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corresse, scrivendo con una velocitá maravigliosa. Rammento ancora d’un fatto strano intervenuto al brav’uomo, e ch’egli raccontava con molta semplicità, senza dargli importanza. Una notte, essendo egli nel primo sonno, era stato svegliato dalla moglie sbigottita, che aveva sentito battere all’uscio della camera. Gatti, non ce n’erano, in casa. Che si trattasse d’un sorcio? Ma no; era un colpettino secco, che ad ogni tanto si ripeteva, con insistenza, e via via con frequenza maggiore. Saltò dal letto il buon capitano, andò ad aprir l’uscio e al lume della candela che vide egli mai sulla soglia? La tavoletta, la tavoletta spiritica, che ben ricordava di aver lasciata sulla lavagna, nella sala delle amichevoli adunanze serali. Ed anche ricordava allora di averla lasciata là, senza rimandare pei fatti suoi l’ultimo spirito chiamato: ond’era ben naturale che quel poveretto venisse a chiedergli in quel modo la sua liberazione. Sorrise allora, il buon capitano; fece gli atti necessari per licenziare lo spirito prigioniero; quindi rimise la tavoletta al suo posto, dond’ella non ebbe più ragione di muoversi.

Si andava in molti, ogni sera, nella casa ospitale del nostro evocatore di spiriti; in una delle vie più antiche e più strette di Genova, tra la piazzetta della Posta vecchia e la piazzetta di San Luca. La più parte dei frequentatori erano emigrati, poichè si era poco innanzi il 1859; siciliani, napoletani, romani e