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il mio latino 197

romagnoli, abbondavamo; tutta gente per bene, che viveva con pochi quattrini ma anche con molta dignità, anteponendo lo svago temperato di una conversazione in qualche casa d’amici, alla vita scioperata del caffè, o peggio, alla vita oziosa d’una sala da giuoco. Io ci avevo particolarmente gradita la conoscenza di un Torricelli, napoletano, gentil cavaliere, mingherlino e aggraziato, dagli occhietti vivi e dalla barbetta nera e lucida, che si muoveva tutta d’un pezzo ad ogni sorriso delle labbra sottili, che mettevano in mostra due fila di candidissimi denti. Era stato alla,ù difesa di Roma, ed uffiziale d’ordinanza di Garibaldi, nell’epica ritirata di San Marino, i cui particolari amavo farmi raccontare ad ogni tratto da lui.

Da questo amico mio fu chiamato una sera lo spirito di Archimede. Venne questi, e diè segno d’esser lì, pronto a rispondere; ma alla domanda mentale del Torricelli non rispose poi altrimenti che con certo guazzabuglio di linee, segnate sulla lavagna con un bel numero di salti avanti e indietro, a destra e a sinistra, pari a quelli che può fare sulla scacchiera il cavallo.

— Che roba è questa! — si chiedeva. — Ma questo non è rispondere.

— Anzi, — notò gravemente il Torricelli, — lo spirito risponde benissimo. Gli ho chiesto di descrivermi la forma del porto di Siracusa. —