d’una conversazione come questa:
— Scusi, signor Marco Tullio degnissimo.... Se permette, io sarei quel tale.... Si rammenta?
— Ah, sì, caro, mi rammento benissimo.... E come qua? Da quando? Siete sempre stato bene, m’immagino. Se voleste dirmi per intanto il vostro riverito nome.... Perchè, in verità, da poi che v’ho dato a balia.... capirete!
— Oh, si figuri, e come! —