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il mio latino 195

che non fosse quella del reggimento. Sapeva un po’ d’inglese, per pratica fatta in una legione anglo-italiana, nella quale aveva militato quattro o cinque anni addietro; per contro, ignorava il latino, e parlava l’italiano con un gran miscuglio di parole e di frasi piemontesi. Brav’uomo, ho detto, buon padre di famiglia, di costumi esemplari e di maniere garbate, a cui dava più spicco il suo testone di mago sabino, incorniciato alla diavola da una selva di setole arruffate, d’un nero d’ebano già largamente brizzolato d’argento; colla fronte mezzo occupata da due ispide sopracciglia, sotto le quali scintillavano gli occhi mobilissimi; non lungo il naso, ma grosso, carnoso e sincero nel suo buon colorito vermiglio; nascoste le labbra sotto due baffoni che gli prendevano mezze le guance, andando a collegarsi colle fedine; e quel che restava di pelle alla vista era tutto un intreccio di solchi, da disgradarne un obelisco di Memfi, un cilindro di Babilonia, un mattone di Ninive.

Da quanto tempo trattasse la tavoletta spiritica, e come e perchè gliene fosse saltato il ticchio, non saprei dirvi adesso, non avendo pensato allora, a domandargliene. Certo, al tempo ch’io lo conobbi, la tavoletta e lui erano come pane e cacio: bastava ch’egli ci mettesse sopra le sue larghe mani callose, sfiorandola appena col sommo delle dita, perchè quella fremesse e scricchiolasse; poi, quando ci aveva dentro lo spirito chiamato, corresse,