Sole d'estate/L'anello di platino
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L’ANELLO DI PLATINO
Andata via la signora Pùliga, rimasero dunque sole, la futura suocera, bianca e tonda come la luna piena, e l’aspirante nuora, bionda esile come la luna nuova; sole, nella stanza da pranzo, che col suo decente divano ricco di cuscini chiari con ricami di colombi, rami di pesco, grifoni e ragni, e le belle credenze coi vetri smerigliati, funzionava anche da salotto. Un aroma di buon caffè casalingo, cioè tostato macinato e preparato in casa, rallegrava l’atmosfera ospitale della stanza, mentre la lampada col velario verde e la frangia di perline dava al rosso-mogano delle pareti un riflesso glauco di tramonto primaverile. Sì, certo, qualche cosa d’insolito, di nuovo, di caldo, vibrava nel piccolo ambiente modesto e gentile; e lo sfondava, allargandolo in vasti cerchi fantasiosi, come una sala di piroscafo viaggiante in alto mare.
La prima a riscuotersi fu la presunta suocera; anzi, un sorriso malizioso, se non maligno, poiché il cuore di lei era buono e riboccante di saggia esperienza, le ringiovanì il viso grassotto, adorno di coraggiosi baffi grigi. Disse, con la sua voce ancora giovanile:
— Hai sentito bene tutto? E hai capito? L’ha fatta completa e ingenua, la sua esposizione, perché in fondo la mia buona Pùliga è rimasta come sono io: eravamo compagne di scuola, entrambe con le scarpe a chiodi e la borsa fatta dalle nostre mamme, come quella per la spesa: e avevamo, d’inverno, anche i polsini di lana rossa e blu: poi ci siamo perdute di vista: io ho sposato il mio bravo vicesegretario all’Intendenza, lei s’è sposata più tardi, con un piccolo proprietario, quasi un paesano, che non sdegnava di far pascolare il suo gregge. Adesso hanno qualche cosa come mezzo miliardo; palazzi, ville, quadri di autore, automobili, domestici, s’intende, gioielli, dei quali il migliore è il loro unico figliuolo.
A quest’uscita, la fanciulla si scosse anche lei, anche lei sorrise, anzi rise; ma il suo era proprio un riso maligno. L’altra protestò:
— Non l’ho detto per male. Un ragazzo di vent’anni, che studia, e non ha vizi, e nonostante i suoi milioni vuol lavorare, non è un gioiello? E poi anche un bel ragazzo, forte, sano.
— Lo dice sua madre!
Pareva quasi indispettita, la piccola Leny, e faceva smorfie scimmiesche. Della scimmia aveva invero gli occhi vividi e acuti, ma le lunghe ciglia arricciate ne smorzavano l’incosciente animalità: del resto era bellissima, con la carnagione di gardenia, una bocca da render pazzi gli uomini, e un personalino chiuso in un abito nero qua attillato, là a falde, che la faceva paragonare ad un’amazzone in miniatura: paragone sciupato, è vero, dalle collane di vetro e dagli orecchini che l’adornavano selvaggiamente.
L’altra, ricordandosi che era dover suo dare anche qualche lezione alla futura nuora, ribatté, seria:
— Una madre non può mai mentire, a proposito del figlio: la madre vede sempre bello il figlio, questo è vero anche; ma la mia amica Pùliga è troppo schietta, leale e semplice, per esagerare le virtù del suo. E poi non avrebbe neppure scopo di vantarlo, specialmente davanti a una ragazza. È tanto ricco.
Ma l’anima ancora caotica di Leny si sollevò di nuovo, tutta, in una risata che era infantile e nello stesso tempo perversa.
— Oh, — disse, — non avrà certo pensato a me, per suo figlio. Però mi guardava in un certo modo...
Ecco ch’ella si vendicava, in un certo modo anche lei, dei predicozzi dell’altra: ahimè, erano già di fronte, la suocera e la nuora, le eterne irreconciliabili nemiche.
*
Sotto l’apparenza di amazzone per giocattoli, Leny nascondeva però, senza saperlo, un fondo di bontà fragile e pura: dopo tutto aveva appena diciannove anni, e il suo vero nome, provincialmente storpiato, era Maria Maddalena. Amava anche lei il suo impiegatuccio, povero ma operoso e dritto come un fuso che tira e attorce il filo forte della vita; e ricordandosi di lui, e lo scopo per il quale era venuta, i vapori che la visita della signora Pùliga aveva suscitato intorno si sarebbero subito dileguati, se l’altra, un po’ per innocente vanità, un pochino di più per spirito cattedratico, non avesse ripreso il motivo eccitante che accompagnava la storia della sua antica compagna di scuola:
— Questo non lo ha detto, perché è abbastanza religiosa per non far pesare troppo la sua fortuna su gente, come noi, che possiede solo la fortuna della propria semplicità; ma i suoi milioni si accumulano e crescono in modo fantastico, quasi vertiginoso, perché appunto lei, il marito, il figlio conducono una vita in fondo sobria e, in un certo senso, economica. Sarà anche per la forza dell’abitudine. Ti ho detto che il marito aveva solo un pezzo di terra quasi arida, in montagna: d’estate vi cresceva un po’ di erba, ed egli vi faceva pascolare le sue pochissime pecore: ed ecco che un giorno, come nelle favole, egli batte per caso il bastone contro una roccia, e la roccia scintilla come la pietra focaia: incuriosito, egli spezza il masso e ne cava un frammento luccicante: era platino: una miniera di sua esclusiva proprietà.
