Sole d'estate/Elzeviro d'urgenza
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ELZEVIRO D’URGENZA
Fa presto, il Direttore di un grande giornale quotidiano, a spedire un telegramma così concepito:
«Pregola mandarmi d’urgenza elzeviro».
Lo scrittore, collaboratore ordinario del giornale, sebbene forse aspetti il telegramma, lo riceve con un sentimento misto di compiacimento e d’inquietudine. Compiacenza si capisce di che; inquietudine per la parola urgenza.
Poiché, per una ragione o per l’altra, egli ancora non ha pronto lo scritto; e buttarlo giù lì per lì, e sia pure in una giornata, ammettiamo anche in due, non è nelle sue abitudini.
Esistono, è vero, scrittori, e di grande valore, che possono ricevere imperterriti il telegramma; beati loro: ne conosciamo invece altri che ci fanno su una malattia.
Per conto mio l’urgenza dell’elzeviro mi desta sempre un vago indefinibile sgomento. Sarà forse ancora l’impressione del primo telegramma del genere, ricevuto, del resto non in tempi remotissimi, una notte sul tardi.
Stavo a leggere, mentre in casa già tutti dormivano. Si suona al cancello. A quell’ora, si sa, non può essere che un telegramma: e l’arrivo di un telegramma, per gente tranquilla, che non ha traffici, dà sempre un brivido, un senso di mistero.
Vado io stessa ad aprire, firmo col lapis del fattorino, sulla sporgenza della cancellata, rientro col foglio già squarciato, lo leggo alla luce dell’ingresso.
Urgenza. Elzeviro. La parola urgenza ancora non ha il suo schiacciante significato, perché ombreggiata dall’altra. Sappiamo, sì, poiché invecchiando s’impara, che cosa voglia dire il vocabolo «elzeviro» ma nella sua sola forma materiale: che cosa intimamente significhi, che cosa il nostro Direttore voglia benevolmente ma anche energicamente da noi, ancora la nostra innocente incoscienza dell’arte giornalistica non lo sa.
C’è l’aiuto dei libri, nel silenzio della notte e della casa, fortunatamente non interrotto dallo squillo del campanello: e da prima si consulta un certo vocabolario particolare; carissimo anche per ricordi di famiglia, passato di generazione in generazione; ma sebbene questo cimelio, gloriosamente spaccato, pieno di cicatrici, di illustrazioni e date che ne attestano il lungo servizio, sia il Nuovissimo Vocabolario della lingua italiana scritta e parlata, compilato sui più celebri suoi predecessori, dal Fanfani al Melzi, dal Rigutini al Tommaseo, e pubblicato non solo a Milano ma anche a Buenos Aires, ebbene, la parola Elzeviro non c’è.
Per fortuna c’è anche in casa, oltre a parecchi altri vocabolari a quest’ora non facilmente consultabili, una modesta Enciclopedia, in una stanza alla quale con cautela e senza far rumore si può accedere. Buono e utile libro, che si ha il torto di trascurare, anzi di evitare, come si evitano gli amici chiacchieroni, (per non chiamarli con un’altra parola d’uso), ma che si vendica bonariamente quando si ha, come in questa occasione, assoluto bisogno del suo sapere. Ed ecco il suo responso:
«Dal casato di una celebre famiglia di stampatori olandesi, gli Elzevir, prese nome quel carattere tipografico rotondetto, isolato, che oggi chiamiamo elzeviro, e che è usato esclusivamente per gli articoli di fondo (prima e terza pagina), come si usa un materiale scelto per oggetti aristocratici. Il capostipite di questa famiglia di tipografi fu Ludovico Elzevir, nato a Löwen, nel 1540, vale a dire circa un secolo dopo l’invenzione della stampa, quando già erano perfette le edizioni di Lipsia e le aldine a Venezia; merito degli Elzeviri fu il carattere latino e la nitidezza. Ludovico si trasportò a Leida, morendovi il 1617; e in quella città, i figli Mattia e Bonaventura, seguendo l’arte del padre, stamparono anche per il filosofo Cartesio. Con il figlio di Mattia, Abramo, e il di lui cugino Ludovico, la casa si trasportò ad Amsterdam, fino a che nel 1683, l’attività degli Elzeviri si spense. Impressero 2000 edizioni, oggi conservate in biblioteche nazionali tedesche e olandesi, fra le quali, importanti per novità e tecnica, il Virgilio, il Terenzio, il Salterio, e un Nuovo Testamento in caratteri greci, opera irta di difficoltà per quei tempi. Ogni edizione elzevira è facilmente riconoscibile per un’insegna quadrata, con una Minerva, il gufo preferito, l’albero della sapienza, simboli tutti del sapere. I caratteri, dunque, che imitarono quello stile, si chiamarono elzeviri, e, per traslato, i pezzi formati con essi».
