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Si scrive, sì, la novella, con gioia, con tormento, anche; tormento che in fondo è l’ebbrezza del martirio come la sentivano gli eroi e i santi: e si può scrivere, sì, in poche ore; ma non quando all’autore pare e piace; o anche quando gli pare e piace, ma non per urgenze esteriori, non per lusinghieri e onorifici inviti; non per lo svago e il piacere del lettore; e neppure infine, per sé stesso. Si scrive quando è giunto il momento, quando il germe di essa novella è maturo, e l’artista ha il bisogno assoluto di scriverla.

Questo germe, nell’artista, non manca mai, come non mancano mai i germi nella terra, anche nei periodi di siccità e di gelo; ma dire alla terra, in questi periodi: germoglia, fa in poche ore crescere e sbocciare una rosa; è lo stesso che imporre ad uno scrittore, in certi momenti, di scrivere una novella.

La parola urgenza, qualche volta, però, un certo effetto lo esercita. Durante la notte che segue al telegramma dell’elzeviro, questa parola può far miracoli: è l’incubo, è vero, ma può essere anche la salvezza. Batte come una pioggia ristoratrice a tutte le fessure dell’anima in pena; è il lumicino nel tenebrore dello smarrimento.

Pur nei sogni agitati, germi di novelle, nascosti