*
La parola platino parve di nuovo richiamare Maria Maddalena alla realtà grigio-rosea della sua vita. Si drizzò sulla schiena, fra i cuscini dove prima stava semisdraiata, si tirò giù la veste sulle caviglie lucide come canne d’organo, si aggiustò il cappellino col fiocco che pareva l’ala di un mulino a vento. Disse, abbassando le palpebre, anche perché sapeva che così il suo viso prendeva l’espressione di una Madonnina infilzata:
— Mamma, devo dirti una cosa; sono qui per questo. Abbiamo litigato, con Gregorio; sì, purtroppo. Non sorridere: non dire che sono le solite bizze. Lui è molto arrabbiato; anzi mi aveva proibito di venire qui, e guai se lo sa. Non ti ha detto nulla? Ebbene, ti dirò come è andata. Voleva farmi l’anello da fidanzata. E francamente, come usa sempre, a volte persino con una certa brutalità, mi annunziò che mi avrebbe dato uno dei tuoi anelli, tanto più che tu non li metti mai, proprio così, mi disse: e, naturalmente, io mi sono alquanto piccata. — Spero, gli dissi, — che almeno mi darai quello di platino, con lo zaffiro. — Perché? — domanda lui, inalberandosi. — Perché, — ribatto io, dispettosa, lo confesso, — è l’unico anello di tua madre che ancora è alla moda: gli altri sono dell’epoca etrusca. — Mai avessi pronunziato queste parole. Forse egli era in un brutto momento di nervi: fatto sta che mi toccò sgarbatamente la collana e gli orecchini, e sibilò a denti stretti: — E questi, di che epoca sono? Del più puro Novecento! Tu dovresti baciarti il gomito a ricevere uno degli anelli di mia madre: il più umile di essi, di oro vero però, vale mille e mille volte più di tutta la tua chincaglieria esterna ed interna. — Così, mamma, proprio così, mamma. Ma no, forse io non posso più chiamarti con questo nome, perché ho risposto male anch’io, a Gregorio, ed egli se n’è andato imponendomi di non venire più a trovarti: e non so, non so che cosa egli intendeva dire.
Intendeva bene lei, la mamma: poiché Gregorio non le aveva nascosto niente; e da troppo tempo egli sbuffava e si gonfiava come un riccio, tutto spine e tutto dolore: ma non era certo lei, la madre, a voler rinfocolare la stizza dei fidanzati, anzi cercò il suo più mite sorriso d’indulgenza, e batté la mano sulla mano della fanciulla.
— Gl’innamorati, si dice, fanno lite per aver poi il piacere di rappacificarsi. Lascia sbollire lo sdegno del signorino. Forse è la gelosia che lo fa parlare.
Maria Maddalena, però, scuoteva la testa, e sotto le palpebre sempre abbassate i suoi occhi prendevano la più pura luce concessa ad occhi umani: quella delle lagrime. E un’altra luce più grande le saliva dal cuore: la voglia di confessarsi:
— Non è gelosia, e se lo è, è una gelosia terribile, una specie di odio. Non sono una stupida, per non comprenderlo; egli sa che siamo come due persone di razza diversa: lui tutto anima, tutto d’un pezzo, rigido come una verga d’acciaio; io frivola, amante delle apparenze, qualche volta bugiardina: mi piacerebbe, certo, il lusso, il divertimento, le cose belle, l’automobile, le serate di gala, le grandi stazioni balneari...
Si fermò, impaurita di sé stessa; ma la mamma le batté di nuovo la mano sulla mano. Disse scherzando:
— Ti converrebbe il signorino Pùliga, allora.
Scherzava, sì, ma la sua voce aveva come un velo: uno di quei veli che coprono d’improvviso il sole e, senza offuscarlo, per il momento, minacciano vagamente di addensarsi e diventare nuvole burrascose. Leny sollevò le palpebre, ringoiò le lagrime: la luce del suo cuore si spense. Sentì che fra lei e Gregorio, fra lei e la mamma di Gregorio, si apriva un oceano: da una parte loro, madre e figlio, sulla riva lineare di una esistenza fatta di nulla e di tutto; dall’altra lei, sullo sfondo di un miraggio bellissimo e spaventoso. No, la madre non scherzava, con le sue ultime parole; e Leny, con gli occhi bene aperti, adesso, pensava che bisognava andarsene, camminare, cercare altrove: chi cerca trova. E si alzò, decisa di andare in cerca della signora Pùliga. Ma le faceva male il cuore, perché dentro vi sentiva, sì, un nido di serpentelli.