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Il mistero è, così, completamente svelato. Con soddisfazione si torna alla tavola di lettura, e per maggiore sicurezza si apre il nostro caro grande giornale, che ci fa l’onore di stampare i nostri scritti in elzeviro.
L’articolo di fondo è lì; i caratteri ci sorridono, nitidi, nobili, signori della terza pagina; l’«elzeviro» di una colonna e tre quarti, domina come un castello sul feudo degli altri scritti.
Il telegramma, dunque, accenna a una novella, o ad un articolo di varietà. Scartato questo, che non è il nostro forte, rimane la novella. Qui siamo salvi, pesci nella nostra breve ma limpida e sicura acqua. Si può andare a dormire i soliti sonni tranquilli.
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E qui invece, comincia il vero, l’intimo dramma: e non da prendersi tanto in burletta. Se il Direttore ha fatto presto a spedire il telegramma, più presto fa l’autore a pronunziare la parola novella.
Si scrive, sì, la novella, con gioia, con tormento, anche; tormento che in fondo è l’ebbrezza del martirio come la sentivano gli eroi e i santi: e si può scrivere, sì, in poche ore; ma non quando all’autore pare e piace; o anche quando gli pare e piace, ma non per urgenze esteriori, non per lusinghieri e onorifici inviti; non per lo svago e il piacere del lettore; e neppure infine, per sé stesso. Si scrive quando è giunto il momento, quando il germe di essa novella è maturo, e l’artista ha il bisogno assoluto di scriverla.
Questo germe, nell’artista, non manca mai, come non mancano mai i germi nella terra, anche nei periodi di siccità e di gelo; ma dire alla terra, in questi periodi: germoglia, fa in poche ore crescere e sbocciare una rosa; è lo stesso che imporre ad uno scrittore, in certi momenti, di scrivere una novella.
La parola urgenza, qualche volta, però, un certo effetto lo esercita. Durante la notte che segue al telegramma dell’elzeviro, questa parola può far miracoli: è l’incubo, è vero, ma può essere anche la salvezza. Batte come una pioggia ristoratrice a tutte le fessure dell’anima in pena; è il lumicino nel tenebrore dello smarrimento.
Pur nei sogni agitati, germi di novelle, nascosti nel subcosciente, scoppiano, crescono, fioriscono come ninfee nei misteri notturni di un lago. I sogni stessi, non sono avventure straordinarie create dalla nostra fantasia? Nel dormiveglia, poi, tornano in mente i ricordi più belli, o i più tragici, o anche i più semplici, della nostra vita: da essi, come da ogni altra vicenda, alta od umile che sia, l’artista può trarre un capolavoro. E poi, sempre nella notte fatale, si rimuginano tante altre cose, non nostre, ma più che nostre, perché di tutti: fatti di cronaca, resoconti giudiziari, drammi e idilli e incidenti accaduti ai nostri vicini di casa. E le storie sentite raccontare di recente? Da quella della vecchia sottocuoca analfabeta, che girando il mondo, d’albergo in albergo, ha imparato quattro lingue e riferisce a sua volta straordinarie avventure di principesse capricciose, di eleganti farabutti, di dietroscene diplomatiche, a quella della piccola suora che fuggì di casa per farsi tale; dalle cronache del marinaio reduce dalla Cina, ai fatterelli scolastici e sportivi della nostra bambina.
Ma spesso, anzi quasi sempre, questi spunti di fatti accaduti, non garbano all’artista, orgoglioso della sua potenza creatrice. Egli vuole inventare anche il fatto, sia un dramma, un’avventura, un innocentissimo conto: far nascere dal suo cuore stesso i suoi personaggi; e che tutto, nella narrazione, sia suo; il sangue, la luce, i brividi del vero.
Ma appunto per questo bisogna stare in guardia contro i giochi della fantasia, sempre pronta a servirti molti argomenti — forse anche troppi — che presi bene in esame, come in un concorso, vengono mano mano scartati, bocciati, cestinati.
Eppure ce ne sono che farebbero la felicità di tanti buoni lettori. C’è, per esempio, il mai esaurito tema dei drammi famigliari: padri e figli in conflitto, sacrifizi e commedie coniugali; passioni, tristezze, tradimenti e miserie: ci sarebbe la storia dell’avaro che mentre muore vede già la rapina e la dispersione del suo tesoro; e quella del giovane ladro che penetra in una camera, della quale la finestra è continuamente aperta, rubandovi oggetti di vestiario che la tentazione lo induce in seguito a indossare e che gli comunicano la terribile malattia della quale il loro proprietario è morto.
E i titoli? Sono spesso il pernio del racconto, il motivo creatore della breve composizione. E come belli e tentatori! I regni della natura, le passioni umane, le invenzioni e scoperte, gli ultimi avvenimenti del giorno e le fantasie preistoriche, le leggende della terra natia e gli umili oggetti intorno a noi, si fanno la concorrenza per offrirceli in blocco: ma la stessa fatica della scelta ce li fa trascurare.
Infiniti poi sono gli spunti lirici, che quasi sempre però ricadono nel fatto personale, e coi quali bisogna andare ancora più cauti, almeno in questi momenti di scelta, penosa come un esame di coscienza.
E allora? Allora resta la fede in Dio, poiché c’è veramente un Dio che veglia sull’artista che ci crede; e la fede in sé stessi, nella propria ferma volontà di mai scrivere pagine fatte di sole parole: e infine la speranza nel domani riposato.
Con questi pensieri ritorna il sonno, — o forse è la stessa dolce violenza del sonno a provocarli, — e tutto rimane sospeso nel mistero del riposo.
E l’idea viene precisamente il giorno dopo, quando meno ci si pensa, nel groviglio delle altre preoccupazioni e delle altre fatiche quotidiane, quando, del resto, tutto si sopporta e si fa con sollievo, pur di non mettersi a scrivere. Donde scaturisca non si sa: quello che è certo è il senso di sorpresa e di gioia che l’accompagna. Gioia, pur troppo, riannuvolata di tormento, quando ci si rimette a tavolino e la vastità nivea della cartella da riempire, sembra un deserto lunare che aspetta di essere rianimato dal soffio creatore dell’artista.
C’è da far tutto, qui: da riportare un’atmosfera vitale, da fabbricare una casa, da piantare una vigna, da seminare un prato, da farci nascere, e qualche volta anche morire, uomini, bestie, uccelli.
Ci si fa coraggio; si comincia: le più difficili sono forse le prime parole. Rintronano, in quel deserto: destano quasi spavento, come voci nemiche: ma via via, dominate dalla buona volontà, dalla pazienza, dalla padronanza dello scrittore, si lasciano guidare, perdono il suono, precedono per la via aspra le altre che sono più miti, che non vogliono avere altro significato che quello che veramente hanno: e il significato delle parole non è tutto nel loro suono, come l’anima dell’uomo non è solo nella sua voce.